“Raccontare la fine del mondo”, di Marco Malvestio

Ho cominciato questo nuovo anno di letture con “Raccontare la fine del mondo”, di Marco Malvestio. Attraverso l’analisi di opere iconiche appartenenti al genere della letteratura distopica e della narrazione post-apocalittica – da pagine che hanno fatto la storia come “La spiaggia terminale” di J.G.Ballard a pellicole blockbuster quali Resident Evil – l’autore (ricercatore presso l’Università di Padova) si impegna a raccontare le modalità e le ragioni in base alle quali queste tipologie di “scritture dell’immaginario” sono state scelte, sin dal 1800, come forma prediletta per – appunto – “raccontare la fine del mondo”.

Il tema cardine intorno a cui ruota questo saggio, scorrevole e adatto anche ai neofiti della materia, è la definizione di Antropocene (“L’intera era geologica caratterizzata dall’impatto delle attività umane sull’ambiente”) e la maniera in cui questa nuova, nostra epoca – che alcuni fanno cominciare dal primo test nucleare della storia (il Trinity test, 15 luglio 1945), altri dalla Rivoluzione Industriale – è declinata, spiegata e (o) interpretata all’interno del contesto letterario e (o) cinematografico della fantascienza.

L’opera si sviluppa in cinque capitoli a tema, ciascuno dei quali affronta la fiction distopico/apocalittica in base all’argomento che essa, di volta in volta, si ritrova a trattare: il nucleare, la pandemia, il cambiamento climatico, il regno vegetale, il regno animale. Il punto di Malvestio non è tanto quello della lettura critica di un catalogo (anche perché – per stessa ammissione dell’autore – le opere e le pellicole citate sono moltissime e varie ma riferiscono quasi tutte alla sfera di influenza nord-americana, o in generale anglosassone, e mancano i rimandi alle nuove forme di fantascienza di matrice asiatica, al sistema multiforme dell’Afrofuturismo, a tutta la galassia Solarpunk) quanto quello del domandarsi per quali ragioni la nostra contemporaneità, pur nella sostanziale durevolezza (perché questo nostro tempo, malgrado la pandemia, è di fatto uno dei periodi più floridi per il genere umano), sia così interessata alle (no, diciamo meglio: ossessionata dalle) fantasie sulla catastrofe.

In questo senso è evidente il merito di “Raccontare la fine del mondo”, che è quello dell’insegnare un linguaggio. Analizzando le motivazioni che stanno alla base di opere quali “La spiaggia terminale” di J.G.Ballard o “L’esercito delle dodici scimmie” di Terry Gilliam, “Contagion” di S. Soderbergh e, ancora, la trilogia dell’ “Area X” di Jeff VanDerMeer o “Il pianeta delle scimmie” di Pierre Baulle, Malvestio introduce al lettore i concetti dipaesaggio sintetico” e di “spazi dell’assenza” e crea familiarità, per esempio, con il pensiero della “medicina positivista” e del “sogno del contenimento igienico” che, nella fantascienza, sono gli strumenti attraverso cui vene fatto emergere il sommerso tutto occidentale delle ansie sinofobiche (post)coloniali, nell’ottica di una “trasformazione” vista come contaminazione verso cui si prova un timore che è “cultural(e) e politic(o) prima che sanitari(o)”. Per non parlare dello nzumbe di origine congolese, che se nella tradizione kikongo significa “il feticco”, nella trasposizione d’oltreoceano rivela, ancora una volta, l’ansia di contaminazione da parte del “suddito coloniale schiavizzato”. Impariamo poi la categoria concettuale degli iperoggetti, all’interno della quale occorre inserire la discussione sul cambiamento climatico inteso come “entità diffusamente distribuita nello spazio e nel tempo” e infine, nei capitoli dedicati al mondo vegetale e a quello animale (inteso come “tutti eccetto l’Uomo”), ci avviciniamo alle nozioni di “agentività vegetale“, plant blindness, “anti-antropomorfismo” ed ecofobia (oltre che alle categorie letterarie del terroir, del weird e dell’eerie).

Ancora una volta, insomma, la tanto vituperata fantascienza si rivela uno tra i pochi strumenti di creazione artistica a nostra disposizione – nella parola scritta, nel fumetto, nella produzione cinematografica – utile a “immaginare un futuro possibile e attraverso questo futuro di ripensare il presente“.

Note: 1) I virgolettati sono citazioni che provengono direttamente da “Raccontare la fine del mondo”. 2) In calce al volume è presente una corposa bibliografia, che per la maggior parte delle voci è costituita da testi (saggi, pubblicazioni universitarie, articoli, long-form) stranieri mai tradotti in italiano: questo fatto la dice lunga sullo stato di queste analisi in Italia. 3) Su ADC ci siamo più volte occupati degli argomenti toccati nel saggio di Malvestio. Qui ai link sotto lascio alcune letture, ordinate per argomento. 4) Sul Twitter, a questo link, citazioni e altri approfondimenti su punti specifici di “Raccontare la fine del mondo”.

La “Trilogia dell’Area X” e “Borne” di Jeff VanderMeer, “Loop” di Simon Stalenhag per capire il new weird e lo “sci-fi vintage” – “Una passeggiata nella Zona” di Markijan Kamyš, “L’altro mondo” di Fabio Deotto, “Qualcosa là fuori” di Bruno Arpaia, “La sesta estinzione” di Elizabeth Kolbert, “La grande cecità” di Amitav Ghosh per parlare di Antropocene e cambiamento climatico – “Neghentopia” di Matteo Meschiari, “La guerra invernale nel Tibet” di Friedrich Dürrenmatt per un tuffo profondissimo nelle distopie post-apocalittiche più buie.

“La tentazione”, di Luc Lang (trad. Tommaso Gurrieri)

“Con quella domanda che lo ossessiona: si può perdere la speranza? Nell’idea di potere mette un certo valore morale, a meno che non si tratti della legge, ho il diritto di perdere la speranza?”

Fino a che punto un padre più spendersi per i figli? Esiste un limite, un momento all’interno del quale – frazione di secondo, millimetrica – sia corretto, finanche necessario, prendere la decisione irrevocabile di farsi da parte? Un padre, una madre: smetteranno mai i panni di genitori? Esiste un punto, un momento di fine – pari all’inizio, il primo abbraccio con il neonato – che non venga a coincidere con l’attimo stesso della propria morte?

Siamo nell’Alta Savoia, sugli alpeggi di Lanslebourg Mont-Cenis. Terra di frontiera tra Francia, Svizzera e Italia, campagna fiabesca di natura incontaminata, acque di laghi e torrenti, aspra montagna. Qui il chirurgo cinquantenne François, di stanza a Lione, possiede una grande e lussuosa tenuta di caccia, eredità della famiglia paterna – gloriosa stirpe di rinomati medici condotti. Un buon ritiro che negli anni ha benevolmente adottato chiassose truppe di figli, nipoti e pronipoti e che ora, nel silenzio delle prime nevicate novembrine, accoglie il solitario Francois, pronto per le battute di caccia – attività cui si dedica con eccellenza da più di trent’anni.

“Le riserve di cibo si accumulano in modo ridicolo in un posto in cui non ci sono più figli, cacciatori o cani, dove non c’è più né una moglie né altri parenti. L’edificio è sontuoso ma il regno è in rovina, soltanto gli esseri che lo abitano ne consacrano la magnificenza.”

Lang ci trasporta nel microcosmo dorato dell’alta borghesia lionese, un’enclave particolarissima all’interno della quale sobrietà di costumi e silenziosa compostezza rendono ancora più evidente lo scarto tra chi il denaro lo possiede da sempre e chi invece s’adopera per una babelica ostentazione di uno sfarzo d’arricchito. A questa seconda categoria appartiene, con profondo sconcerto paterno, il primogenito Mathieu che dopo aver abbandonato la facoltà di medicina ha trovato successo come operatore finanziario presso una società di investimento londinese dalla clientela internazionale, selezionatissima, e cifre a otto zeri. Mathilde invece, la secondogenita, è specializzanda in ginecologia ma la condizione economica privilegiata la rende insicura e svogliata mentre una certa fragilità emotiva la riduce facile preda di relazioni sentimentali nocive. Anche Maria, moglie sensualissima e svagata, lunatica e imprevedibile, da tempo non frequenta più gli ampi saloni della tenuta: apolide e disconnessa, attraversa lo spazio-tempo con la borsa da viaggio: in Italia dalla sorella, a Londra e New York per far visita al figlio oppure ospite di conventi e monasteri per settimane di spiritualità e meditazione. Ovviamente niente è come sembra: gli entusiasmi mistici di Maria nascondono non il tedio di una ricca dama annoiata ma gravissime turbe psichiche; Mathieu, vittima dell’affetto ossessivo e morboso della madre, vive nel lusso precario e criminale degli investimenti ad altissimo rischio e Mathilde, quando si degna di comparire tra le mura domestiche, ha il viso scavato della ragazza interrotta.

“Non poter distogliere sua figlia dal loro mondo è più di una disfatta, è un fallimento. Il suo mondo non è più abbastanza vasto da contenerla, da consentirle di starci bene. Del resto non è un problema di geografia, né di estensione né di superficie. Per Mathieu vale lo stesso. Non capisce ciò che li smuove, ciò che li anima, ciò che capta la loro attenzione e la loro energia, non ha la sensazione che suo figlio e sua figlia abbiano accesso a una felicità meglio configurata, più intensa.”

Il punto di svolta – o meglio, la tragedia – si capisce, è dietro l’angolo. Solo questo, qui, si può dire: saranno i figli ad aprire la porta al buio, con quel misto di ingenuità, entusiasmo, buonafede, sindrome di onnipotenza, svalutazione del pericolo propri di certa giovane età adulta. E toccherà a François, dottore all’antica che del ruolo di genitore e di chirurgo ha fatto religione, giuramento di Ippocrate compreso, farsi carico di questa tenebra spaventosa.

“(…) è come una separazione di mondi, quello del padre pesantemente appoggiato su un passato che lo guida, quello del figlio ampiamente aperto su un futuro che lo rende privo di limiti e probabilmente lo esalta. François dubita che possano ancora coesistere nella stessa storia.”

È complicato raccontare pagine che per come sono scritte rasentano la perfezione. Non per nulla è proprio con “La tentazione”, romanzo vincitore del prestigioso Prix Médicis 2019, che Luc Lang, professore d’estetica all’École nationale supérieure d’arts de Paris-Cergy e autore di altri undici romanzi, entra di diritto nella lista degli scrittori contemporanei francesi più influenti. Perfezione della struttura prima di tutto, costruita da episodi incatenati l’uno all’altro (l’arco temporale della narrazione è brevissimo, la vicenda occupa unicamente un paio di giornate a cavallo delle festività di inizio Novembre) di cui il successivo approfondisce il precedente. Nei dialoghi sospesi, concreti, spolpati da qualsiasi orpello. Nelle parti descrittive, all’interno delle quali – un new nature writing elegantissimo – lo splendore della montagna, delle sue asprezze autunnali, degli animali magnifici che la abitano è disegnato per mezzo di un linguaggio tecnico la cui accuratezza che non inficia, anzi accresce, lo stupore per terre ancora incontaminate. Nella capacità di penetrazione psicologica che l’autore mostra verso i suoi personaggi, in particolare verso François per il quale Lang sembra nutrire un affetto pieno di compassione.

“L’entrata nel mondo adulto, François lo ha notato, è così netta che segna ogni volta, senza le difficoltà di un’esitazione, la diaspora dei figli. Eppure hanno condiviso giochi e sogni, i legami sembravano saldati per sempre, ma niente resiste all’euforia del sacramento, diventare adulti, diventare, ci si immagina, liberi e potenti, perlomeno il tempo di scontrarsi con i limiti del possibile, facendo allora recuperare l’infanzia in ognuno come un desiderio perduto dei confini in cui si vivevano come reali le avventure più folli.”

Il ribaltamento che Lang opera nei confronti del romanzo familiare è notevole, tanto più perché questo processo di analisi si dimostra profondamente distante dalla concezione che ancora appartiene a una parte consistente della nostra narrativa contemporanea. “La tentazione” infatti non tratta di una redenzione a opera delle nuove generazioni alla maniera, mutuata in parte dal romanzo americano, della drammatica ma gloriosa e consapevole risalita successiva al tragico crollo; al contrario racconta di una discesa agli inferi che aspramente condanna senza appello quelle mollezze generazionali che noi genitori occidentali fingiamo spesso di ignorare. “La tentazione” è cuore di tenebra che ci conduce dritti al crepuscolo del padre nella tragicità del proprio fallimento. La fortuna di queste pagine sta, di fatto, nella terrificante banalità delle domande proposte: cosa potremmo essere ancora in grado di insegnare ai nostri figli, nel momento in cui il patto educativo all’interno della famiglia si spezza, nonostante il patto educativo si sia spezzato? Cosa non ha funzionato nel nostro sistema di trasmissione del sapere? L’insuccesso dei figli è – comunque e sempre – attribuibile e conseguente alla nostra insufficienza?

“Ripercorre la sua vita passata dalla nascita dei figli, cerca di individuare qua e là delle mancanze, degli errori che ha fatto, una scena forte, traumatica, che potrebbe aver dato origine a una traiettoria, l’inizio di una storia che potrebbe ricondurre al presente di Mathilde e Mathieu.”

“La tentazione” – il significato del titolo non si può spiegare, verrà da sé leggendo pagina dopo pagina, e molto in là con la lettura, non per tramite di una una rivelazione né di una spiegazione ma attraverso un processo di presa di coscienza in cui il lettore verrà attivamente coinvolto – è un’opera di gran pregio perché tramite una scrittura affilatissima, fanaticamente spoglia, tipica d’oltralpe (niente di troppo, niente di troppo poco, tutto in equilibrio, un’armonia senza sforzo – solo all’apparenza) è in grado di riferirsi a un ricco substrato contenutistico che caratterizza, di base, il genere noir. Genere che spesso, ormai, si ritrova bistrattato dalla spettacolarizzazione della trama, dalla resa cinematografica del dialogo, dall’ambientazione esotica, da una scansione temporale infelice – e no, di tutte queste violenze, qui, non troverete traccia.

“C’è ovviamente un corpo, un volto, una persona che sta in piedi, ma il padre ha perso il sentiero che conduceva al figlio, di cui nutriva la storia, partecipando con fervore al tempo aperto di un Mathieu incompiuto. Oggi c’è un confronto brutale con un individuo senza un legame speciale.”

“Tre millimetri al giorno”, di Richard Matheson (trad. Eladia Rossetto)

“Il ragno si avventò contro di lui sulla sabbia in ombra, agitando freneticamente le zampe filiformi. Aveva un corpo nero, lucido, a forma d’uovo, che tremolava per la furia dell’assalto e si lasciava dietro sulle dune immobili una scia di graffi che smuovevano rivoletti di sabbia,”

A leggere Matheson la sera, poi di notte si dorme poco. Non che non si sapesse, certo, eppure va sempre ribadito sia mai che qualche incauto tenti la strada della leggerezza alla ma che sarà mai.

Con questa lugubre fiaba della buonanotte Matheson punta a raccontare ben altro oltre alla conturbante storia di un poveretto che, contaminato da una sostanza radioattiva, a un certo punto comincia, inesorabilmente, a rimpicciolirsi. A parte la genialità dell’idea, i temi che l’acutissimo Matheson mette sul piatto con “The Shrinking man” sono parecchi e riguardano due questioni fondamentali: il rapporto dell’uomo con se stesso e nei confronti della collettività.

“Scott pensò all’assicurazione sulla vita, che aveva avuto intenzione di fare. Rientrava nei suoi progetti, quando si erano trasferiti all’Est. Prima il lavoro alle dipendenze del fratello, poi la richiesta di un prestito governativo con la speranza di diventare socio nell’impresa di Marty. Avrebbe avuto l’assicurazione sulla vita, l’assistenza medica, un conto in banca, una macchina decente, bei vestiti, finalmente una casa. Un recinto di sicurezza e di solidità attorno a sé e ai suoi. E ora gli capitava questo guaio, che buttava all’aria tutti i piani, e minacciava di annientarli.”

Scott Carey rappresenta da una parte il tipico self made man americano del boom post-bellico, il wasp duro e puro, il maschio-etero-cis per il quale nulla conta a parte le… dimensioni (della casa, della macchina, del portafogli, del conto in banca e sì, anche di quello). Per far fortuna e ottenere l’agognato upgrade sociale Carey raccoglie baracca e burattini, moglie e figlioletta e si trasferisce “all’Est”, per impiegarsi nella ditta del fratello il quale, apparentemente già arrivato, promette guadagni consistenti e una vita che dovrebbe infine corrispondere all’immaginario collettivo del momento. Peccato che, giusto qualche settimana più tardi, durante una gita in barca Carey venga investito da un’onda anomala pregna di sostanze tossiche che in qualche modo alterano il suo codice genetico.

Scott Carey però è anche un survivor. Reduce dalla guerra – contesto che esplicitamente viene solo accennato ma che è ben presente in tutto il sottotesto – è un individuo che di fatto riesce a re-inserirsi nella società civile soltanto a prezzo del tormento: l’adeguamento a un canone imposto (che alla fine per Matheson è auto-imposto, e il punto sta tutto qui) gli procura un disagio profondo precedente alla “trasformazione”, che viene poi da essa esacerbato, nella continua tensione tra il desiderio spasmodico di tornare al presente e la feroce consapevolezza che quel presente altro non rappresenta se non un passato che il protagonista, per quanti sforzi faccia, non sarà in grado di recuperare. Schiacciato tra il senso di colpa del sopravvissuto, l’incapacità di affrontarlo, il bagaglio culturale di valori e stili di vita che si fanno, più che àncore di salvezza, zaino di sassi a pesar sulla schiena (pietre da cui, ci sussurra Matheson, non sarebbe nemmeno così impossibile liberarsi) il protagonista affronta la realtà del vivere quotidiano armato di strumenti spuntati, inutili allo scopo.

Di tutto questo sono un esempio le difficoltà nei rapporti interpersonali (per esempio con i medici, branco di imbecilli che secondo Carey non si sforzano a sufficienza per comprendere la natura del male che lo affligge, o col fratello – che, diciamolo, si rivela non certo un campione di intelligenza né di altruismo – verso cui occorre mostrarsi in ogni modo deferenti) oppure nella relazione con la moglie “Lou” all’interno di una dinamica matrimoniale in cui i ruoli, spartiti a dovere sino al momento della “contaminazione”, successivamente al fattaccio si trovano a ribaltarsi tragi(comi)camente con un uomo maturo che via via acquista la statura e la voce prima di un trentenne, poi di un boy scout in età di brufoli e infine di un pupazzetto relegato in una casa di bambole acquistata al Toy’s Center e con una donna che deve di necessità dismettere il ruolo di massaia-consorte e vestire i panni di colei che avrà il compito di tirare avanti la casa, la figlia e il conto in banca (spoiler: non ci riuscirà). Matheson dedica spazio, non tanto per la quantità di pagine ma per l’intensità di alcune scene, al rapporto di Carey con la figlioletta, descrivendo in maniera davvero illuminata il meccanismo affettivo-educativo tipico del tempo, basato non su amorevolezza sincera, empatia e contatto fisico ma su un rapporto che si nutre di autoritarismo, rigore, estraneità e che una volta cominciata la “trasformazione” comincia a scricchiolare nella rivelazione del re nudo che perde l’autorevolezza nei riguardi della figlia per il semplice fatto che essa si basava soltanto sulle “dimensioni” intimidatorie della figura paterna.

“Scott si trasferì nella casa giocattolo, ma i mobili non erano progettati per essere comodi, perché alle bambole la comodità non serve.”

A causa del processo di rimpicciolimento Scott Carey si trova ad affrontare due aspetti del quotidiano che nell’epica americana dell’uomo padrone del proprio destino costituivano un tabù: il dover dipendere dagli altri in quanto portatori di handicap e il modo in cui gli adulti interpreta(vano) il microcosmo familiare e il rapporto con i bambini.

” – È per il tuo bene.

Ormai usava quella frase in ogni occasione. La pronunciava con un tono disperatamente paziente, come se non trovasse niente di meglio da dire.”

A parte Lou, che si trasforma da moglie amorevole, devota e francamente asessuata a madre premurosa – e infastidita – a mano a mano che il marito rimpicciolisce, è in alcuni episodi magistrali che Matheson rende esplicita questa interpretazione del reale: quello in cui un Carey, alto poco più di un liceale e rimasto in panne con l’automobile, chiede aiuto a un passante da cui riceve delle molestie e quello in cui, ancora più piccolo di statura, viene bullizzato da un gruppo di teenagers.

Si è parlato di “The shrinking man” come di un libro che, in forma di metafora, critica aspramente il ruolo del maschio americano nel secondo dopoguerra; non mi pare tuttavia che le figure femminili ne escano viceversa al meglio: incapaci di adattarsi ai tempi che cambiano, ancorate alla ricerca di un benessere materiale che, come si vede, alla fin fine non garantisce una serenità duratura e a dei cliché prebellici che vengono utilizzati come parametro di riferimento per la costruzione di un presente che, di fatto, è irrecuperabile. In questo senso “Tre millimetri al giorno” è piuttosto una profetica critica feroce a tutto il sistema-famiglia e a quella struttura economico-sociale che, come abbiamo avuto modo di accorgerci negli ultimi, recenti momenti della storia americana, ha prodotto il collasso della stessa.

In questo senso “Tre millimetri al giorno” porta con sé i segni del tempo, in maniera specifica nella simbologia del maschio che sublima la propria esistenza attraverso la lotta: qui rappresentata dal ragno velenoso che Carey si trova a dover affrontare, chiuso nel seminterrato di casa dal quale ormai, date le dimensioni microscopiche, è impossibile fuggire. Come il più tipico supereroe americano, Scott Carey combatte contro l’alieno: peccato che l’alieno non sia altro che un insignificante e innocuo insetto e che il motivo del combattere sia conseguenza di un errore umano per quanto, probabilmente, frutto in certa misura anche del caso.

Note: non possedevo “The Shrinking man” sicché l’ho acquistato nella nuova edizione Oscar Fantastica di Mondadori con la traduzione di Eladia Rossetto. Si rivela un bell’oggetto nelle dimensioni e nella carta della sovraccoperta. L’illustrazione di copertina è di Andrea Cavallini (aka Dr. Bestia) e possiede un gusto retrò evocativo e affascinante. A livello di editing, qualche controllo in più sui refusi non avrebbe guastato.

“Ritorno dall’universo”, di Stanisław Lem (trad. Pier Francesco Poli)

“(…) gli argomenti della ragione sono impotenti di fronte alle abitudini dominanti.”

“Orfeo andò a cercare Euridice nell’Ade. Otello per amore uccise. La tragicità di Romeo e Giulietta… oggi non esistono più tragedie. Non ne esiste neanche la possibilità. Abbiamo eliminato l’inferno delle passioni, ma nello stesso momento ci siamo accorti che anche il cielo aveva cessato di esistere. Ora tutto è tiepido, Bregg.”

Di Lem (Leopoli 1921 – Cracovia 2006) si celebra quest’anno il centenario della nascita e Sellerio, che già ha a catalogo “Solaris” e “L’invincibile”, per l’occasione propone il romanzo “Ritorno dall’universo”.

Questo classico della fantascienza, scritto nel 1960 e ora presentato in nuova traduzione dal polacco, racconta il ritorno a casa dell’astronauta Hal Bregg, appena rientrato da una missione interstellare: dieci anni a bordo che ne significano centoventisette di tempo terrestre.

Come si può immaginare, il rimpatrio non sarà così facile perché Bregg si scopre alieno a casa propria, sia per causa dell’incredibile sviluppo tecnologico sopraggiunto durante l’assenza (che comprende anche una profonda mutazione del linguaggio, diventato quasi incomprensibile a livello semantico) sia perché l’unico compito degli esseri umani è, a quanto sembra, vivere una vita più comoda, piena e divertente possibile mentre tocca ai robot lavorare, produrre, servire: attività rispetto alle quali gli esseri umani non hanno contezza, limitandosi a un blando ruolo di supervisione.

“Mi fermai, respirando a fatica, vicino alla piscina, stetti sul bordo di cemento e vidi il riflesso delle stelle. Non avevo bisogno di stelle. Ero stato un pazzo, un folle, quando avevo lottato per prender parte alla spedizione, quando mi ero lasciato ridurre a un sacco che schizzava sangue (…), a che mi era servito, perché, perché non sapevo he si deve essere uomini comuni, i più comuni possibile, perché altrimenti è impossibile vivere e neanche vale la pena.”

“Ritorno dall’universo” affonda le radici nell’epica del νόστος omerico; un non a caso su tutti, “Prometeo” e “Ulisse”, le due navicelle su cui Bregg era di equipaggio. Se il riferimento al viaggio di Odisseo viene abbastanza intuitivo, per il ritorno di Prometeo dobbiamo rifarci a una mitologia ancora più antica all’interno della quale il titano, benevolo verso gli uomini, consegna loro il fuoco, il simbolo del progresso “illuministico” che spinge l’umanità all’affrancamento dalla superstizione e che con Bregg assume le forme di una “verità rivelata” scomoda da affrontare; per questo, Prometeo subirà l’ira e la punizione di Zeus, che consiste non nella morte ma nel supplizio fisico eterno e cosciente.

” – Lo sai perché non hanno detto niente del nostro arrivo?

– Qualcosa nel reale mi sembra ci sia stato. Non l’ho visto. Ma me l’ha detto qualcuno.

– Sì, ma moriresti dal ridere se tu lo vedessi. Ieri, nelle prime ore del mattino, è rientrata sulla Terra un’équipe di studiosi dello spazio extraplanetario. I suoi membri stanno bene. Si è cominciato a elaborare i risultati scientifici della spedizione. Fine, punto e basta. “

Lem, di fatto, costruisce un romanzo per episodi all’interno del quale affronta il tema del ritorno a casa del reduce di guerra – condizione che egli stesso ha ben sperimentato, in pari con quella dell’esule. Il senso di spaesamento al momento dell’arrivo viene rappresentato da Lem con la stazione ferroviaria, Babele di luci, scale, ascensori, colori insostenibili per la loro cacofonia. Le difficoltà del re-inserimento sociale sono dipinte raccontando alcuni momenti di tentato divertimento (bar, festa, “reale”), all’interno delle quali le percezioni del protagonista spaziano dalla claustrofobia al crescente senso di colpa nei riguardi della propria identità di sopravvissuto. Suoni e rumori scatenano potentissimi flashback nel ricordo ossessivo dello spazio e delle vicende che hanno portato alla morte dei compagni, un continuo ripercorrere passo dopo passo gli avvenimenti nella speranza-paradosso di riuscire a definirsi colpevole della tragedia. E infine le difficoltà – sublimate nel processo di “betrizzazione” (di cui qui non si può anticipar nulla) – nelle relazioni sentimentali, con la conseguente esplosione di momenti di violenza verso gli altri e verso se stesso a cui fa seguito la ricerca di situazioni di pericolo estremo che in qualche modo tocchino nuovamente le corde intime, sovraccaricate dagli anni in missione.

“E solo per constatare che quella lava si consolida in quelle grandi, maledette vesciche, abbiamo vomitato per dieci anni e siamo tornati qui, per diventare oggetto di ludibrio, mostri da museo delle cere; mi vuoi dire per che diavolo di motivo siamo finiti lassù? A che ci è servito?…”

Il fatto che lo scrittore ambienti nel futuro il νόστος del ritorno dimostra come la letteratura sia composta da due tipi di autori: chi la sa fare e chi no e chi anche parlando di se stesso riesce a parlare agli altri – e chi no. Lem non ha la pretesa di un intento didascalico né documentaristico e questa scelta, di per sé, è un merito: perché da una parte conferma le infinite possibilità narrative della fantascienza che, se scritta con contezza, diventa strumento attraverso cui raccontare non tanto il futuribile quanto il presente e le sue trasformazioni, e dall’altra chiarisce che di alcuni temi occorre parlare sempre, in qualsiasi modo possibile, data la vastità della loro portata.

Lo spazio profondo del cosmo assunto a teatro di guerra non è solo una metafora ma proprio una traslitterazione, una scelta consapevole data dalla profonda conoscenza di Lem della materia fantascientifica. Attraverso questo sistema-racconto, che per l’autore non è espediente ma strumento unico e indispensabile, Lem ha modo – come forse nessun altro è più riuscito a fare – di portare all’attenzione di un pubblico trasversale due questioni: l’assoluta estraneità della società civile nei riguardi della guerra trascorsa e l’assoluto disinteresse della pubblica amministrazione nei riguardi dei reduci.

“La nostra casetta era una delle ultime. Un piccolo giardino, con cespugli resi grigiastri dalle stratificazioni saline, portava evidenti le tracce di un recente fortunale. Le onde avevano evidentemente raggiunto il basso recinto: qua e là erano sparse delle conchiglie. “

Se volessimo tentare un riferimento cross-mediale, potremmo pensare – oltre che all’iconico episodio di Apollo13 in cui gli astronauti Lowell, Mattingly e Haise, in collegamento con la Terra, restano all’oscuro del fatto che nessuna rete televisiva si è offerta di trasmettere la diretta – alla serie noir “Quarry” (2016), trasposizione delle opere delle scrittore Max Allan Collins (Iowa, 1948) basate sul νόστος del veterano Mac Conway, reduce dal Vietnam. Serie che a “Ritorno dall’universo” riporta anche per le atmosfere; prova in più della genialità di Lem che, a dispetto della propria vita appartata e del momento storico in cui scrive, certo non favorevole a scambi e condivisione di informazioni, riesce a calare il ritorno di Hal Bregg all’interno di una dimensione dai precisissimi tratti Bay Area: crepuscolare e notturna, fatta di luci al neon e iper-divertimento che via via lasciano il posto a un paesaggio californiano di ville scalcinate e piscine di acqua verde, silenzi di insetti e voce dell’Oceano, in una discesa agli inferi conradiana che non può non rimandarci alla giungla di Kurtz.

“La vita anteriore”, di Mirko Sabatino

“(…) esistono energie e tensioni che aiutano gli eventi a combinarsi tra loro alla perfezione, sì, e si dà il caso che queste forze non abbiano nome; e non c’è bisogno di scomodare parole grosse come ‘destino’ per spiegarle. Hanno l’aspetto delle coincidenze: ma non sono coincidenze, e non sono destino. Io le chiamo armonie: traiettorie poetiche che danno ordine e forma, per un tratto, al caos della vita.”

Nella loro disperata bellezza di ragazzi, Ettore, Bruno e Irene hanno il merito d’avermi riappacificata col romanzo familiare. O almeno con quella parte del romanzo familiare che si adopera per scrivere di famiglia tralasciando i cliché dei grumi di angosce, delle incomprensioni politico-generazionali, degli scandali a lungo taciuti; quella parte, insomma, che continua a occupare una posizione di nicchia rispetto ai grandi drammoni di casa nostra (che tendo ad affrontare con fatica sempre più improba).

In realtà, nessuno dei tre protagonisti una famiglia ce l’ha per davvero, in senso stretto; sicché, verrebbe da dire, “La vita anteriore” è un romanzo familiare fondato sull’assenza (che spesso è più voluminosa della presenza) e pure, al contrario, sulla fantasmagoria dei legami familiari allargati.

Ettore Maggio vive con la madre Marina, una pletora di zie non maritate, la nonna Anita e il nonno Ottavio dal momento che il padre – riguardo al quale nessuno degli adulti prova un granché di rancore o sentimento vendicativo – ha fatto perdere le proprie tracce a pochi minuti dal parto. Bruno Basanisi da quando era piccolo sta con gli zii perché i genitori sono morti in un gravissimo incidente stradale. Pure Irene Favelli, malgrado sia l’unica dei tre che anagraficamente possiede una madre un padre e perfino un fratello, ha le sue gatte da pelare: il padre manca presto, la madre si rifugia nei sonniferi e nell’alcool e a Irene tocca prendersi cura del fratello “ritardato”. “La vita anteriore”, quindi, non è soltanto un romanzo che racconta le vicende di queste tre famiglie radicate al Sud, tra il boom degli anni ’50 e i giorni nostri ma è il racconto di un’amicizia, di quelle che nascono e crescono seguendo strade misteriose e armonie imperscrutabili agli occhi dell’osservatore (perché proprio l’instabile e ombroso Bruno, baciato dal talento per il pianoforte, viene ad accompagnarsi a Ettore, figlio e nipote prediletto, l’indifferente, l’insofferente, lo scrittore bello e dannato? Perché gli occhi azzurrissimi di Irene nel mezzo e quel suo rimaner costretta nello spazio angusto del diventare adulta prima del tempo?).

“La vita anteriore” scappa via da ogni rischio di sbavatura grazie a un sostanziale equilibrio tra le parti che tiene a freno la materia dove necessario: i temi della famiglia non soverchiano quelli amorosi che tuttavia, a loro volta, non sono mai spinti a prendere il sopravvento su una narrazione che si vorrebbe definire, in certi punti, addirittura “corale”. A far da adesivo è quell’elemento fiabesco, intuito e mai spiegato, quel senso di accettazione dell’ignoto, mai messo in discussione, quelle minime distorsioni temporali che fondano il nucleo intimo del realismo magico.

“Esiste anche ciò che non si vede e non si sente, -”

Quella parte di realismo magico che qui si infila, fra i tratti postmoderni di una narrazione che senza tanto clamore riesce a mettere in evidenza le criticità di un particolare, altro approccio al sistema-romanzo, non è mai espediente per scavalcare nessi logici altrimenti ingiustificabili ma al contrario strumento attraverso cui rendere manifeste tante connessioni altrimenti perdute, perché invisibili agli occhi. La stramba, intermittente preveggenza di nonno Maggio, il talento musicale di Guido, esploso dopo la morte dei genitori, la bellezza azzurra di Irene, incantamento di serpente, le scelte di vita che paiono consapevoli ma che alla fine si risolvono su sentieri già definiti in partenza – tutta questa interpretazione del sussistente affonda le radici nella consapevolezza che alcuni doni e alcune sventure (sì, perfino la morte e di morte dentro a queste pagine ce n’è, come giusto che sia) accadono per via di certe coincidenze e che contro queste coincidenze non si può nulla, a parte l’accettarle.

“‘Quando si va via, facci caso, si va sempre al Nord,’ spiegò sua madre. ‘Uno, quando le cose vanno male, prende e se ne va al Nord. E quando invece le cose vanno male e sei già al Nord, che fai? Sali ancora più a nord. Come se scendendo più giù non ci fosse più terra, come se scendendo più giù, non ci fosse niente’. Lo guardò. ‘Ma chi l’ha detto che dev’essere così? Non lo sarà per me. Io non salgo. Io scendo‘.”

Questa maniera di affrontare il reale arriva direttamente dalla nostra antichità, dal mito e dal divino come parte del contesto naturale. E quale luogo mai può essere più indicato per rappresentarla, del nostro Sud più profondo? Con “L’estate muore giovane” Mirko Sabatino ci aveva già abituati alle atmosfere fiabesche che qui si fanno, mi pare, più fini e curate: ombre profonde e freschissime negli androni di vecchi palazzi cittadini, tocco di un vento arrivato da chissà dove a scostare una tenda pesante e preziosa, porte socchiuse a mostrare stanze il cui accesso resta proibito. Su tutto regna indiscussa la campagna pugliese, del caldo che prende alla gola, della buganvillea e del fico d’india aggrappati a muri bianchissimi e roventi, della polvere che si deposita sui mobili e sugli oggetti. Oggetti che nella loro inutile necessità vengono a sostenere, come in una narrazione di fiaba, il ruolo di talismani: la cravatta del nonno appesa al pomo del letto, uno spartito di Chopin dimenticato tra le carte di una casa in affitto, una fototessera sbiadita; oggetti la cui funzione viene tenuta segreta, come nelle migliori avventure, sino a che dello strumento se ne rivela la necessità; oggetto che poi si perde, distrutto o sparito.

“- e centosei anni di vita non sono ancora sufficienti per capire che l’uomo non è la misura di ciò che gli accade intorno.”

Ettore, Bruno e Irene sono ragazzi della nostra generazione – quella mia e dell’autore. Quella che secondo la narrazione mainstream dovrebbe sentirsi tradita nelle aspettative, schiacciata dalla crisi economica, dal disastro delle torri gemelle, dalla penuria di prospettive. Sabatino trova il coraggio di ribaltare la prospettiva affidando all’istinto dell’esploratore, di cui forse noi della generazione X siamo gli ultimi custodi, il compito di riabilitarci.

L’abitudine all’accettazione, quel modo che possediamo sin dall’infanzia di abbracciare ciò che non è stato costruito né da noi né per noi ma con canoni e per i comodi di qualcun altro, ci vien utile ora nel mostrare che alla fine nessun luogo è indegno, che ogni mestiere, perfino il più umile, è necessario e sufficiente alla nostra permanenza in vita e che, di fatto, questa nostra sopravvivenza dipende sempre e comunque da altro; da una famiglia che non si fa mai monade, per esempio, o dalla capacità che abbiamo di adoperare i nostri “tempi interstiziali” (noi, ultima generazione cresciuta senza strumenti elettronici e in molti casi senza neppure il telefono o la televisione), oppure ancora dalla nostra consapevolezza, venuta dall’esperienza di bambini, che per tante questioni occorre tempo, nel nome di un principio di lentezza che siamo l’ultima generazione ad aver toccato con mano, liberi dalla necessità di una retronostalgia posticcia. Questo – quello di Ettore, Bruno e Irene – è il nostro privilegio. Godiamocelo.

Amo moltissimo il Sud dipinto da Mirko Sabatino perché è quello della mia infanzia, di luoghi interrotti nei quali camminavo da bambina, in cui mai mi sono sentita sola o in pericolo. Luoghi pieni di cose e di vento: cocci di un passato glorioso, sabbia portata dal mare lontano, odori di rosmarino e di materia cotta dal caldo feroce; testimonianza di un passaggio umano che soltanto raramente si faceva presenza ai miei occhi eppure impossibile, pur nell’ombra dell’assenza, da ignorare.

“L’arte di legare le persone”, di Paolo Milone

Paolo Milone (1954) è psichiatra; comincia la carriera presso un Centro di salute mentale e poi, dal 1988 al 2016, esercita la professione nel reparto di Psichiatria dell’ospedale Galliera di Genova. Ha scritto “L’arte di legare le persone”, una raccolta di componimenti poetici in verso libero che raccontano, per piccole sequenze, tanti episodi della sua attività professionale.

“Poetica è la nostalgia, impoetica la depressione.

Poetica è la fantasia, impoetico è il delirio.

Poetico è il timore, impoetica l’ansia.

Poetico è il desiderio, impoetica la dipendenza.

La poesia non frequenta la Psichiatria, si ferma sulla soglia.”

Qui, Milone ci racconta che “L’arte di legare le persone” è tante cose – prima di tutto è l’ossimoro del dire in poesia che la malattia mentale non ha nulla di poetico. E che se si ravvede qualcosa di poetico lì, nel luogo in cui supponiamo viva e si nutra la bestia, beh allora quel che stiamo guardando è tutto fuorché malattia mentale.

“Se non hai mai provato il dolore psichiatrico,

non dire che non esiste.

Ringrazia il Signore e taci.”

Qui, invece, ci spiega bene il motivo per cui ad alcuni del mestiere delle lettere – e della psiche – queste pagine proprio non siano andate giù. “L’arte di legare le persone” non è un romanzo in poesia, non è Spoon River, non è un memoir strappalacrime, non è una collezione di vite fragili sulle quali poter adoperare il nostro migliore e più redditizio guilty pleasure. Queste pagine non sono altro (e ci piacerebbe fossero altro, ma no) che un resoconto molto lucido di come noi – noi quelli sani – intendiamo la malattia mentale e di come essa sia stata, sempre da parte nostra, quella dei sani, negata (nel nome di un “nessuno è normale” che di danni ne ha fatti parecchi) o, all’inverso, esaltata alla maniera di un dono degli dei grazie al quale l’essere umano, dallo scrittore alla pittrice, si trova in grado di esprimere se stesso come mai in alcun’altra maniera.

Con questa raccolta di piccoli e piccolissimi testi poetici (Milone li chiama “frammenti”, “mescolati, accostati per assonanza e per contrasto”) in verso libero, suddivisa in dieci sezioni ciascuna delle quali rappresenta un ambito di intervento, Milone racconta l’intero arco temporale della sua vita come psichiatra d’urgenza.

“E dopo tanti anni mi ritrovo ancora qui,

alle prese col dolore inutile.

Dolore che non insegna, non rigenera, non rinnova.

Non dolore di crescita ma di prigione.

Non dolore di potatura ma di morte.

Dolore che non finisce per guarigione, non finisce per necrosi e amputazione: non finisce mai.

Sia benedetto mille volte il dolore utile, sia maledetto mille volte il dolore inutile.”

Dai TSO della vita in reparto (“Reparto 77”) ai colloqui in libera professione (“La stanza del glicine”), dal dialogo con la giovane paziente Lucrezia alla cronaca dei recuperi per strada tra tossici e barboni, prostitute e transessuali, fino al capitolo struggente sulla difficoltà di separare l’uomo dal medico – la vita privata da quella professionale – Milone traccia le coordinate per un viaggio sempre più buio, verso quel cuore di tenebra che è il rapporto con “la signora”, quella che nella psichiatria arriva quasi sempre per mano del suicidio.

“Da parte mia, non ho bisogno di tante finezze:

quando la notte cammino nei corridoi dell’ospedale,

incrocio la Morte che mostra la faccia.

A quell’ora non procede rasente i muri, fa i suoi giri con passo sicuro.”

Gli acidi delle lettere hanno pensato – con giusta contezza – che Milone sia stato purtroppo in grado di segnare un prima e un poi: una ferita di crepaccio letterario che finalmente, al di là della poetica della psiche addolorata che tanto ha venduto negli ultimi anni, attribuisce alla malattia mentale la dignità dell’esistere. Gli acidi della psico-qualcosa hanno pensato – con giusta contezza – che Milone sia stato purtroppo in grado di svelare il grande inghippo della nostra contemporaneità: che “la psicoterapia trova un colpevole, la psichiatria ti fa restare vivo”. Con buona pace di chi non crede al potere salvifico di uno psicofarmaco o di chi è contrario ai metodi contenitivi (pure Milone lo è ma questo s’è fatto finta di dimenticarlo, in giro), o di chi salta sulla sedia quando gli si dice che (ndr: quando Milone dice che-) i manicomi hanno chiuso grazie allo sviluppo della farmacologia e per motivi politici più che per reale e concreta utilità sanitaria (ndr2: del fatto che il matto da allora in poi, salvo eccezioni, realtà virtuose o semplicemente situazioni favorevoli, sia stato completamente abbandonato alla cura domiciliare di genitori, fratelli, sorelle, mogli mariti e perfino figli – sempre più sfiniti e sempre più anziani – nelle narrazioni mainstream che tessono le lodi del manicomio chiuso non si fa cenno e invece oh sì, quante ne racconta Milone in proposito).

Il capitolo ottavo, “Legare le persone“, è il nodo incriminato e viene per ultimo perché al fine di introdurlo correttamente tutto il resto che vien prima è necessario a senso metodologico; necessario per comprendere che a essere accettata deve essere “la persona, non la malattia”, che il lavoro in psichiatria è un mestiere di equipe all’interno della quale il medico deve imparare a ricoprire un ruolo finanche secondario, che il coma farmacologico non è la soluzione, che lo stremo del “convincimento infinito”, in quel luogo della mente in cui il dire non ha più significato (sull’inaccessibilità al malato psichiatrico tramite il linguaggio c’è tutto un capitolo, “La parola è paglia”), non è sostenibile, né dal paziente né dal medico e che, udite udite, “Il metodo più semplice per non legare nessuno, è non ricoverare pazienti da legare”, trasformando la Psichiatria in Psicologia.

“Ma la violenza e la libertà sono tematiche psicologiche,

non psichiatriche.

Il paziente psichiatrico in acuto non concepisce il significato di violenza e libertà.

Per lui è più rilevante la tematica esistere o non esistere.

(…)”

“(…) dire a un paziente psichiatrico

che la malattia mentale non esiste

è come dire al paziente che quello che prova non esiste,

che lui non esiste.”

Qui è quando Milone ci dice che se al principio siamo partiti a sfogliare queste pagine col dir secco e sogghignato ecco vedi, forse questo è mio cugino, questa può essere la mia capa, o mio padre – bene, restiamo accorti, perché come nelle migliori tragedie s’inizia col ridere e si finisce a piangere: qui si arriva al pensare che questo, ecco, potrei essere io, e speriamo di no. Speriamo di no.

“La lingua del tempo”, di Eva Hoffman (trad. Maria Baiocchi)

tempo di lettura: 10minuti

“Gli aggettivi non varcano i continenti. (…) Non si può trasportare il significato dell’umanità tutto intero da una cultura all’altra, né più né meno di quanto si può traslitterare un testo.”

Questo invece riesce a fare Eva Hoffman con “Lost in translation: Life in a new language” (1989), laborioso, denso e bellissimo memoir: raccontare non tanto la propria vita di esule ebrea polacca quanto, attraverso episodi anche minimi o (solo) all’apparenza insignificanti, le difficoltà dell’integrazione – quelle che passano dall'(in)comprensione linguistica. Prima di raccoglierci su queste pagine, però, occorre una piccola digressione biografica.

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Cracovia, 1959. I coniugi Boris e Maria Wydra, sopravvissuti all’olocausto (prima in un bunker di montagna e poi nascosti grazie all’aiuto di alcuni amici), sopraffatti dalla nuova, dilagante ondata di antisemitismo, dalle ristrettezze economiche e dai disordini politici decidono di emigrare nella British Columbia insieme alle due figlie: la tredicenne Ewa, promettente pianista, e la sorella Alina, di qualche anno più giovane. Eva Hoffman (dal cognome del marito, un fellow student con cui rimane sposata dal 1971 al 1976), è brillante studentessa premiata con numerosi riconoscimenti e borse di studio. Si laurea alla Yale School of Music e ad Harward; diviene insegnante di letteratura inglese e di creative writing presso diverse università, poi editor e writer per il The New York Times e ancora autrice di testi per la BBC Radio. Vincitrice di numerosi Award per i suoi lavori e per l’impegno nel mondo delle arti e della cultura, da 30 anni vive a Londra.

***

“Per tradurre una lingua o un testo senza alterarne il significato bisognerebbe trasportare anche il pubblico.”

Le questioni che la Hoffman solleva sono parecchie e sarebbe ingenuo pensare di poter raccogliere qui tutte le suggestioni che “La lingua del tempo” porta con sé. Il punto più importante a mio avviso, il cardine intorno a quale si sviluppa l’impianto narrativo del testo (e per questo lo cito qui) è il privilegio dell’intelligenza e del talento. Quell’immunità che fa di Ewa e della sorella (costrette perfino a cambiare nome, nell’ottica di una più rapida inglesizzazione – “Il mio non è stato un problema, Ewa in inglese diventa Eva, che è la stessa cosa, ma a mia sorella Alina è toccato Elaine”) due corpi in perenne stato di estraneità: favorite e incoraggiate dalla comunità scolastica e dall’ambiente scientifico e letterario, lontane dai traumi del bullismo e dell’esclusione (ad esempio quella economica, grazie alle sovvenzioni ricevute per merito), tuttavia in equilibrio perpetuo e precario tra il riconoscimento legittimo di una capacità e lo sguardo, un poco meno legittimo, dell’“esotico ed erotico”. Sarebbe però un errore enorme – benché certe corrispondenze siano innegabilmente evidenti – leggere le vicende della Hoffman, figlie di un ben preciso momento americano, con gli occhi della contemporaneità. Hoffman per prima ci mette in guardia da questo pericolo (“Poiché ho imparato sulla mia pelle la relatività dei significati culturali, non posso mai assumere una serie di significati come definitiva.”), fornendoci nel contempo la chiave di lettura esatta, quella della contestualizzazione, attraverso cui recuperare il senso di queste pagine che occorre trattenersi dal piegare a proprio favore, né in un verso né in quello opposto, proprio perché “La normalità non deriva da una norma convenzionale ma da questa conoscenza delle proporzioni.”

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“La lingua del tempo” è, si diceva, un memoir – strutturato in tre parti. Uno dei pregi dell’autrice è la capacità di modulare il linguaggio, che porta con sé anche le tecniche dell’osservare e l’interpretazione del reale, in base ai differenti archi temporali. Senza mai risultare stucchevole, Hoffman affida alla prima sezione, “Il paradiso”, lo sguardo dell’infanzia a Cracovia che illumina il paesaggio di luce violenta e passionale. Questo modo di raccontare la prima età tuttavia non limita né manipola l’osservazione, che rimane sempre giusta nei riguardi di una realtà sicuramente favorita all’interno della quale, tuttavia, quel che si potrebbe definire “privilegio” non è altro che un traballante predellino sospeso sulla miseria per non più di qualche centimetro.

“Abbiamo avuto il permesso di portare con noi il pianoforte, anche se fa parte della categoria di oggetti che andrebbero lasciati al patrimonio nazionale.”

[Mi appunto qui un’ulteriore suggestione per questa prima sezione: “Andiamo all’opera, a teatro e al cinema – tutte cose accessibili a poco prezzo – e spesso andiamo a trovare gli amici.” – il punto della cultura diffusa che permea la Polonia rurale e urbana, senza distinzione alcuna. Quell’“a poco prezzo” che in specie oggi, nel post covid apocalittico dello spettacolo in ginocchio, dovrebbe spingerci a molte e non scontate riflessioni.]

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“Vancouver non sarà mai per me il luogo più amato, perché è stato qui che sono cascata fuori dalla rete del significato nella leggerezza del caos.”

Nella seconda parte, ”L’esilio”, a far da padrone è il sentimento dello sradicamento che è linguistico – proprio del non capire – e di conseguenza culturale e valoriale. Predomina il racconto di episodi adolescenziali tra vita scolastica e prime amicizie, in una tensione continua fra desiderio di intimità e condivisione e, all’inverso, la spinta inevitabile all’isolamento. Il punto di questa seconda parte è evidenziare la mancanza degli strumenti di confronto, comunicazione, interpretazione del reale. Perché la fondatezza dell’infanzia spartita (i programmi in tv, il cinema, la storia americana, le tradizioni, la politica) crea il substrato sul quale è possibile ancorare il ponte dei legami extrafamiliari – possibilità fuori discussione per l’immigrato.

“A parte le infinite varietà di articoli di vestiario, macchine e piscine, non ho idea dei beni che questo continente è in grado di offrire. Non so che cosa si può amare qui, che cosa si può assorbire fino a considerarlo intimamente proprio. In seguito, quando si romperanno gli argini dell’invidia, la mia gelosia andrà soprattutto a quelli che, in America, hanno avuto un senso di appartenenza al luogo.”

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Con la terza parte, “Il nuovo mondo”, il racconto di episodi e aneddoti specifici si restringe attraverso una rarefazione discreta che lascia spazio, mediante accenni a eventi di svolta nella vita personale dell’autrice utilizzati come ganci narrativi, a una sorta di esposizione teorica che assomiglia da una parte alla summa delle riflessioni dell’autrice, ormai adulta e affermata, (riflessioni che per la prima volta, sempre secondo il principio dell’adattare linguaggio e svolgimento tematico al tempo narrato, si direbbero complete, strutturate) dall’altra a manifesto di un certo modo – forse l’unico possibile – di intendere il nodo dell’emigrante, tra assimilazione e conservazione del proprio nucleo identitario.

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L’aspetto più fortemente analizzato, sul quale l’acuto spirito di osservazione della Hoffman si infrange con violenza di tempesta rivelando la passione viscerale (tutta europea!) per l’approccio maieutico e l’afflizione che deriva dall’esperienza familiare, è quello, appunto, dell’identità. “La lingua del tempo” in questo senso è, sostanzialmente, un trattato sull’identità individuale che riconosce nell’ambiente circostante una delle variabili fondamentali – forse l’unica – capace di formare l’individuo. In questo sistema-identità si esplica la dicotomia (ricordiamo, siamo a cavallo degli anni ’70) tra lo sguardo europeo, per il quale “una personalità è una cosa che ci si limita ad avere”, e quello profondamente americano, all’interno del quale i vari soggetti “si vedono come i pellegrini di un cammino interiore, eroi ed eroine di un dramma psichico”.

“La lingua del tempo” è, per impostazione consapevole, un memoir lontano dall’intento didascalico tipico di certe narrazioni caduta-e-resurrezione a cui ci ha abituati la retorica d’oltreoceano; ciononostante, non nego che per certi versi mi piacerebbe concludere questa riflessione con lo spoiler del sì, l’autrice ce l’ha fatta, missione compiuta, integrazione completa, identità personale conservata. Ancora una volta però è la stessa Hoffman a prenderci per i capelli:

“Forse perché sono stata bombardata da tanti cambiamenti, ho bisogno di distinguere con precisione fra veri arricchimenti della conoscenza e pericolosi viaggi all’avanscoperta. Ho paura di arrischiarmi oltre le mie possibilità, ho paura delle false trasformazioni. Quello che conta per me in questo momento non è quanto riesco a uscire da me stessa, ma quanto riesco ancora ad assorbire veramente.”

Ancora:

“Io a volte mi sento tradita da questa miscela di rigide convinzioni e trasformismo, perché rende i miei compagni sfuggenti, avvolti come sono nella nebulosa delle ideologie e delle dichiarazioni di principio; mi riesce difficile distinguere fra mode e fedi sincere, le convinzioni appassionate dai dogmi di comodo. (…) Paradossalmente uno degli indizi della mia non completa assimilazione è la nostalgia residua – che tanti miei amici trovano francamente sconveniente, come una confessione di vergognosa debolezza – per qualcosa di più stabile, per un radicamento meno faticoso, una patria.”

“Ho la disgrazia di vedere la griglia delle persuasioni generali stampata sopra ogni singola personalità, di vedere la dipendenza dall’ideologia collettiva laddove ci dovrebbe essere solo il libero gioco della soggettività.”

E infine:

“Nella mia vita pubblica, di gruppo, finirò probabilmente per trovarmi sempre nelle fessure fra culture e subculture, fra gli scenari delle fedi politiche e i credo estetici. Non è poi il peggiore dei posti: ti permette di guardare il mondo da una prospettiva diversa.”

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Note all’edizione. “Lost in translation: Life in a new language” appare per la prima volta nel 1989. Viene pubblicato in Italia nel 1996 da Donzelli col titolo “Come si dice”. Ora viene riproposto dalla casa editrice Il Margine (da poco parte di Edizioni Centro Studi Erickson), sempre nella traduzione – rivista – di Maria Baiocchi. Ringrazio Il Margine per questo invio: “La lingua del tempo” è un libro del cuore che senza l’aiuto di cari amici non avrei mai scoperto: sarebbe stato per me non solo un gran peccato ma anche una vera mancanza.

“Quelli che non capiscono il passato possono essere condannati a ripeterlo, ma quelli che non lo ripetono mai sono condannati a non capirlo.”

“Solenoide”, di Mircea Cărtărescu (trad. Bruno Mazzoni)

Avvertenza: il post che segue ha un impianto stilistico e argomentativo un poco diverso dal solito. Si tratta infatti di un consiglio di lettura che avevo preparato per la pubblicazione on-line su un sito di recensioni molto più gagliardo del blog di ADC. Poi però, a seguito di alcune difficoltà sulle tempistiche e sullo spazio a disposizione, non è stato possibile procedere. Sicché lo lascio qui – emendato di sfumature marginali – a uso e consumo di chi abbia voglia di leggere queste righe minime.

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Malgrado la mole e l’argomento non proprio spensierato, mi trovo a consigliare la lettura di “Solenoide”. A giustificazione potrei raccontarvi di Mircea Cărtărescu, pluripremiato autore romeno in odore di Nobel, della sua penna che riporta a Bolaño e Kafka e di questo “Solenoide” quale “iper-libro capolavoro” che in 937 pagine rappresenta la somma di un modo di fare letteratura specifico, viscerale, mitteleuropeo ai confini dell’impero. Oppure potrei dirvi che “Solenoide” va letto perché costringe all’utilizzo del dizionario, per tutte le parole sconosciute in cui vi imbatterete.

“Solenoide” è infatti il racconto di come il linguaggio rimanga, pur nella fallibilità, strumento fondamentale per comprendere il mondo. Attraverso le vicende anonime, sublimi nella loro veridicità, di un anonimo professore di romeno all’interno di un anonimo istituto scolastico alla periferia di Bucarest, Cărtărescu ripercorre il tentativo antropico di andare oltre, alla ricerca – discesa in un cuore di tenebra – di una verità cosmica quadrimensionale che di volta in volta può assumere le sembianze di una scoperta scientifica (gli studi di Tesla sui generatori di campo antigravitazionale), di un’equazione matematica (Boole e il cognato Charles H. Hinton col suo tesseratto, nonché il collega Edwin A. Abbott con “Flatlandia”), di un’opera letteraria (una delle figlie di Boole, Ethel, autrice del romanzo “Il figlio del cardinale”, lettura obbligata nei paesi dell’est sovietico per via di una reinterpretazione marxista della vicenda ambientata nell’Italia risorgimentale), di una spinta mistica (il marito di Ethel, Wilfrid Voynich, scopritore del “manoscritto Voynich”; i trattati sull’onirico di Vaschide).

La narrazione bucarestina della Romania satellite, che abbraccia il trentennio 1950-80 senza cedere al guilty pleasure retronostalgico, il flashback, il flusso di coscienza e il punto di vista personale lontano dall’immedesimazione eppure collettivo ci mostrano come l’essere umano sia inevitabilmente connesso a esperienze e contesto – finanche a quelle del dolore fisico e del disagio mentale (ecco il perché del “non proprio spensierato” di cui sopra). Mi sembra veramente doveroso tornare a quel non proprio spensierato dell’inizio: “Solenoide”, infatti, ci parla – anche – di sogni, visioni, momenti dissociativi e condotte che se fossimo su “Science of stupid” sarebbero marchiate col bollino del “do not try this at home”. Quindi durante la lettura usate attenzione e distacco perché, come racconta Cărtărescu, “nessun romanzo ha mai mostrato una strada da seguire, ma assolutamente tutto viene riassorbito nell’inutile nulla della letteratura”: piuttosto, leggere grandi autori significa imparare a parlare di noi stessi, a creare margini di contestualizzazione, a conservare la memoria della Storia – di qualsiasi genere, forma o sostanza essa sia composta.

Nota: se desiderate qualche riflessione in più sui temi, lo stile e la poetica di Cărtărescu in “Solenoide” (insomma su tutto quel blabla che siete abituati a trovare qui sul blog), ho l’ardire di rimandarvi alle storie Instagram (@appuntidicartaadc) – è tutto nei circoletti in evidenza.

“La casa di Shara Band Ong”, di Mariza D’Anna

“Negli anni più vicini alla nascita, quelli che appartengono al tempo della conoscenza involontaria, i ricordi sono ombre spodestate dal presente che avanza rapido verso il futuro. Via via che gli anni passano e il tempo della vita si accorcia, le tracce del passato riaffiorano come cicatrici e, come reperti di un altro tempo che era stato abitato da noi, sollecitano domande, scavano tunnel nella memoria e sono capaci di fare rivivere persone che se ne sono andate per sempre.” (kindle 323)

Alla ricerca di testi che mi raccontassero l’epoca del colonialismo italiano sono inciampata in queste pagine – che non conoscevo. La piccola curiosità è che non ho memoria di come io sia finita sulla strada di Shara Band Ong: credo di aver recuperato il titolo da Twitter, consigliato dalla mia bolla: ho pure cercato di ripescare la storia di questo ritrovamento ma non ho avuto successo il che è indice, se mai fosse necessario ribadirlo, del fatto che i libri camminano su strade misteriose e si palesano a noi unicamente nei modi che ritengono opportuni.

Màrgana è una piccola realtà editoriale trapanese che si occupa di dare visibilità ad autori e autrici della terra di Sicilia in grado di raccontare oltre alla proprie storie personali anche quella più ampia – Siciliana e Italiana – che le include. In questo contesto si inserisce l’opera di Mariza D’Anna, nata a Trapani nel 1962 ma trasferitasi subito a Tripoli dove visse con la sua famiglia fino al 1970. Da questa esperienza di fanciullezza tripolina è nato nel 2017 “Il ricordo che se ne ha”, un libro di memorie che, recuperando fotografie e oralità di ricordi tramandati, ricostruisce l’impresa di tutti quei coloni italiani che si trasferirono in Libia sotto l’egida del colonialismo fascista – di cui D’Anna non tace le brutalità. Se ne “Il ricordo che se ne ha” D’Anna racconta dei bisnonni, in “La casa di Shara Band Ong” ritrova il tassello mancante della propria infanzia e degli anni giovanili di tutti quei ragazzi italiani nati e cresciuti in Libia tra il 1950 e il ’70 – momento in cui il lungo regno di Idris al-Sanusi fu interrotto dal colpo di stato guidato da Gheddafi, che diede il via alle confische dei beni degli italo-libici, e alla loro espulsione.

“Era un piccolo condominio delle Nazioni Unite. Ai lati della corte di aprivano quattro archi, dai quali si accedeva agli appartamenti, due per piano, fino ad arrivare al quarto, che ne aveva solo uno e che confinava con un terrazzo in parte coperto.” (1698)

“La casa di Shara Bang Ong” è un racconto molto intimo. Basandosi su foto di famiglia – la propria e quella degli amici di famiglia, dei compagni di classe, dei parenti – Mariza D’Anna tramite la piccola Tea, suo alter ego, costruisce un memoir a episodi in cui la cronologia scivola in secondo piano rispetto al ricordo. Così come avviene sfogliando un blocchetto di istantanee recuperato in cantina, allo stesso modo D’Anna estrae le carte dal mazzo; racconta l’amicizia con il coetaneo arabo, vicino della porta accanto, con cui condivide i pomeriggi nel cortile interno della grande casa multietnica sotto lo sguardo della tata Fatima intorno alla quale tutti i bambini della casa si radunano a cantare filastrocche, quella con Micio, il figlio unico dell’addetto al consolato russo del primo piano, gracile e spesso scambiato per una femmina per via dei capelli lunghi e quella con l’amica di scuola, sofferente per un autismo non identificato. Riporta alla luce quella giornata trascorsa con sua madre al suq, alla ricerca di un regalo da inviare a una parente, o le gite al negozio del signor Bagdalli – primo piano, moglie e due figlie – il proprietario (ebreo) di un negozio di elettrodomestici molto fornito. Come fa il prestigiatore con il coniglio, così D’Anna estrae dal cappello le estati passate dalle suore, nella colonia di Gargaresc in cui venivano ospitati bambini di ogni etnia e religione e i più ricchi pagavano il soggiorno ai bisognosi; oppure il ricordo del dottor Ferrari – secondo piano – medico all’ospedale di Tripoli e, ancora, le giornate di vacanza passate nella tenuta di Biar Miggi tra il grano e le piante da frutto – e di quelle mattine in cui il nonno caricava tutti loro, bambini della tenuta, cugini, nipoti, figli dei dipendenti, su una jeep scalcagnata e li portava a scivolare lungo le dune del deserto. D’Anna racconta di vestiti sontuosi, perline, veli multicolori in un tripudio promiscuo di pasta al sugo e sensemyia, di dolcetti americani, gelati e mluza in cui tutto, dall’abbigliamento alle giornate di festa, dalle pietanze ai giochi in cortile era una giuliva baraonda di lingue, tradizioni, dei e preghiere.

Ne esce il quadro di un’infanzia magica e irripetibile come sanno esserlo quelle età di sentimenti molto intensi. Un’infanzia aperta, come gli usci di Shara Band Ong, e scevra da qualsiasi pregiudizio: un mondo primitivo in cui le suore recitavano il corano prima d’ogni pasto e a nessuno, di fatto, importava molto né di politica né di religione. I fantasmi però restano sempre ben presenti ed è questo punto a validare i temi e la scrittura di D’Anna.

“Agli inizi del ‘900 gli italiani avevano conquistato il Paese con il sangue, perpetrando un genocidio che aveva fatto migliaia di morti incolpevoli tra la popolazione civile e quasi venti anni dopo, con l’aiuto degli italiani che prima l’avevano ferita a morte, usciva dalla sua arretratezza economica e culturale e iniziava a prosperare.” (373)

“La colonizzazione iniziata i primi del Novecento, che aveva raggiunto il culmine nel 1938 con i ventimila italiani sbarcati a Tripoli, era stata una pagina dolorosa per il popolo libico, condannato a violenze e torture in balìa di un conquistatore spietato.” (535)

Da una parte infatti c’è il sentimento della nostalgia personale di cui il testo è permeato – rimpianto per un passato da cui si è stati strappati, impossibile da recuperare. Uno degli argomenti su cui si insiste è proprio la fisicità di questo spazio trascorso, quella “roba” che giace nella polvere di Shara Band Ong – tegami, giocattoli, bambole, libri di scuola, vestiti, dischi – e che nessuno potrà più avere indietro. Sradicamento che si rivela monito severissimo, sia perché ricalca quello delle deportazioni perpetrate dal regime durante gli anni della conquista libica, sia perché segna i prodromi di un futuro italiano segnato dai campi profughi in cui al momento del ritorno i tripolini vennero stipati, dalle ristrettezze economiche conseguenti alle confische e soprattutto dalla diffidenza con cui gli italiani di Libia vennero accolti in patria. Dall’altra parte, dicevamo, è sempre evidente, specie nel racconto dei padri, la consapevolezza del senso di colpa: la coscienza che viene dal vivere un quotidiano di indiscussa agiatezza i cui piedi sprofondano nelle rovine di uno sterminio al quale, di fatto, figli e nipoti non hanno mai preso parte ma di cui hanno potuto sfruttare le conseguenze.

“Negli anni Sessanta era stato introdotto l’insegnamento dell’arabo nelle scuole elementari italiane, erano i primi passi verso un nuovo concetto di integrazione che si andava diffondendo sul piano istituzionale e non più soltanto nei rapporti sociali, capace di avvicinare due culture distanti tra loro” (2056)

“Vittorio aveva conosciuto Dante a casa di amici comuni; tra una parola e un’altra si erano ritrovati a discutere sui modelli di insegnamento delle scuole italiane nel nord Africa che nei loro programmi prevedevano solo poche ore di lingua araba, non agevolando così il processo di integrazione tra le due comunità.” (2698)

Sono molti i temi affrontati da Mariza D’Anna. Oltre, per esempio, a quello dell’integrazione attraverso l’istituzione scolastica, “La casa di Shara Band Ong” è anche una storia di donne e mamme. A partire dalla nonna Teresa, siciliana “del suo tempo” che, in un’epoca in cui alle donne era fatto dovere l’accudimento di casa e famiglia, pur con tre figli si dedicava alla socialità e agli svaghi con le amiche e con il marito, quando era di ritorno “dall’Africa”. Pettegola, altezzosa, elegante, accentratrice, è la donna da cui la figlia Adele fugge, maritandosi con Vittorio e trasferendosi a Tripoli dove entrambi si dedicano all’insegnamento. Adele che, pur nel tentativo di emancipazione che comunque porta frutti in specie nell’educazione dei due figli Tea e Aldino, conserva in sé (verrebbe da dire interiorizza) quei tratti di sottomissione all’autorità patriarcale che, messi in atto col padre, vengono poi recuperati in parte anche nei riguardi del marito con il quale, tuttavia, già affiora una minima ma intransigente, ostinata opposizione, mitigata dall’affetto e dall’intelligenza di Vittorio che specie nei confronti della figlia sarà in grado di utilizzare ben altri parametri di giudizio rispetto all’eredità familiare.

“L’arte del buon uccidere”, di Piersandro Pallavicini

“Allora ci troviamo e facciamo aperitivo…” geme indomito il cretino.

Scaraventatelo sotto un tram.

Prendiamo un aperitivo” gli urlerete mentre le ruote d’acciaio lo stritoleranno. “Beviamo un aperitivo. Facciamo aperitivo, bestia, mai!”

Poi tornate in voi leggendo un qualunque libro di Arbasino. (pag104)

“L’arte del buon uccidere” è un’ode accurata al principio della giusta misura.

Si tratta di ventun capitoletti – ognuno dedicato al (o alla) rompiscatole di turno e al modo più conveniente per procedere con l’eliminazione fisica del soggetto in questione – intervallati da ancor più minuscoli e graffianti “raptus”, in cui più che alla genialità della maniera si bada alla fulmineità dell’ammazzamento.

Una gioia di risate caustiche e finissime in cui ce n’è per tutti: dal vicino saputone e odiatore seriale alla coetanea ex sessantottina che ora, regina del Lamento Continuo (“LC”!), brontola senza sosta perché il capo le fa saltare la mezz’ora del pranzo (proprio a lei, che ha trent’anni in azienda), dalle telefonate chilometriche della signora extracomunitaria in corriera – col viva-voce sempre inserito a manetta – al fattorino sudamericano col quale il confronto verbale risulta impossibile per via dell’irrimediabile discordanza degli idiomi.

Attraverso queste brevi storielle P. Pallavicini rivendica l’importanza della risata, uno spazio mi vien da dire sacro in cui il comico e l’ironico – anzi l’autoironico – quando rispettosi della forma e dell’equilibrio diventano uno dei modi speciali in cui gli esseri umani si rapportano tra loro.

“D’altronde la caratteristica fondante del Rigor Mortis, oltre alla patologica incapacità di rendersi conto di quando è ora di congedarsi, è una pronunciata ipocondria e, si sa, sono i maschi, tra i due sessi, a tenere alta la bandiera dell’autodiagnosi paranoide.” (pag111)

Saltano le riflessioni sulla fluidità di genere, in un testo in cui maschi e femmine sono tali proprio per caratteristiche si direbbero cromosomiche, senza paura di elencarle. Saltano le dinamiche del politically correct verso stranieri e vecchietti. Eppure quel che fa la differenza sta proprio lì: nel momento in cui, leggendo queste pagine, non vien fatta la tentazione di pensare ad altri (“Ecco zia Domitilla! Vedi, quello stronzo del mio capo! Uh, questo è proprio tuo fratello Giancarlo…”) ma al contrario scatta dirompente il panico della feroce autocritica (“Oddio, sarò mica io, la fissata del wi-fi che brandendo il cellulare, avvolta nel caftano bianco, s’incazza a lunghe falcate sabbiose con tutti quelli che c’hanno l’hotspot attivo sotto l’ombrellone?” – Risposta: sì, è ADC: se mi incontrate così, sulle spiagge di Jesolo Beach, abbattetemi).

Questo punto, quel che distingue la crassa risata da una seria riflessione sul comico che non può mai scindersi dall’autocritica è, dicevamo, quel che fa la differenza. In un mondo in cui vince chi urla di più, chi la spara più grossa, chi si secca per primo, chi s’impermalosisce per primo (anche per procura), Piersandro Pallavicini ci mostra ancora una volta come sia possibile, attraverso il rigore della forma in cui ci si adira (che è di fatto il contrario della sudditanza), essere liberi di esprimersi anche nelle proprie idiosincrasie: avendo ben cura di evitare tutto ciò che è troppo.

“Prima di compiere il sacrosanto benché poco misericordioso atto, occorre studiare a fondo tipologia e psicologia del rompiscatole che ci tormenta, per poi procedere alla sua eliminazione con grazia e intelligenza, utilizzando il metodo più consono.” (pag8)

La pena per contrappasso inflitta alle vittime prende quindi le fattezze di un omicidio rituale. Un luogo in cui l’immaginare non si fa certo realtà dei fatti ma al contrario argine: un what if che ci spinge a pensare non tanto al cosa potrei fare a chi quanto, di converso, cosa succederebbe se quello ammazzato fossi io.

“Quelli che, invece, all’inizio dell’epidemia prendevano per i fondelli chi si preoccupava ed erano tutto un ‘mannò, è solo un’influenza un po’ più fortina’. Chiudeteli in una gabbia con una tigre. Se ne lamenteranno, spaventati. Voi ditegli così: ‘Mannò, è solo un gatto un po’ più grossino’.” (pag164)

Nota. Sono fortunata: ho amiche speciali che sanno regalarmi proprio quelle pagine che – loro lo sanno sempre – mi faranno contenta.