"Ida" – "Legami di sangue", di Irene Némirovsky

Giorni passati, su Twitter, girava questo intervento qui, a firma Paolo Di Paolo, pubblicato sul blog di #Masterpiece in data 19 Dicembre (aperta e chiusa parentesi: leggetela, l’Officina Masterpiece, capita che spesso sia più interessante del programma in sé). 

In specie, quindi, si parlava del diventare scrittori: processo che, non v’è dubbio alcuno, presuppone una sistematica, metodica, difficile, ardua, infinita gavetta …da lettore.

Ora. Parlando di scrittori da imitare, io pensavo che se proprio dovessi mai cimentarmi nella difficile arte della scrittura, ecco, una da tenermi cara sarebbe davvero l’Irene, con le sue descrizioni dell’Essere Umano, di cui non è mai avara, in nessuna delle sue opere.

Perché l’Irene ha del metodo. Se l’è studiata la questione, questo è evidente, aggiungendo a quel talento narrativo che innegabilmente possiede – condito da una buona dose di sensibilità e intuito – un’osservazione analitica che, si capisce, viene dallo studio e, a sua volta, dalle letture personali di cui non ha mai fatto mistero, anzi: spesso nelle interviste rilasciate alle riviste dell’epoca la si vede soffermarsi con affetto e reverenza sulle proprie frequentazioni letterarie.

Maestrina dalla penna rossa sempre in lotta con se stessa alla ricerca dell’eccellenza intellettuale, è avvantaggiata da una condizione patrimoniale evidentemente di prestigio – almeno al principio – che le offre del materiale ricco e sempre nuovo su cui riflettere e con cui esercitarsi. 
Frequentazioni d’elite, alta letteratura internazionale ma non solo. L’Irene mostra un interesse vivo, sincero e curioso, indubbiamente scevro da patemi neo-veristi, anche – e vien da dire nonostante il di cui sopra status sociale – per qualsiasi espressione artistica che abbia il merito di impiegare la fisicità dell’espressione individuale: variété, avanspettacolo, café-chantant e cinema, prima muto e poi parlato, tutto fa numero e poco importa che poi questa materia venga utilizzata per completare il romanzo di una vita o per recuperare (come in questo caso) il denaro necessario a tirare avanti attraverso collaborazioni a contratto.

Sicché l’Irene si inventa uno standard tutto personale, una firma leggera e onnipresente, briciole di pane a guidarla sulla difficile strada della scrittura come erano gli esametri delle formule omeriche per gli aedi alla corte dei vecchi re barbuti.

Prima solitamente guarda al volto: gli occhi, la forma del viso, la carnagione, il naso, la bocca. Poi un passo indietro, per dar forma a capelli, orecchie, spalle. E’ un primo piano cinematografico che meticolosamente sposta e allarga: tronco, arti, altezza, peso, portamento; poi abiti, movimenti in campo lungo a ricollocare la figura nello spazio teatrale della scena. Conoscere l’Uomo per interpretare il presente, alla luce del passato, e dar forma al futuro.

“Gabriel… cerca di ricordarsi il suo volto, e subito lo rivede, come se fosse ancora seduto al suo fianco, chino verso di lei. Un gran naso aquilino, quasi adunco, come un becco da uccello rapace, delle guance ossute, con le superfici marcate, gli occhi chiari con la pupilla dilatata dei drogati, un lungo corpo magro e sinuoso, delle belle mani agitate da un tremito impercettibile, ma una bocca fremente e sensibile da vecchio guitto. Il suo volto era pallido e trasparente, il pallore degli uomini che scrivono tutto il giorno con la carne che alla lunga sembra riflettere il bianco della carta. Esagerava l’agilità silenziosa dalla sua andatura, ed esagerava la curva satanica delle belle sopracciglia che si depilava come una vecchia civetta…” (Ida, p29-30)

“Era una donna anziana, piccola e pesante. Si sforzò di conferire ai suoi lineamenti un’aria gioiosa e spensierata, ma gli occhi stanchi, sotto le palpebre rotonde e pallide, si illuminarono appena. Sorrise solo con gli angoli della bocca, e il volto avvizzito, invaso dal grasso, si atteggiò subito involontariamente in una smorfia imbronciata” (Legami di sangue, p5)

“I fratelli erano diversi l’uno dall’altro, ma in una maniera misteriosa si somigliavano. Albert era un cinquantenne con il viso tondo, il cranio e la pelle rosati, gli occhi malinconici. Augustin era più piccolo, magro, con i capelli argentati sulle tempie. Aveva un volto piacevole, che stava cominciando a imbolsire, e un’aria freddolosa e assente lo faceva somigliare ogni tanto a un gatto addormentato” (Ibid., p6)

– Ida, in “Marianne”, 82, 16 maggio 1934; ripreso in Films parlés, “Renaissance de la nouvelle”, Gallimard, Paris, 1934
– Liens du sang, in “Revue des Deux Mondes”, 15 marzo e 1° aprile 1936
@Elliotedizioni, 2013, nell’eccezionale traduzione di Monica Capuani

Buona lettura 🙂

"La nemica", di Irène Némirovsky

Più riguardo a La nemica Luglio 1928. Tra una pagina e l’altra di David Golder, Irène Némirovsky scrive e fa pubblicare sotto lo pseudonimo di Pierre Nerey il racconto lungo “L’Ennemie”.
D’obbligo, per non rimanerne delusi, avvicinarsi a questo testo, inedito in Italia e ora proposto (Febbraio 2013) da Elliot, più con intento squisitamente letterario che con pretesa di immedesimazione, impregnato com’è di elementi autobiografici e ingredienti evidentemente melodrammatici, data l’epoca e il contesto storico-sociale nel quale risulta inserito.
Il rapporto violento e distruttivo di una figlia con la propria madre è al centro della trama e rispecchia pienamente la relazione travagliata di Irène con Fanny: “Raffinata e autoritaria: così doveva restare Fanny nella memoria familiare, e così l’ha dipinta la figlia nel romanzo della propria infanzia amara [Le Vin de solitude, I 7]: Alta, ben fatta, con un portamento regale. In realtà era piccola, un metro e sessanta al massimo. Sempre incipriata anche in tarda età, sempre timorosa che i baci della figlia potessero rovinarle il trucco e sempre allegra, perché la tristezza invecchia e sciupa il viso (…) Ma Anna Margulis era una donna, oltre che lasciva e bugiarda, anche venale” (OPhilipponat / PLienhardt, La vita di Iréne Némirovsky, Adelphi 2009 p34)
Il titolo dell’opera, che è tratto da un sonetto di Baudelaire: “Fu la mia giovinezza un uragano cupo: | improvviso splendeva di tanto in tanto un raggio. | Fulmini e pioggia han fatto un tale scempio | che solo nel giardino qualche frutto rosseggia” (Op. Cit. p149) si riferisce chiaramente all’“innocenza devastata da Fanny, più rivale che madre” (ibid.). 
Effettivamente, molti gli episodi raccontati che paiono autentici, per i particolari vividi e la crudezza della descrizione accurata: la scena in cui la figlia sorprende la madre in compagnia dell’amante, oppure ancora: “Nei loro primi soggiorni parigini, i Némirovsky non potevano ancora permettersi alberghi di lusso. (…) Irocka e la governante vennero alloggiate altrove, quasi sempre in albergo di seconda categoria. La romanziera avrà così tutto il tempo di costruirsi in uno dei suoi primi romanzi, l’Ennemie, un’infanzia bohemienne. “Sapeva che non sempre era opportuno andarsi a ficcare tra le gonne di mammina quando costei passeggiava lentamente sotto gli alberi con un signore sconosciuto” (L’Ennemie I 1). La sua fu peraltro un’esistenza quasi da orfana” (Op. Cit. p31-31).
Ancora, la scena del suicidio della protagonista Gabri: “E’ quasi certo che all’età di vent’anni sia stata sfiorata dalla medesima tentazione” (Op. Cit. p125) o quella della violenza carnale, che rispecchia – secondo quanto raccontato da Irène stessa in una lettera all’amica Madeleine – un episodio della vita stessa della scrittrice, fortunatamente uscita illesa dall’esperienza grazie all’intervento di alcuni amici (Op. Cit. p123-124). Oppure la descrizione di Biarriz (“Una novella Sodoma” – Op. Cit. p138) e dell’Hotel du Palais, frequentato con regolarità dalla famiglia Némirovsky:
http://it.wikipedia.org/wiki/Biarritz
e anche – da qui il nome “Génia” (l’amante violento di Gabri) – la maledizione dell’ereditarietàdel sangue (Irène non fa mistero delle sue avventure di gioventù, specie durante gli anni della Sorbona passati tra amicizie, divertimenti, balli e notti insonni).
Eppure a Iréne questa vendetta truce e sadica non porta alcun benessere: nel racconto, il complesso rapporto tra la figlia e la madre viene ridotto ad una semplice rivalità amorosa e ciò che rimane più impresso è il sentimento negativodell’odio e dell’autodistruzione (che più che distinguere le due donne, le avvicina e le pone allo stesso livello) piuttosto che l’orgoglio della superiorità morale. Questione spinosa che verrà risolta tra le pagine di Le Bal, uscito nel febbraio del 1929 sempre a firma Nerey: “In esso IN abbandona il tono a volte patetico dell’Ennemie per soffocare i suoi singhiozzi in una feroce risata. Quei sarcasmi, quell’arte di scrivere dialoghi grossolani ma senza compiacimento, (…) la base morale di quella violenta satira sociale saranno l’impronta del suo stile fino alla metà degli anni Trenta” (Op. Cit. p154).
Ma le due opere, pur così differenti l’una dall’altra, continueranno ad in intrecciarsi tra loro in una fitta rete di echi e rimandi, non solo sulla carta, ma anche nella trasposizione cinematografica: “Nel film (Le Bal) Rosine Kampf si fa chiamare Jeanne, uno dei tanti nomi dietro cui ama camuffarsi Anna Némirovsky. E come nell’Ennemie, è l’irruzione di un amante a provocare la vendetta di Antoniette. E’ la prima volta che Irène osa sfidare così apertamente la madre, e sul grande schermo” (Op. Cit. p206).
http://www.voirunfilm.com/fiche-film/Le+bal-61305.html
Buona lettura 🙂

"I doni della vita" – "I falò dell’autunno", di Irene Némirovsky

Più riguardo a I falò dell'autunno Più riguardo a I doni della vita   Per far fronte alle spese sempre ingenti, tra la prima e la seconda metà del 1941 Irene Némirovsky si rivolge nuovamente a Horace de Carbuccia, Chief Executive della rivista “Gringoire” (“Una banderuola dal punto di vista ideologico ma un genio della carta stampata” – OPhilipponat / PLienhardt “La vita di Irène Nemirovsky”, Adelphi 2010 p340), proponendogli alcuni racconti inediti, tra i quali spicca “Les Biens de ce Monde”. Racconto che Carbuccia, naso fino, occhio lungo e affetto profondo per la scrittrice, si impegna a pubblicare, a puntate, sulla sua rivista: “un romanzo inedito scritto da una giovane donna” (di cui viene naturalmente mantenuto l’anonimato) recita la presentazione del feuilleton
Risultato: le vicende di Pierre Hardelot, giovane erede designato delle omonime cartiere, tengono in scacco centinaia di lettori per ben 30 capitoli, dal 10 Aprile al 20 Giugno. 
La famiglia Hardelot incarna perfettamente l’iconografia classica della media borghesia francese tipica della Belle Epoque: la saga familiare, incentrata su Paul e sua moglie Agnes, sposata per altro contro la volontà dei parenti poiché appartenente al ceto medio, prende il via negli anni appena precedenti il primo conflitto mondiale, termina con l’occupazione della Francia ad opera dei Tedeschi e si snoda epica, sciorinando una serie infinita di protagonisti e comprimari, attraversando trent’anni della storia francese tra nascite, matrimoni, funerali, guerre, sorti avverse ma anche favorevoli. “Les Biens de ce Monde è il grande classico di Irene Némirovsky, nel quale l’autrice svela quale sia il segreto della Francia: la solidità a prova di bomba della borghesia provinciale, che non si lascia mai abbattere e affronta con coraggio la sorte” (op cit p358)
L’opera non sottende né lo spessore né l’impegno politico / sociale di altri racconti ma funziona perché, nella sua mole dettata in primis, per altro, dalle mere questioni economiche che tanto assillavano l’autrice, risulta un’epopea estremamente accattivante per il pubblico specie per le decine di personaggi presenti e ben contestualizzati nella realtà contemporanea, tecnica che permette un meccanismo di immedesimazione quasi perfetto. 
Incoraggiata quindi dal buon esito del romanzo, INémirovsky affronta subito una nuova saga familiare, che andrà a coprire il periodo delle due guerre fino al 1941: “Les Feux de l’automne”. 
Non si tratta, tuttavia, di opere gemelle e neppure di un tentativo meramente commerciale volto a “cavalcare l’onda”. Anzi. 
Nel 1914 il giovane e promettente Bernard Jacquelin, appartenente ad una famiglia parigina della piccola borghesia, spinto dal fervore patriottico si arruola nell’esercito e parte per la guerra. Quattro anni di trincea, tuttavia, lo trasformeranno in uno sciacallo cinico ed arrivista al soldo di un vecchio amico di famiglia, Raymond Détang, ora divenuto potente imprenditore, abile finanziere e influente politico senza scrupoli. Se in “Les Biens de ce Monde” INémirovsky celebrava la forza di una certa classe sociale che aveva avuto (e avrebbe dovuto avere, agli occhi della scrittrice) il merito e il dovere di fungere da “collante” per la società, al contrario nell’ “Les Feux de l’automne” la scrittrice non fa mistero delle sue disillusioni: la Belle Epoque si è definitivamente conclusa (nel peggiore dei modi) e la guerra, (con il suo “culto ipocrita del sacrificio predicato dal pulpito” – op cit p379) non ha fatto altro che creare una nuova razza di giovani disillusi, attratti solamente (dopo anni passati in trincea a offrire la propria vita ad una Patria che mal li ha ricompensati) dal denaro facile e dal mondo corrotto dei piaceri, terra di avidi politici, faccendieri meschini e amori prezzolati. 
Eppure, all’Irene e al suo inguaribile ottimismo dovremmo essere ormai abituati. “Les Feux de l’automne” non è certo “un romanzo della rassegnazione” (op cit p384). La vecchia nonna, la signora Pain, la notte prima di morire sogna se stessa; cammina in mezzo ad un campo, tenendo per mano la nipote: “Vedi – le diceva – sono i fuochi dell’autunno che purificano la terra e la preparano per nuove sementi” (II, 9). 
Insomma, Irene Némirovsky ancora una volta ci stupisce per la sua profonda umanità, tanto più apprezzabile quanto più difficile da sostenere: “Accettò con falsa umiltà il bicchiere di acqua di Vichy che le offriva Thérèse e, non appena questa le voltò le spalle, scese dal letto, aprì la finestra e gettò il contenuto giù in cortile” (II, 9) 
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Irene Némirovsky non ebbe mai la soddisfazione di vedere pubblicati questi due romanzi: “Les Biens de ce Monde” uscirà in edizione integrale nel 1947.  Dieci anni di attesa in più toccheranno a “Les Feux de l’automne” (prima ed. 1957).
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Nota a margine: si è scelto di identificare le due opere oltre che con le consuete etichette anche con la tag #booksformums sia per via dei contenuti sia per la forma. La sensibilità di Irene Némirovsky nei confronti dei temi legati alla maternità è evidente, manifesta e soprattutto reca con sé elementi di profonda attualità. Per quanto riguarda la forma, il carattere intrinseco del feuilleton favorisce una lettura agile, di largo respiro, che non viene penalizzata ma semmai esaltata da una cadenza temporale lunga e inframmezzata dalle pause tipiche che il genere letterario porta inevitabilmente con sè. 
Buona lettura 🙂

"La preda", di Irene Némirovsky

Più riguardo a La preda  “<Finanza e politica – aveva detto un giorno a Dourdan – sono le due mammelle a cui si attacca l'ambizioso. Ma una è per metà prosciugata – aveva risposto Dourdan, perché era l'epoca dei grandi crac. Sì, il denaro era un merce effimera e deperibile. Solo per il denaro non avrebbe venduto la sua vita, ma c'era dell'altro… Non avrebbe pensato di sposare una ragazza semplicemente perché provvista di una bella dote, come avrebbe fatto un ragazzo privo di mezzi venti o cinquant'anni prima. Quello che bisognava inseguire non era tanto il denaro quanto un certo mondo, vicino al potere, o che il potere ce lo aveva in mano…” (p49) 
“Il mondo dei Sarlat, quello della finanza e della politica, era il solo in cui fosse ancora possibile progredire, non ristagnare, intraprendere qualcosa e portarlo a buon fine. Giacché per il resto… Lavoro non ce n’era da nessuna parte, né c’era la possibilità, o anche solo la speranza di progredire, di soddisfare le ambizioni più naturali dell’uomo. A costo di privazioni inaudite lui aveva ottenuto un titolo di studio il cui valore era pari al peso della carta sulla quale era stampato” (p60)
“Tutto si mercanteggiava nel segno dell’amicizia, della fiducia, dei favori dati e ricevuti, e così facilmente… Con una parola, un sorriso, un’alzata di spalle, degli imbecilli venivano portati alle stelle, dei ladri perdonati e uomini senza virtù né intelligenza forniti di laute prebende” (p78)
“Qual era stata l’esca usata da Abel Sarlat per riuscire a coinvolgere Langon in quelle speculazioni finanziarie che erano andate così male, che vanno male così facilmente? …Con ogni probabilità non c’era nemmeno stata un’esca… era bastata la leggerezza dell’uomo politico, dell’uomo importante, viziato dal successo…” (p108)
“Come si affezionavano in fretta, quegli uomini… Sembravano creati per nutrire e allevare i loro futuri rivali, o loro nemici. L’abitudine a vivere in pubblico, in una perpetua rappresentazione, li induceva a dare con facilità non la loro fiducia, ma le apparenze di una fiduciosa familiarità”(p112-113)
“Nelle tribune della Camera, una folla immobile, stipata tra le colonne, aspettava le sue star con silenziosa soddisfazione. Una folla sensibile non tanto alla precisione o alla profondità delle argomentazioni quanto al tono della voce, all’efficacia di una parola, di un gesto, di un’esclamazione” (p119)
Stiamo parlando dell’Irene, che scrive questo “La Preda” nel 1936 su suggerimento della rivista “Gringoire”, che poi pubblica il testo a puntate. La trama è (relativamente) semplice: il giovane Jean-Luc Daguerne, nato da famiglia povera, accecato dalla sete di riscatto sociale ed economico, spende la giovinezza alla ricerca del denaro e dell’affermazione personale nell’unico modo in cui gli pare conveniente, ossia gettarsi a capofitto nel mondo (fumoso e corrotto) dell’economia e della finanza. Finirà sì benestante, ma solo e corrotto, vittima – no meglio, “preda” – di tutto ciò che non è stato in grado di apprezzare durante gli anni migliori della vita: gli affetti familiari e filiali, le bellezze della vita, le amicizie profonde, uniche e durature, e, soprattutto, l’amore. Poiché la crisi economica crea e modella un tutto mercificabile la cui acquisizione, tuttavia, richiede pur sempre un obolo: “Il titolo, La Proie, è emblematico di un periodo in cui tutto, dai sentimenti al benessere, alla dignità, è oggetto di rapina” (OPhilipponat / PLienhardt “La vita di Irène Nemirovsky”, Adelphi 2010 p265).
Curiosamente, si veda l’articolo a firma Massimo Gaggi su @La_Lettura #73, di ultima uscita, che abbiamo riportato martedì su Twitter: “Tutto si vende, anche l’onore”, con sottotitolo “Michael Sander contesta la dilagante mercificazione dei costumi e dei valori: Posti in fila, celle singole, uteri: il mercato della nuova società di mercato”. 
La versione completa dell’opera viene data alle stampe nella primavera del 1938, vende più di diecimila copie (op cit p281) e stupisce i contemporanei per il vigore del giovane Daguerne (dal carattere tipicamente “nemirovskiano”) e l’acume stilistico con cui il personaggio viene dipinto malgrado una certa lentezza e prevedibilità della trama “a tesi”, che ad alcuni, per altro, risulta eccessivamente politicizzata. E da parte dei critici contemporanei il confronto con il protagonista della Nausée, opera di un “certo” Jean-Paul Sartre e pubblicata nello stesso anno, viene naturale… ma di risultato non scontato.
Buona lettura 🙂

"La sinfonia di Parigi e altri racconti", di I Némirovsky

More about La sinfonia di Parigi e altri racconti Dopo “Tony & Susan” eccoci a voi con un altro dei nostri Christmas’ reading: si tratta di “Natale”, “racconto” breve a firma I Nemirovsky contenuto nel volumetto di cui al titolo, appena edito (Novembre 2012) da @Elliotedizioni. In realtà ci troviamo di fronte a tre vere e proprie micro-sceneggiature più che a un esempio tradizionale di narrazione composta da pezzi minimi. 
La fascinazione di I Nemirovsky per la Settima Arte è nota ed evidente, già espressa al meglio sin dai tempi della trasposizione cinematografica di “David Golder” (6 marzo 1931) che tanto scalpore suscitò tra pubblico e critica (Philipponat – Lienhardt 2009: si vedano le pagine in proposito [196 e segg.]) sia per arte sia, ovviamente, per contenuti. 
“Quanto al parlato, lei ne vede unicamente i vantaggi: *Il muto ci faceva viaggiare tra i fantasmi… Grazie tante! Il cinema sonoro è un arricchimento prodigioso…*. *Il cinema è l’arte che più si avvicna alla vita, che ha la parentela più stretta con la verità…*. (I Nemirovsky) Lo ama talmente, e ne riconosce così volentieri l’influenza sulla propria arte – taglio delle scene, tecnica dell’inquadratura, vivacità dei dialoghi, priorità del suggestivo, avversione per il commento – che pensa addirittura di scrivere delle sceneggiature vere e proprie tralasciando provvisoriamente il romanzo (…) *Nella mia testa medito progetti di film, perché, come sempre, penso per immagini*” (op. cit. pag 199-200) 
Commenti ai contenuti del pezzo che vi abbiamo segnalato?! Solo uno: attenzione, maneggiare con cautela, perché l’Irene non si smentisce mai.

Buona lettura (natalizia) 🙂

"Il Signore delle Anime", di Irene Némirovsky

More about Il signore delle anime La prima puntata di “Echelles du Levant” viene pubblicata, su “Gringoire”, il 18 maggio 1939 Ed è così che abbiamo provato a leggerlo, questo “Signore delle Anime”: ad episodi, come nella più classica tradizione del feuilleton. Uno dei lavori più difficili dell’Irene, oscuro e complesso, di certo non la prima opera di I Nemirovsky che ci sentiremmo di consegnare nelle mani di un pubblico ignaro dell’argomento.  

Prima di tutto per la struttura in sé che, nel suo alternarsi a capitoli di moderata lunghezza ed egual misura, e nelle chiuse di genere create secondo la sapiente arte della sospensione e del climax, mostra evidente dipendenza dalla tipologia di pubblicazione. 
“Il signore delle anime” è steso in fretta, al pari con la pubblicazione, da un’Irene che in questo frangente non fa mistero della sua urgenza, dettata da tutta una serie di motivi sia venali – la necessità di denaro – sia meno – il 1939 in sé e per sé, l’affermazione letteraria, il successo di” David Golder” e di tutto il filone a tematica “ebraica” della sua opera.  

In secondo luogo per i soggetti trattati, sia per se stessi, sia alla luce degli eventi storici e culturali che contestualizzano fortemente gli anni dell’affermazione letteraria di I Nemirovsky.  

Il Dottor Dario Asfar è un’esule, un meticcio, come venivano genericamente indicati gli immigrati dell’epoca; e dell’esule ha fattezze (viso smagrito, pallido, occhi infossati, vibranti, guardinghi) e carattere (spregiudicatezza, bramosia di denaro, di vita, di auto affermazione sociale).  

Iconografia antisemita – alla pari di come venne tacciato da diversi anche “David Golder” – dell’ebreo emigrato, affarista senza scrupoli, avido di denaro, che sempre rimane ciarlatano venditore di tappeti e fuffa qualunque sia la merce, o il servizio (sì, anche medico), che si trovi a offrire? 
Il tutto ritratto ad arte da una scrittrice a sua volta esule, meticcia, per giunta ebrea, bramosa di un riconoscimento politico (la naturalizzazione francese, che mai gli verrà concessa – questione che le costerà un biglietto di sola andata Paris – Aushwitz) sociale (l’appartenenza all’élite della buona borghesia parigina, che sebbene non le fosse stata mai del tutto negata, grazie agli ambienti dell’alta finanza frequentati dal padre e alla famiglia facoltosa per parte di madre, non le fu mai del tutto concessa, quale esule apolide), letterario (cfr la pubblicazione assidua su “Gringoire”, rivista che di certo non brillava per coerenza e apertura politica e sociale)?

Oppure, concreto esempio di romanzo psicologico d’epoca, che tanto risente, nella sua intima struttura, del naturalismo di Zola e della lezione francese di Maupassant, all’interno del quale la rappresentazione della parabola dell’esule ebreo – ovvero, semplicemente ciò che c’era di più vicino alla realtà viva, e quotidiana, della scrittrice (per la serie, parla di quel che sai, scrivi di quel che vedi) – si fa soltanto mero attributo e semplice pretesto utile alla messa in scena di una grandiosa baldoria in costume, che tanto acquista, quanto più si procede nella narrazione, le fattezze della satira più crudele e feroce?  

La figura del ricchissimo industriale Wardes è chiaramente modellata su quella, reale, dell’editore del “Gringoire” Bernard Grasset, vittima di gravi disturbi nervosi e alla fine internato, secondo il pettegolezzo, dalla stessa famiglia: la psicoanalisi, moda e vizio dell’epoca, fa da padrona nell’economia del romanzo così come la diatriba, anch’essa di attualità, che vede la medicina francese opporsi strenuamente all’ondata migratoria di praticanti stranieri, accusati (spesso ingiustamente) di imperizia e pratiche illecite.  

Il “povero” Dottor Asfar, essere abbietto e disprezzato, per il quale Irene non si esime mai di provare empatia e compassione espressa attraverso le parole della devota consorte, non è dunque soltanto un pretesto per sorridere, far sorridere, e finanche condannare un mondo a sua volta abbietto e spregevole, vittima della ricchezza conformista e mistificata? Un mondo che, alla vigilia della guerra (tramonto che preme irruento alle porte di una notte oscura e senza fine) – tale e quale a una donna non più giovane che cosparge le rughe del volto di cipria e rossetto alla vigilia di una serata di gala – attraverso il vetro polveroso di uno specchio distorto ritrova la propria immagine riflessa: invecchiata, ansiosa, cupa, smaniosa, xenofoba e antisemita?  

NB: nota tecnica. Si consiglia caldamente la lettura del saggio, in postfazione, di Olivier Philipponat e Patrick Lienhardt, curatori, tra l’altro, della biografia dell’autrice. Da sottolineare a matita. 

"Il vino della solitudine", di Irène Némirovsky

More about Il vino della solitudineE’ che leggi l’Irene, poi guardi i tuoi figli e le domande si sprecano.
Non ti sembra possibile che in Helene, una bambina così minuta, uccellino dall’aria smarrita tra chiffon e percalle inamidato, alberghi una creatura tanto violenta nell’odio e nell’ira, unghiette limate lunghe e guance morbide congestionate dal risentimento. Ti prende alla gola la paura di aver sbagliato qualcosa (sicuro, che hai sbagliato qualcosa), una sensazione di colpa e vergogna nei riguardi di un futuro incerto (chissà cosa sarà di loro | mi ameranno ancora | riuscirò ad amarli ancora), malmesso, inconfutabile.

Questa Irene ci ha ricordato da vicino un’altra saga familiare, quella raccontata da Rosetta Loy nel suo “Cioccolata da Hanselmann”. Le stesse bambine curate nell’educazione e nel vestito, lingue straniere mandate a memoria alla perfezione, istitutrici private, tate e badanti; maglioni di lana pesante, neve, paesaggi lunari e grandi case abbandonate dalla guerra e dal destino, tra ricchezze e sentimenti nascosti, perduti, sperperati.
Ma non solo.
Helene, con l’innocenza crudele tipica di certe infanzie negate e l’ingenuità propria dei bambini sperduti e MAL-educati, distrugge in un sol colpo e senza quasi rendersene conto (via, uno schiocco di dita) la vita di un’intera famiglia. Al pari dell’Antoinetteprotagonista de “Il ballo”, che non per nulla è un’altra delle più autobiografiche opere dell’Irene.
Le due ragazze, con un gesto banale, forse neppure così premeditato, sovvertono il destino di due famiglie, decretandone la rovina: Antoinette, in un moto di stizza per essere stata abbandonata non solo dalla madre, ma anche dalla bambinaia, getta nel fiume il pacchetto degli inviti al ballo, dando il via ad una serie di reazioni a catena tanto inarrestabili quanto irrimediabili.
Helene, confidando appieno nella sua fresca, adoloscenziale bellezza, per ripicca sottrae il giovane amante alla madre Bella (sic!), che per così tanti anni ha ignorato – con dovizia di impegno e gran profusione di energie – le responsabilità genitoriali.

Trasformandosi da bambina goffa e indesiderata a perfetta femme fatale secondo la più classica delle iconografie Belle Epoque, Helene in pieno delirio di onnipotenza distrugge oltre che la psiche di sua madre, già fragile di suo, anche tutta una serie di delicatissimi, sotterranei equilibri familiari (“lei, lui, l’altro”) che a lei, bambina sofferente e dimenticata (Chi vuoi che si curi dei bambini, Helene – le dice un giorno Max, l’amante della madre), neppure erano evidenti.
Antoinette, gettando i cartoncini degli inviti nel fiume disgrega pezzo per pezzo quello status sociale così faticosamente costruito dalla sua famiglia: ricordate, la madre di Antoinette, popolana di bassa lega, riscattatasi con il matrimonio, alla ricerca dell’affermazione sociale?

Ci troviamo di fronte ad una delle opere dell’Irene ancora macchiate dall’idea forte del melodramma sentimentale. Bella è caricatura di se stessa, trucco pesante, amori incondizionati, ricchezze estreme e altrettante, repentine, cadute. Gli uomini sono creature di sfondo, cupe ed enigmatiche.
Il padre di Helene è l’uomo d’affari per antonomasia; brucia di passione (un David Golder appena abbozzato) più che per il denaro in sé, per il momento del rischio, dell’acquisto, della perdita; tormento ed ebbrezza per il gioco d’azzardo, per l’imprevisto, per la vita nomade del viaggiatore e dell’esule. Disprezzo per le belle cose, per la pace dell’animo, per la famiglia tradizionale, per la vita tranquilla.
Max, il giovane amante di Belle, incarna all’opposto la figura del giovane aristocratico ricco e flemmatico. Poca ambizione, giornate lunghe da occupare con gite in macchina, donne, feste e conversazioni infinite, musica e balli, tormenti amorosi.

L’Irene, con gli anni a venire, affinerà la tecnica modellando personaggi sempre più complessi, che riuscirà a liberare dai vincoli del topos narrativo donando loro mille sfaccettature grazie alle quali sarà in grado di esplicitare appieno la completezza del reale.
Qualcosa però c’è, presente e vivo tra le pieghe di una scrittura giovane ma corposa e curata; un qualcosa che già spiega, in parte se non del tutto, la fiducia incrollabile che Irene Nemirovsky ripone nella risoluzione pacifica del conflitto bellico e della questione ebraica: se Irene Nemirovsky nelle sue opere affronta le luci, e soprattutto le ombre, delle esistenze di ogni suo singolo personaggio – comprese quelle di una se stessa bambina – comprendendone le sorti alla luce di una pietas fortissima, tutta latina, come può non assolvere anche un supremo dittatore, nella speranza, mai sopita finanche nel momento dell’esito finale, di una improbabile, ma pur possibile, redenzione? 

"Il malinteso", di Irene Némirovsky

More about Il malinteso L’opera prima dell’Irene profuma di talco e lavanda, guance rosee e adolescenti al ballo; eppure porta con sé anche il vento e l’aria fredda di un temporale di settembre, di quelli che se sei al mare, ombrelloni chiusi e sabbia bagnata sotto ai piedi, guastano irreparabilmente la giornata e ti mandano a dire che la stagione, oramai, è bella che finita.
Finisce allo stesso modo, la stagione di Denise, ingenua moglie-bambina, modi affettati, vita facile e bei vestiti, e come l’onda lunga di un mare agitato si infrange sui sassi aguzzi di una spiaggia incolta.

Avere 20 anni ed essere in grado, così giusto per provare, stesa su un divanetto del soggiorno, un quaderno in una mano e nell’altra il campanello per chiamare la servitù, di “buttar giù due righe” e creare dal niente le figure grottesche e raccapriccianti, così vivide perché così reali, di signore attempate, desperate housewives dalle rughe profonde mascherate dal belletto sul viso umido di sudore, che, nell’ombra di locali fumosi, fino a notte fonda esorcizzano il buio e il silenzio dell’animo tra balli, musica, frastuono e alcool, cullando sui loro grembi avvizziti macabri pierrot di pezza e lustrini, feticci di quella bella “stagione della vita” ormai morta e sepolta.
Per tutto il resto c’è l’umiliazione di noi poveri lettori, costretti a confrontarci con un’autrice che dei corsi di scrittura creativa se ne sarebbe fatta un baffo. #Priceless.

L’animo di Yves è rigido e duro come la pietra e la terra dell’Europa corrotta dalla guerra, poco incline al sentimento e alla passione amorosa. Yves cerca la pace e la tranquillità dello spirito: un sospiro di quiete, un guanciale morbido, lindo, fresco di bucato su cui posare il capo, chiudere gli occhi e liberare l’animo dalle inquietudini del mondo, condividendone (cum-patior) con la persona amata i dolori, ma anche le gioie. Denise invece è il fuoco, è l’ardore dell’amore passionale, è desiderio cieco e febbricitante per tutto ciò che un marito lontano, ricco e distante, e – diciamocelo – pure un po’ fesso, non riesce a donarle.

Chissà che Yves non rappresenti l’uomo nuovo, per l’Irene come per la società moderna (e qui sta l’attualità del libro, dramma sentimentale a parte). L’epopea del selfmade man, che, affrancatosi da un’eredità familiare oramai altra, aliena da sé – vuoi di agiatezza e prosperità, vuoi di povertà proletaria – diviene artefice del proprio destino, riappropriandosi di quell’imperativo morale, categorico, che i tempi richiedono: una ri-assunzione di quelle responsabilità adulte che fanno di un giovane figlio un uomo maturo, virile, consapevole delle proprie forze ma anche delle proprie debolezze; un uomo in grado di affrontare le difficoltà della vita reinventando il proprio destino e il proprio ruolo nel mondo.
Tutto quello che il marito di Denise non è: perso in una nuvola fumosa da sigaro postprandiale fumato in biblioteca, un bicchiere di buon vino, è prosecutore passivo di una certa qual tradizione – e ricchezza familiare – fatta di industrie, affari, commerci (neppure gran che identificati, come ovvio), ruoli e posizioni sociali immutabili e indiscutibili nella loro essenza di diritti acquisiti, al di là del talento e dei meriti individuali.

La vita adulta, tuttavia, richiede un obolo in cambio. E lo chiede sia al maschio sia alla femmina: così come l’uomo, acquistando un nuovo ruolo all’interno della vita di famiglia (partecipe, presente, collaborativo – vedi il rapporto di Yves con la figlia di Denise), ma anche sociale e professionale, a contatto con le difficoltà pragmatiche del mondo perderà parte della sua indole passionale e romantica, tornando a ricercare nella donna e nell’intimità della famiglia quel porto sicuro fatto di tenerezza, sollecitudine e comprensione reciproca, così la donna, se desidera al proprio fianco un uomo dalla maturità completa e consapevole, dovrà essere in grado di abbandonare i sogni romantici di passione bruciante a favore di un amore (e non di un innamoramento) duraturo, condiviso, intimo ma di certo meno incline al romanzo sentimentale.

"David Golder", di Irene Némirovsky

More about David Golder E’ inutile. Da qualsiasi parte lo guardi, David Golder ti provoca sempre un senso di fastidio.

Il fatto è che non è solo fastidio, è proprio irritazione; e, francamente, della peggiore specie; via, altro che politically correct, evitiamo le balle e diciamoci la verità. Cioè, delle volte sei proprio lì lì per mollarlo, eh, al suo marcio destino, David Golder – ché tanto, lui, alla fine, ci arriva lo stesso e vuole per altro arrivarci da solo, quindi, tanto vale.
E un po’ ti incavoli anche con l’Irene, che con la consueta leggiadria e strizzatina d’occhio (ma che è, ci è o ci fa? – e il dubbio ti viene pure) ti mette lì sul piatto un personaggio di tal fatta a) di cui non te ne può fregare di meno perché cosa c’entriamo noi con un tipo del genere b) così fastidioso che se non riesce ad ammazzarsi da solo, quasi quasi avresti voglia pure di dargli una mano.
Ora. Questo tipo è vecchio. Brutto, tarchiato, segnato nel corpo da decenni di fatiche e stenti: denti marci, capelli un po’ di qui un po’ di là, rughe sparse; forse ha pure un po’ di gobba, così ce lo immaginiamo, tanto per quel che vale. Fuma sigari che immaginiamo puzzolentissimi, avrà, Gesù, un alito da spavento e quell’odorino acre e penetrante di chi si lava poco (visti i tempi…).
Per altro, è sì ricco sfondato, ma è talmente messo male che forse se lo trovassi in giro gli allungheresti pure qualcosa, per lo spavento. Palandrane scure, lise dagli anni, un portafogli di cuoio le cui due parti manca poco che rimangano insieme solo perché legate tra loro con un pezzo di spago; sguardo cieco piegato su candele morenti e libri mastri e carte indecifrabili, fino a notte fonda, nel freddo di una stanza mal riscaldata.
Per altro, la prima impressione non è certo fugata da quel che vien dopo.
Questo Golder pare un farabutto di prima categoria, uno che non esita, in nome di che cosa non si capisce, ad approfittare delle (evidenti) difficoltà, personali d professionali, del socio (ventennale) a cui non le manda sicuramente a dire. E siccome non c’è limite al peggio, quello, vittima della depressione, della sfavorevole congiuntura economica e della terribile conversazione notturna avuta con il sopracitato Golder, che – da gran signore – non gliene ha abbonata neanche una, tornato a casa pensa bene di ammazzarsi buttando all’aria famiglia e affari.
Ora, ricapitoliamo: brutto, vecchio, sporco, e pure una gran carogna, chè al funerale del socio (suicidio di cui si potrebbe definire il mandante) non fa altro che lamentarsi delle condizioni meteo maledicendo “la gran cavolata” – come definisce, twitterando, la bella idea del socio – che gli sta facendo perdere ore preziose, anzi preziosissime, per gli affari e le contrattazioni. 
L’immagine edificante è completata da due vecchietti bavosi al pari suo che, chiusi nelle palandrane nere, non fanno che maledire funerale e pioggia e caro estinto il di cui ultimo scherzetto (postumo) – interpretazione delle più fantasiose – sarebbe la polmonite fulminante a cui avrebbe esposto i “cari” amici accorsi al sepolcro.
A questo punto non si salverebbe niente. Date le premesse, dicevamo.
Senonché, proprio, a smettere di leggere non ce la fai. E’ questione che ma sì, ancora un paragrafo, giusto per concludere. Sicché poi vai avanti ancora per una decina di capoversi e poi pensi che, data l’entrata in scena della Sig.ra Golder (toh, si capisce, poi, perché volevano trarne una trasposizione teatrale e pure cinematografica), allora è lecito continuare ancora per qualche altra pagina così da terminare il capitolo.
E’ che poi quando meno te lo aspetti arriva Joyce e il danno è fatto, non si torna più indietro. Così la rabbia monta e stai sempre peggio perché ti accorgi che l’Irene, ancora una volta, ha fatto il suo gioco e tu hai un bel dire, ad accampar scuse, sì il lettore protagonista, sì la scelta consapevole, sì la fruizione meditata del testo. La questione è che ancora una volta quella lì ti ha preso e rigirato come un calzino e tu non te ne sei neanche reso conto. O meglio, te ne sei accorto troppo tardi.
C’era quella storia in Harry Potter, quella dello specchio dimenticato. Quello specchio che ti faceva vedere, alla fine, quello che TU volevi vedere, e niente altro. O forse quello che NON avresti mai voluto vedere. Ecco perché David Golder ci sta proprio sull’anima, e però non possiamo fare a meno di seguirlo per vedere dove va a finire. Attrazione e repulsione.
David Golder non è interessato al denaro. Ne possiede? Probabile. Però lo prende e lo reinveste, buttandosi a capofitto in imprese disperate. Lo perde al gioco, turbinio di fiches impegnate, gettate via, riprese, rivendute, senza sosta, fino all’alba. Si circonda, per volere della moglie, di arrendamenti lussuosi, appartamenti e ville di cui non si cura e che non gli sono di nessun conforto né materiale né morale. Corre da un capo all’altro del mondo alla ricerca dell’affare perfetto; affare perfetto che non troverà mai, perché l’importante non è il fine, ma la corsa, che David Golder ha il terrore di abbandonare. Una malattia, l’infermità, finanche la morte, ecco l’uomo nero che attanaglia i disturbati sonni notturni di David Golder.
E non solo i suoi, a dire la verità, ma pure i nostri.
Noi, quelli che di fronte a quella terribile agonia di lacrime e solitudine non possiamo fare altro se non rabbrividire di orrore e raccapriccio, trascinati e persi (ah, il lettore consapevole, padrone di sé? Come no) nel profondo di una Russia atavica, crepuscolare e così definita, precisa, nei suoi rimandi letterari di Tolstojana memoria.
La miseria, da cui la moglie Gloria, vissuta la gioventù negli stenti e nelle privazioni, ora rifugge come la peste. La vecchiaia, la bruttezza, l’anonimato (anche sessuale – ovverosia l’essere non-desiderabile) per la figlia Joyce.
E’ questo, quello che la famiglia Golder scopre nel fondo dello specchio, osservandosi attentamente. E non si può dire che l’Irene qui non ne abbia per tutti noi. (vedi punto a sopra – che ci azzecco io con David Golder).
Come è per Gloria, nata e cresciuta nella miseria e nella fame, che antepone – interesse di vitale importanza – la creazione e la conservazione dello status symbol familiare (Mulino Bianco docet) a qualsivoglia forma di affetto sia filiale, sia coniugale, così è per Joyce che, abbandonata ogni peculiarità propria, intima, non diviene altro – spersonalizzandosi – se non una delle tante ragazzine, in tutto e per tutto identiche, di quelle che popolano le spiaggie più chic di Biarritz, alla ricerca di emozioni forti, uomini prestanti e avventure mozzafiato. Il terrore di tutte le anti-Bella Swan: la spersonalizzazione. Ma anche, al rovescio, lo spauracchio di tutte le cheerleaders del mondo: la pardita della popolarità e la discesa verso gli inferi dell’anonimato.
E poco importa che David Golder sia ebreo. “Casualmente”, è pure ebreo (e da qui tutta la querelle sul presunto antisemitismo del libro). Ma poco ci prende, giacché l’Irene quello aveva a disposizione, e mica altro, e quindi, di necessità virtù. Che alla fine, non è che Golder per altro sia così “ebreo” – se la vogliamo proprio vedere da questo punto di vista. 
Anzi, forse è così messo male proprio perché in qualche modo vi ha rinunciato, all’ebraismo – o a qualsivoglia – che nome vogliamo dare, qui, alla questione – credo religioso, fede nell’Umanità? E sempre qui ritorniamo.

"L’affare Kurilov", di Irene Némirovsky

More about L'affare Kurilov Quasi una sorta di “testamento etico”, che l’Irene consegna nelle mani del marito Michael, cui l’opera (datata 1933) è dedicata. Racconto cupo e pieno di spavento, a far da padrona la grande Russia degli zar al culmine della decadenza e tutto un contrappunto di ossimori a evidenziare di come, nella vita di ogni giorno come nelle questioni di Storia, la demarcazione tra etica e politica; morale, giustizia e dovere; affetto filiale e devozione verso la propria famiglia di adozione (sia essa il “partito” o lo Zar) sia – quasi sempre – tutt’altro che netta.

E così, ecco le stragi degli studenti in piazza acquistare una fisionomia più completa, trasformandosi da mattanze prive di qualsivoglia significato agli occhi stupefatti del popolo ignaro, in genocidi tremendi dettati da un senso del dovere distorto dall’abominio del servilismo, perpetrati da vecchi oligarchi malati, abbandonati al proprio destino, terrorizzati a loro volta dagli ordini secchi e perentori impartiti da sovrani ormai avulsi da ogni contesto politico e sociale.
Lo sguardo di ghiaccio del Ministro, che il popolo soggiogato dovrebbe considerare quale prova evidente di un potere saldo e incrollabile, si distorce, nel privato di una stanza buia ricolma di Madonne (quasi ad invocare un inutile postumo perdono), nel grido muto di un delirio tremebondo fatto di incubi, febbri e terrori.
Il corpo massiccio, pesante, stretto nelle divise di tessuto pregiato arricchite dall’oro e dalle pietre preziose, una volta liberato dei vestiti rivela ciò che la stoffa nasconde: carni deboli, sfatte e morenti di un uomo già condannato dal decorso inesorabile di una malattia che non risparmia né ricchi né poveri.
La vita scintillante della corte, tanto agognata dai poveri sudditi, è smembrata dall’interno in tutte le sue viscere fatte di favoritismi, invidie, malignità, ritorsioni, vendette, e pare che a nulla valgano – o meglio, pare che non siano di nessun conforto – le fini porcellane francesi, la mobilia raffinatissima, le dimore di campagna, i gioielli, la musica e le danze.
Contrasti stridenti, si diceva, ma anche evidenti parallelismi. Il destino segnato del giovane Léon, che “appartiene al partito per nascita”, alla pari di quello della giovane Irina, costretta suo malgrado ad un matrimonio di convenienza.
E poi, la malattia: i fiotti di sangue della tubercolosi che affligge Léon e la misteriosa tumefazione negli intestini di Kurilov: entrambe divorano i corpi dall’interno, mangiandoli con sfiancante lentezza in un alternarsi insostenibile di remissioni e recrudescenze.

Ancora: la cultura, lo studio, le lingue, su un piano diverso e parallelo che abbraccia non solo vicende personali e storia patria, ma anche il costume e la società.
Alla corte degli zar e nei palazzi del potere si parla non soltanto il russo più adeguato, ma anche – e molto più spesso – il francese e il tedesco. Si studiano le opere dei più talentuosi scrittori europei, si ascolta musica, si apprezza l’arte figurativa e il teatro. Tuttavia questa supposta, e celebrata, “internazionalità” (leggi alla voce… globalizzazione?) non è strumento sufficiente al rinnovamento di una classe dirigente saldamente ancorata a sovrastrutture sociali e culturali totalmente estranee al mondo europeo a cui si guarda con crescente fervore.
Al contrario, ma in parallelo, i rivoluzionari apolidi per nascita, come Léon, oppure per necessità e scelta, come Fanny, acquistano sì una vasta e fisica comprensione del mondo basata sull’esperienza (anche drammatica) di vita; esperienza “sul campo” che tuttavia non è corroborata e sostenuta da alcun approfondimento personale, teorico e culturale, e che rischia quindi di scivolare nella parzialità e nel fanatismo, se mal guidata (attenzione qui al ruolo dell’intellettuale – dei giornali, delle riviste, della letteratura in genere, nella formazione delle “masse”, tema tanto caro all’Irene degli ultimi periodi).
Ad entrare e uscire da questi mondi paralleli, il “medico” Legrand, incaricato dell’uccisione del ministro, unico punto di contatto tra due realtà entrambe distorte, impraticabili e di impossibile risoluzione.
Unica scelta possibile, la fede nell’Umanità, di cui l’Irene si fa portatrice, in tutte le sue opere e fin sul treno che la condurrà ad Auschwitz-Birkenau.