“Faune”, di Christiane Vadnais (trad. Piernicola D’Ortona)

Con gran dovizia di modi e di toni, da diverso tempo ormai il panorama editoriale si pregia di illustrarci le azioni che in tutta coscienza dovremmo mettere in atto allo scopo di contrastare il disastro ambientale di cui siamo responsabili. Dal romanzo alla saggistica divulgativa, dalla poesia al fumetto, dal reportage al podcast, ci vengono elencati tutti i bias cognitivi di cui dovremmo liberarci e tutte le azioni pratiche individuali e collettive necessarie ad arginare le drammatiche situazioni che abbiamo contribuito a creare. La tipologia degli interventi proposti è duplice – contenere il danno e invertire la rotta – ma di fatto l’obiettivo è unico: il mantenimento di un particolare status quo che in questo caso corrisponde, ça va sans dire, alla sopravvivenza del genere umano.

Cosa succederebbe tuttavia se, con uno scarto di pensiero, saltassimo fuori dalla prospettiva umanocentrica e ci rivolgessimo all’antispecismo, ovvero se per una volta non ci sistemassimo – noi, in qualità di esseri umani – al centro della questione? Cosa succederebbe insomma se nell’economia delle cose future mettessimo in conto la nostra stessa estinzione, come conseguenza del casino prodotto?

“Di notte, i sogni dell’individuo si mescolano a quelli della sua specie. Mammiferi, uccelli, rettili tornano incessantemente a divorare. Sprofondati nel sonno, cani e gatti continuano a cacciare, le zampe percorse da sussulti. Volatili e lucertole addormentati reinventano il fremito degli insetti, lo strisciare dei vermi pasciuti, la fuga di prede minuscole e l’arrivo dei predatori più voraci.”

La domanda non è peregrina né inedita. Ne hanno già parlato, per esempio – giusto per citare la saggistica divulgativa raccontata qui sul blog – Emma Marris e Cal Flyn, che nei loro lavori riportano l’opinione di diversi scienziati al momento scettici sulle teorie del conservazionismo, ritenute, di fatto e di nuovo, figlie di una necessità antropocentrica spesso frutto di analisi su scenari remotissimi (per la serie: com’era il mondo prima noi) rispetto ai quali le nostre conoscenze restano vaghe, perfino ipotetiche. Un conto, tuttavia, è riflettere su quanto sia il caso di sterminare col veleno quella specie alloctona di gagliardissimi roditori che hanno invaso certe isolette del Pacifico a seguito dell’espandersi delle rotte commerciali cinquecentesche (risposta: no, non è il caso, ormai è tardi, sa il cielo a quale imprevedibile reazione a catena daremmo il via ammazzando migliaia di creature che alla fine nel bene e nel male si sono integrate nel cerchio della biodiversità locale). Altro conto è inserire la voce estinzione umana nell’elenco di ciò che riteniamo possibile che accada, in un futuro prossimo venturo.

Per fortuna però c’è la scifi. A raccontare con gran candore questa dissacrante ipotesi ci pensa il sottogenere weird, a cui il romanzo breve “Faune” appartiene, per forma e temi. Nel solco di chi, dal punto di vista scientifico, mette in dubbio la necessità di una salvaguardia conservazionista (che per certi versi sottostima l’efficacia dell’autoregolazione naturale e il concetto evoluzionistico di ibrido – cfr. sempre Marris e Flyn), ecco che le poetiche pagine di “Faune”, scritte da una giovane project mananger canadese, ci regalano un punto di vista quanto mai inedito: quello del non far nulla. Dell’arrendersi all’idea che questo pianeta su cui ci troviamo a vivere a un certo punto, semplicemente, non abbia più bisogno dell’essere umano e che si metta d’impegno per liberarsi di questo inutile fastidio.

“Nel sogno ritrova una nebbia attraverso cui si disegnano i contorni di animali vaghi, una foresta di sagome che si sfiorano girando intorno. Cervi. Volpi. Da quella massa di vapore si staccano creatura oblunghe, né bisce né vermi, che fuggono nell’acqua. Le vede agglomerarsi in un groviglio brulicante, un nido di vipere galleggiante che si trasforma in una donna, la cui pelle diafana lascia vedere le ossa in trasparenza, le vene, il sangue che pulsa nel corpo. Un essere a infrarossi, che spalanca enormemente la bocca scoprendosi il cranio.”

La biologa Laura, alla ricerca del parassita misterioso che a quanto pare sta modificando geneticamente tutto quello che di vivo incontra sul proprio cammino senza distinzione alcuna fra uomini, animali-non-umani o piante nell’approccio-spillover antispecistico più massiccio che la storia della Terra abbia mai conosciuto, si imbatte in una serie di esseri viventi che, col proseguire del contagio, assumono sempre più le caratteristiche di ibridi mostruosi e affascinanti, in una lotta spasmodica per la sopravvivenza che interessa tutti, senza distinzione di specie. Crostacei col ventre ricolmo di sostanze tossiche nascosti nel greto dei fiumi, in attesa di essere inghiottiti dai pesci e dagli uomini, conigli dai denti di bestie feroci che si nutrono di carne umana, piante luminescenti che secernono bave di sostanze infestanti, funghi che invadono con le loro spore la terra grassa del bosco e colonizzano la semenza futura; e poi uomini-pesce, uomini a cui spuntano peli e ali, donne-foresta dalla pelle bianchissima, quasi trasparente, che corrono nude per i boschi e si nutrono dell’acqua della palude. Nel cerchio della vita – viene a rendersi conto Laura, sempre più affascinata (perché scienziata) e orribilmente impaurita (perché essere umano) – poco importano i danni collaterali: il processo evolutivo ha sempre messo in conto i vicoli ciechi; il punto è che a questo giro pare che a essere arrivata alla destinazione finale non sia solo una certa quantità di animali e vegetali la cui ibridazione non riesce ad andare a buon fine ma anche l’essere umano.

“Non distingue più gli animali dalle loro ombre. I vivi dai morti. I rumori umani dal raspare e dagli ansiti resuscitati nel buio pesto.”

Al Weird non interessa granché della Natura come organismo eticamente polarizzato. Rifiutando sia l’epica del buon selvaggio (da Thoreau a tutto il movimento dell’anarcoprimitivismo, per esempio), con l’accogliente, idilliaca bontà del mondo naturale, sia – all’opposto – la narrazione che, fin da quel momento in cui sulla linea del tempo la preistoria lascia spazio al mondo illuminato, vuole l’essere umano in perenne conflitto con il mondo-non-umano (dal mito greco arrivando a “Jaws”, dallo sterminio dei popoli del Sud America alla conquista del West), questo stile narrativo, che in realtà è più un modo di vedere le cose del mondo, interpreta gli ambienti naturali come un ecosistema unico, volto alla propria conservazione, all’interno del quale l’essere umano altro non è che uno dei tanti attori.

In “Faune” Vadnais riprende esattamente questo paradigma, dipingendo un postumano in cui gli animali-uomini di nuovo (un ritorno al preistorico, insomma) non si trovano più al centro dell’ecosistema ma sono unicamente parte di esso – e di sicuro non in cima alla catena alimentare. Al di là della trama, di cui possiamo raccontare poco pena la perdita dell’effetto sorpresa (perché è chiaro, Laura non sarà semplice protagonista di tutte queste mutazioni), preme sottolineare come questo romanzo breve, a punto di vista interno multiplo e strutturato a capitoli praticamente autoconclusivi che assumono quasi la forma di piccoli racconti sul modello di una Spoon River distopica, si ponga come obiettivo la riflessione sulla wilderness e su come l’idea di separazione fra uomo e vivente-non-umano possa risultare al momento addirittura controproducente, ai fini della sopravvivenza della Terra. Vadnais sistema questo pensiero su carta attraverso una forma di romanzo poetico che, per frammenti, linguaggio lirico e sogno, vuole rendere evidente un modo di raccontare che scavalca il razionale logico, per entrare in una dimensione dominata più che altro dalle associazioni intuitive, sinestesiche, dall’istinto, dalle situazioni ambientali in una sorta di descrizione dell’istinto animale più puro.

Questo sistema di scrittura, con riguardo sia al contenuto sia alla forma, è stato accostato alle opere di Jeff Vandermeer. Vadnais è molto brava e possiede forse una voce addirittura più forte di quella del maestro, perché i personaggi delle opere di Vandermeer conservano di fatto una realtà umana che lo scrittore non ha (ancora)1 avuto il coraggio di scardinare. La biologa Laura è per certi versi degna erede di Kerans di ballardiana memoria, di cui Vadnais sembra ripercorrere la strada, chi lo sa se per coscienza o per mera convergenza evolutiva: la decisione dello scienziato di abbandonare il gruppo dei compagni per intraprendere un viaggio di sola andata verso l’equatore neo-preistorico va di pari passo con l’immergersi della scienziata in un mondo in cui le differenze fa esseri umani e animali-non-umani via via si assottigliano, fino a scomparire del tutto. Con una differenza, non marginale: “Faune” è un libro profondamente femminile, all’interno del quale è dato ampio spazio a tutti i fenomeni collegati alla fecondazione, alla riproduzione e al parto (non a caso c’è una netta prevalenza di protagoniste donne); l’atto generativo, di qualsiasi essere vivente si tratti, è il punto da cui la Natura parte e sempre ripartirà. La capacità di riprodursi, di generare e di partorire, dice Vadnais, sta alla base di ogni nuovo inizio.

“Forse raggiungendo una condizione stabile, relativamente al riparo dal pericolo, i nostri antenati hanno cominciato a sentir palpitare in loro una vita notturna. I sogni saranno attecchiti nel calore e nella sicurezza dei loro primi rifugi, nel riposo tranquillo di chi caccia anziché essere cacciato. I film catastrofici nascono in mezzo alle comodità. L’essere umano del nostro tempo, in barba a tutte le sue vittorie, continua a temere gli animali feroci.”

  1. [Note: Se la biologa dell’Area X non prova nemmeno a rinunciare completamente alla propria natura di essere umano, la madre adottiva di Borne (e così l’autore, parrebbe) comincia al contrario – nell’abbracciare l’alterità del figlio (simboleggiata dalle dimensioni fisiche che la creatura acquista con lo sviluppo) – ad avere sentore della necessità di una riflessione sull’arrendersi (non per nulla il terzo capitolo dell’Area X si intitola proprio Accettazione – ma non possiamo aprire qui questa discussione). Qualcosa di più potente affiora invece in Hummingbird salamander, con la trasformazione finale della protagonista nella quale si insinua, oltre allo spavento della mutazione, anche la consapevolezza di una necessità deterministica che va oltre il singolo individuo.] ↩︎