"Sottofondo italiano", di Giorgio Falco

Laterza ha presentato a Torino non soltanto la piattaforma Lea, che tanto sta facendo parlare di sé, ma anche la nuova serie Solaris. Una collana di saggistica narrativa che:
“Senza ricettari, senza indici puntati, senza chiamate alle armi, (…) desidera prima di tutto cogliere un sentimento della realtà attraverso la qualità letteraria. Nessun atteggiamento senatoriale, dunque, nessun millenarismo vittimistico o titanico, semmai la disponibilità a ragionare intorno a esperienze e a stati d’animo incerti e sfuggenti”.
Quattro le uscite previste per il 2015 – e tutte già in libreria: una scelta, questa della pubblicazione ravvicinata, che denota l’intento di definire, più che una serialità di opere stand-alone, un corpus unico all’interno del quale il contemporaneo viene declinato nella sua interezza, attraverso l’analisi dei diversi aspetti che lo compongono e attraverso il peculiare stile narrativo caratteristico di ciascun autore (tutti provenienti “dall’ambito letterario”, come l’editore ha cura di sottolineare).


In “Sottofondo italiano“, Giorgio Falco, classe 1967, si impegna ad affrontare il tema delicato e a lui congeniale del passaggio dalla giovinezza all’età adulta, svolgendolo nei modi in cui ci ha abituato: puntando sull’osservazione di una realtà personale, spesso autobiografica, che assurge poi al ruolo di paradigma grazie alla neutralità donata dallo status di esperienza collettiva – sempre a metà strada tra l’urgenza di un’interpretazione individuale e la necessità di un’analisi critica chirurgicamente asettica e oggettiva.

L’utilizzo della prima persona plurale ne è il primo indizio, programmatico, fin dall’incipit:

“Giocavamo nell’hinterland milanese, su terreni ritagliati tra capannoni, parcheggi di supermercati, fabbriche, ciminiere novecentesche, scritte rosse sui muri soppiantate da simboli neri, campanili di chiese in cemento armato edificate negli anni Sessanta, cascine e quanto restava dell’esperienza millenaria di irrigazione dei campi tramandata dai monaci cistercensi del Diciassettesimo secolo” (p5)

Un plurale collettivo, alternato alla narrazione in prima persona per le vicende strettamente autobiografiche, che da solo segna il confine, la separazione e la distanza che la saggistica narrativa vuol porre tra sé e la tradizione di un genere statico e poco avvezzo alla dinamica di confronto attivo tra autore e lettore. 

Attraverso la narrazione della vita quotidiana di un ragazzino come tanti – la scuola, dalle elementari al liceo, il mondo del lavoro, il sindacato, la lotta sociale; la famiglia tradizionale, il padre impiegato, le ferie estive, la pensione – Falco ripercorre quegli anni cruciali, tutti italiani, che vanno dal 1970 al 1985 le cui vicende politiche e sociali tanto hanno influito specie sulla classe media. Un’analisi della società, dei costumi e della politica effettuata attraverso la creazione di un circuito, di un percorso tematico concatenato che parte sempre dall’analisi del quotidiano. 

A dominare l’Italia di quei decenni, una serie di refrain che ne diventano la forma sostanziale. Dalle scritte sui muri alle sigle della lotta politica di destra e sinistra, agli appellativi, al linguaggio giornalistico:

“Freda & Ventura: gli unici cognomi ripetuti e assemblati da generazioni di giornalisti, come se i due fossero un’azienda, un logo, con l’ingombrante ‘&’ che diminuiva la portata delle loro azioni, relegandole all’immaginario, al flusso informativo (…). Giornalisti già uniformati al nuovo ordine, a Dolce & Gabbana” (p14-15) 

dalla televisione alle inevitabili metafore calcistiche:

“E c’era quella parola delle previsioni meteo così italiana, il versante, sì, il versante tirrenico e il versante adriatico, il medio versante tirrenico e il medio versante adriatico” (p16)

“I primi a essere colonizzati erano proprio i giornalisti, invasi da un linguaggio pigro e assuefatto alla parte peggiore dell’umano: ‘il vaglio degli inquirenti’, il ‘disegno eversivo che auspica la svolta autoritaria’ (…)” (p24) 

fino alle monolitiche convinzioni di genitori ancora ingenuamente fedeli a un modello di ascesa sociale che di lì a poco avrebbe mostrato la propria inutilità:

“(…) ti dicevano di studiare, grazie ai buoni voti l’esistenza sarebbe stata migliore, avresti avuto un’ottima posizione sociale – ottima rispetto al punto di partenza della tua famiglia – e lavorato per tutta la vita in un’azienda, con possibilità di avanzamento, di carriera” (p18)

Falco offre al lettore un campionario unico di rimandi e citazioni, tiene vivo il ricordo di un tempo che fu e lo concretizza ad uso e consumo di chi non c’era. Non è una memoria degli oggetti (si vince facile con l’interior design, un po’ meno se occorre metterci la parola) ma un percorso maieutico, un recuperare dalla memoria quel che, in maniera inconsapevole, è stato deposto nella mente del telespettatore e che altrettanto inconsciamente è stato da esso recepito. Lo strumento con cui Giorgio Falco instaura un legame, va detto empatico e d’elite, con chi, quella realtà, l’ha vissuta in prima persona.

“Ero supino, dinnanzi alle medesime dinamiche – che ignoravo fossero lavorative e produttive, ancor prima che umane – di pausa momentanea dall’aggressività, dalla competizione, e invece l’apparente sospensione provvisoria, la distrazione di massa, l’evasione da se stessi, l’ideologia del ritornello erano la celebrazione di un fantasma minaccioso” (p11)

“E invece niente, avevamo continuato la vita di sempre, l’unica esperienza plausibile era stata la sconfitta silenziosa, esseri umani ridotti in servitù pur di non morire, eravamo terrorizzati, ci ingozzavamo di merendine e nuovi prodotti, avremmo potuto essere noi, i prossimi a saltare in aria. Il tritolo era l’inchiostro della nostra biografia” (p21)

“Tutto avveniva in modo morbido, come la musica da aeroporto, da supermercato, in sottofondo” (p56) 

La validità dell’opera nella sua interezza di saggistica narrativa sta nella capacità di Falco di sospendere il ricordo giusto un attimo prima che esso si trasformi da strumento attraverso cui interpretare il reale in mero “confessionale pubblico dove sventolare le proprie miserie compiaciute” (p10); l’estraniarsi dal sé particolare per contemplare l’universalità del concetto è l’unico mezzo attraverso cui passare dalla pars destruens a quella costruttiva: la ricerca di quel qualcosa che inevitabilmente, in quegli anni, si è perso ma che non è ancora troppo tardi per tornare a cercare, e recuperare.

Buona lettura 🙂

Chi ha acquistato “Sottofondo italiano”: ADC, al Salone del Libro di Torino, domenica 17 maggio, perché di Solaris gliene avevano parlato molto, e bene, e perché a Giorgio Falco non si può rinunciare.

"Condominio Oltremare", di Giorgio Falco e Sabrina Ragucci

Giorgio Falco si unisce alla fotografa Sabrina Ragucci nel concepire una struttura narrativa che rende parola e figura necessarie e complementari, vòlte a creare un’esperienza di lettura bidimensionale  ma compatta e indivisibile nella sostanza. 
Sorretto, da una parte, da una scrittura come al solito tersa e sintetica e, dall’altra, dalla capacità di trasmettere stati d’animo attraverso lo scatto, questo congegno di rimandi tra testo e immagine è un continuo gioco di richiami, in equilibro sapiente tra urgenza della specificità dello scritto e necessità della messa a fuoco visiva – tanto è preciso il testo nei suoi caratteri spazio-temporali, tanto sono esclusive le immagini nelle loro formati quadrangolari, a metà strada tra il campo e il piano.
Questa composizione si nutre di se stessa offrendosi poi al lettore al modo in cui, in cerchi concentrici, trama e immagine presi singolarmente si disintegrano in due parti ciascuno, il particolare e l’universale, per poi riunificarsi. 
Cominciamo dal titolo (anche qui, due parole, entrambe parisillabe e piane, accentate sulla terza, e penultima, a dare un senso del ritmo deciso e quasi paradigmatico): Condominio Oltremare. Che rimanda nell’accezione grammaticale a una struttura monolitica, dalle fattezze solide e tipicamente cittadine, in stridente contrasto con il contesto naturale – il mare – a cui si fa seguente cenno; se non fosse poi anche per quell’oltre, che lascia ancora più perplessi, quasi stia al lettore scovare il qualcosa che si proietta all’esterno del primo significato, una chiave di lettura che del primo termine ne svolge il senso portandolo a compimento attraverso il secondo. 
Ed è esattamente quel che succede, visto che il “Condominio Oltremare” così a prima vista non è nulla se non la palazzina di otto piani che svetta a pochi metri dalla battigia del Lido delle Nazioni. 
O  “Lido di Spina, Lido degli Estensi, Porto Garibaldi, Lido degli Scacchi, Lido di Pomposa, Lido di Volano” (pag.20), quello che volete, uno vale l’altro. Perché il Condominio Oltremare, esempio tipico di un certo tipo di urbanizzazione costiera e turistica anni Settanta, ecomostro mignon, ingentilito dalla funzione cui assolve, viene a rappresentare gli usi e i consumi di quella nuova ed emergente classe sociale tutta italiana a metà strada tra il proletariato urbano – a cui non apparteneva più – e la borghesia tradizionale  – a cui comunque non sarebbe mai appartenuta, volente  o nolente. 

“Esistevano davvero. La cucina, il salotto, la camera, il bagno, la veranda, il giardino. La villetta Nesco [ndr: sì, proprio quelle di Michele Sindona] era la vista orizzontale sul mondo, su un unico piano, lo sguardo organizzato, autorizzato dalle cambiali dell’acquisto, dalle rate del mutuo. Operai specializzati, capireparto, impiegati, piccoli artigiani e commercianti assistevano assoggettati, chiusi nei cinema di Milano, del nord metropolitano, consideravano la riviera romagnola il naturale prolungamento produttivo di undici mesi lavorativi, assimilavano le loro esistenze al buio” (pagg.22-23)

Un né di qui né di là, insomma, un luogo-non-luogo in cui estraniarsi dal contesto cittadino (via dal posto di lavoro, via dai telegiornali, via dalla politica, via dalle stragi mafiose?) per ritrovarsi però a percorrere i medesimi sentieri, quelli del noto e del conosciuto, uno scarto del pensiero, un mondo allo specchio, millimetricamente simile, ma non identico.

“Questo angolo estremo senza cimitero non è più Romagna e non è ancora Veneto, è una Romagna d’adozione, litorale inventato alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, stretto tra le valli salmastre sopravvissute alle bonifiche, valli che premono dall’entroterra con il loro passato lagunare e palustre” (pagg.11-12)

Angolo estremo in cui un quarantenne milanese torna dopo tanti anni di assenza. 
Ma è un ritorno tutto sbagliato. La stagione, non è quella giusta. Siamo in inverno infatti, le feste natalizie passate da poco: nessuno a memoria d’uomo si è mai permesso di varcare la soglia del Condominio Oltremare prima di maggio inoltrato, tant’è che a regnare sovrana è la desolazione dell’abbandono tra porte sprangate, serrande calate fisse, polvere e freddo di termosifoni spenti. Le motivazioni, non sono quelle giuste. L’uomo non torna con figli e moglie al seguito per ritemprare membra e psiche dopo un anno di onesto e sodo lavoro, con l’animo pieno di aspettative e grata soddisfazione per quanto compiuto e acquisito. In realtà è da solo, e sta scappando: da Milano e dal conforto di un lavoro ben pagato.

“(…) l’azienda aveva bisogno della nostra giovinezza, si faceva carriera senza sgomitare troppo. Ripetevo parole magiche, formule magiche che raggiungevano il massimo della complessità nella loro breve concatenazione: start up, obiettivo sfidante, nuovi orizzonti. (…) Era giusto così, benché fossi invisibile, avevo trovato già da allora un cantuccio dove nascondermi, e la multinazionale, molto più dei lavori precedenti, era il luogo perfetto, dava tutto ciò che occorreva: i soldi, non molti in verità, ma abbastanza per pagare le rate del mutuo e le incombenze di un milanese che, in qualche modo, pareva avercela fatta; un’auto che avrei finito di pagare cinque anni prima del bilocale; ristoranti, un paio di volte alla settimana; weekend in Liguria o a volte in Val d’Aosta, mai ai Lidi Ferraresi; e meglio se nella casa al mare dei genitori dei colleghi, non tanto per una questione di risparmio, quanto per creare la teorica intimità che avrebbe giovato ai rapporti lavorativi” (pagg.53-54-55)

Come mi ha illustrato l’Editore, spicca in “Condominio Oltremare” la qualità della stampa: il formato e la tipologia della carta utilizzata sono stati scelti in modo da creare un supporto univoco – quindi senza inserti di materiale diverso – e adatto sia al testo scritto sia all’immagine. La carta non possiede la lucidità patinata tipica di un volume di arte fotografica, che spesso affatica la lettura del testo, ma le sue caratteristiche di materiale levigato, privo di elementi in grani, preservano la fruibilità delle stampe offrendo al lettore un’esperienza di lettura fluida e ininterrotta.
La proiezione di se stesso all’interno dell’appartamento all’ottavo piano, non è quella giusta. E nemmeno il ricordo dei genitori nella loro giovinezza, è quello giusto. 
Eppure, nella sua incongruità con il passato, nella sua estraneità fuoriformato rispetto alla memoria acquisita, nella sua precarietà svincolata dalla confortante alternanza tra attività produttiva e momento del meritato riposo, forse è l’unico ritorno possibile.
Giorgio Falco e Sabrina Ragucci tratteggiano un mondo che inevitabilmente va scomparendo nella testimonianza diretta, legato com’è sia a una regionalità tipica, quella del nord-est italiano, sia a certi anni molto particolari, quelli tra il 1970 e gli inizi degli ’80. Gli autori si abbandonano alla rappresentazione, tra il particolare di un individuo e l’universale che questo rappresenta, sempre in bilico tra il desiderio di un reportage quanto più onesto e oggettivo possibile e l’urgenza, che lasciano affiorare sapienti, a tratti, di un ricordo emotivamente condiviso. 

“(…) noi ci eravamo nascosti tuffandoci nell’acqua calda chiudendo gli occhi, le orecchie ovattate dall’impatto, agosto era finito non certo per la bomba lontanissima, il vento aveva scrollato gli ombrelloni, erano arrivati i temporali, il loro carico d’acqua non era stato qualcosa di salvifico, nemmeno di letale”. (pag.130)

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Nota al testo: mi hanno presentato “Condominio Oltremare” (ed. 2014) gli amici di L’Orma Editore, che ho avuto occasione di incontrare a #BookPride. L’opera appartiene alla collana fuoriformato nuova serie diretta da Andrea Cortellessa, della quale fanno parte testi – di narratori italiani – non convenzionali né per genere né per struttura: 
che si muovono cioè a cavallo dei comparti (e dei feticci) tradizionali della nar­rativa, della poesia e della saggistica; e che si aprono a impaginazioni difformi dalla norma, a immagini che siano parte effettiva della scrittura (e non sua “illustrazione”), ad allegati au­dio­visivi e altri “oggetti” a loro volta parte organica dei te­sti” (cfr. L’Orma Editore)
Buona lettura 🙂

Chi ha acquistato “Condominio Oltremare”: ADC, in quel venerdì pomeriggio di #BookPride e cielo blu milanese.