Nota: longform – tempo di lettura 10min
A ogni nuova uscita mi domando cosa significhi leggere Osborne, di cui, va detto, sono grande appassionata. Credo sia perché è così irritante che a volte faccio fatica a sostenerlo, per quel suo modo che ha di prenderci tutti in giro: sicché per me è una questione di puntiglio, oltre che di fascino.
“La storia da raccontare non era lunga ma ero certo che vi potessero cogliere un nonsoché di esotico. E la loro distanza dai fatti la rendeva adeguatamente pornografica.”
Nato nel 1958 in Inghilterra, Lawrence Osborne studia al Fitzwilliam College di Cambridge e poi ad Harvard. Comincia con il mestiere di giornalista-viaggiatore subito dopo il diploma: percorre tutta l’Europa (per l’Italia passa più volte: in Toscana vivevano dei parenti acquisiti dai quali andava per l’estate), si sposta nella penisola balcanica, poi Nord Africa ed Estremo Oriente. Per molti anni risiede a New York, luogo in cui la sua carriera di columnist e reporter spicca il volo. Nel dettaglio, Osborne è autore di long-form journalism: per anni ha scritto su diverse testate, tra cui The New York Times Magazine, The New Yorker e Condé Nast Traveller; su Gourmet e Men’s Vogue ha curato, inoltre, valide e seguitissime rubriche di enogastronomia. Dal 2011 risiede a Bangkok. Al romanzo (“breve”, come tiene spesso a sottolineare) arriva quasi per caso, al successo pure: consapevole della sua abilità come narratore ma abbastanza incredulo, almeno all’inizio, di fronte all’impatto dei suoi testi narrativi.
La sua storia professionale, come si vede, è già di per sé intrigante; lontano dallo stereotipo dello scrittore escapista, Osborne deve parte della propria fortuna a questo punto di rottura con la tradizione: se l’America difatti lo riconosce erede della spy story internazionale (viene spesso avvicinato a Graham Greene e Patricia Highsmith), l’Europa d’altra parte lo elegge a esponente di quell’odi et amo usualmente dedicato agli autori che, appunto, si discostano dal venerato cliché di cui sopra. A ciò si aggiunga, carico da novanta, la spinosa questione del romanzo esotico.
“Era scesa una tregua, come se gli studenti, con le loro ultime volontà e i testamenti cuciti nelle giacche, avessero deciso di fermarsi qualche giorno per recuperare, e dunque le strade erano tornate a essere luoghi di tranquillità consumistica. Oppure, nel caso di Java Road, una distesa di pompe funebri piene di drappi scuri e insegne in bianco e nero, infestate dagli spettri dei magnati dello zucchero che si erano arricchiti con il commercio da Giava e i cui imponenti uffici un tempo troneggiavano proprio qui, come simboli della magnanimità coloniale.”
Pare incredibile data la varietà delle trame, eppure c’è caso che i Leitmotiv osborniani sempre a uno si riducano: l’enigma della stanza chiusa, ove per stanza chiusa si intende un ambiente altro all’interno del quale l’autore ha piacere di collocare le statuine dei suoi personaggi e stare a vedere cosa succede. In sostanza si tratta di protagonisti che per i più svariati motivi – e qui sta il nodo: la capacità di scovare varianti – vengono removed (così le recensioni oltreoceano) dall’ambiente geografico, sociale e politico di appartenenza per nascita e transplanted, ossia trapiantati, all’interno di contesti del tutto alieni all’esperienza. Questo “divorzio dall’abituale” crea nel protagonista una sorta di depersonalizzazione che trova concretezza di simbolo in alcuni punti fermi: solitudine, esclusione sociale, alterata percezione del tempo cronologico, incapacità di comprendere la dimensione politica, difficoltà di adattamento alle condizioni climatiche, resi tangibili attraverso la tecnica del romanzo d’atmosfera. Approccio narrativo che in questo caso si identifica, tornando al punto sopra, nell’ambientazione esotica: dalla Grecia a Macao, da Bangkok 2014, nella stagione del colpo di stato (“Il regno di vetro”) alla Hong Kong dei tumulti studenteschi al momento del ritorno alla Cina (“Java Road”) Osborne non smette di solleticare il lettore col guilty pleasure del mondo allo specchio, raccontando una realtà parallela che da sempre è oggetto di fascinazione e sempre lo sarà. Con un dettaglio: l’autore conosce per davvero i luoghi descritti, perché lì ha vissuto e lavorato; ne comprende le dinamiche sociali, ne ha scovato pregi, difetti, crepe e sintonie, ne ha approfondito la dimensione politica, economica, fisica.
“La vita del giornalista sfigato è pittoresca fin verso i quarant’anni. Dopo, si fa vivo lo squallore.”
“Ci avevano surclassati. Noi ci trascinavamo come un branco di elefanti semidormienti al seguito di notizie divulgate altrove al triplo della velocità. Servivamo ormai solo a dare un senso di legittimità a informazioni che credevamo degne di essere sancite dalla stampa, fosse anche solo digitale. Ma era diventata una specie di truffa. Noi mentivamo come tutti gli altri, pur essendo assolutamente certi di non mentire, e disprezzando chi, secondo noi, mentiva.”
L’abilità di Osborne, di fatto, è la capacità di inserire il resoconto di viaggio(1) all’interno della struttura narrativa di finzione, ove – per sua stessa ammissione – le vicende sono immaginate (…ci sarà da credergli?) ma i personaggi ni. Peter Kemp del Sunday Times definisce questo sistema di scrittura “atmospheric reportage of a place and time” identificando così uno sguardoche tramite l’osservazione di dettagli concreti riesce a dare l’idea del tempo storico che scorre attraverso un luogo specifico. Una dimensione spaziotemporale da cui Osborne taglia fuori il lettore, così di netto – ecco da dove viene l’irritazione! – rendendolo di fatto fruitore passivo riguardo a situazioni rispetto alle quali, va detto, in pochi al momento possono dirsi più consapevoli di lui. Conoscenza di luoghi e di temi attraverso cui, per altro, riesce a evitare il rischio di “latent orientalism”.
“Il tutto non avrebbe spostato di una virgola la mia marginalità.”
I personaggi messi in scena da Osborne, solitamente americani o inglesi (“maladjusted white protagonists”), sono i più vari. Ne “Il regno di vetro” c’è Sara, una giovane assistente personale in fuga dagli Stati Uniti; con sé porta una valigia di banconote, frutto di un raggiro ai danni dell’anziana celebrità per la quale prestava servizio. Convinta che il sistema migliore per farla franca sia far perdere le proprie tracce, si rifugia a Bangkok, affittando sotto falso nome (e tinta ai capelli compresa) un appartamento di pregio all’interno del Kingdom, un complesso residenziale abitato principalmente da farang – così vengono chiamati dalla popolazione locale gli stranieri ricchi e viziati. Fra prostitute euroasiatiche di alto lignaggio, inglesi espatriati dediti ad affari loschissimi, domestici silenziosi e prezzolati alla bisogna, Sara scoprirà ben presto, mentre i tumulti del colpo di stato si avvicinano pericolosamente alla recinzione del Kingdom, che nessuno è come appare e che disturbare il sonno degli animali preistorici addormentati nel fondo di certe piscine può risultare fatale, come ben ci insegna J.C. Ballard (3).
“«Siamo arrivati da laggiù, noi come tutti. Mio padre era un contrabbandiere. Non è passato poi così tanto tempo. Eravamo amici dei britannici, però. Lei è uno di quegli expat con la nostalgia di casa o uno di quelli che non torneranno mai?». «Sono un emigrato, quindi del secondo tipo». «Allora lo siamo tutti e due, per così dire. Migranti. Lei mi sembra più un esule. Di quelli volontari. È un destino fortunato, in qualche modo. Io dico sempre che poteva andar peggio. Potevamo non farcela».
In “Java Road”, invece, il protagonista è annoverato fra i “professional observers” – ossia personaggi dalla connotazione lavorativa ben specifica, che dà loro modo di osservare la realtà da vari punti di vista, interagendo con individui di circuiti sociali particolari. Alla vigilia della restituzione di Hong Kong alla Cina, le strade della metropoli sino-britannica sono invase dagli studenti universitari. Mentre la polizia utilizza lacrimogeni e manganelli per sedare la rivolta, Adrian Gyle, giornalista inglese di mezza età, expatried a Hong Kong da almeno vent’anni, talento in declino ma agganci formidabili nell’alta società, viene in contatto con Rebecca To, brillante studentessa e attivista nonché amante di Jimmy Tang, rampollo di una delle famiglie più influenti e ricche della capitale, amico intimo di Gyle dai tempi dell’università. Gyle, ben integrato nel microcosmo del quartiere, Java Road appunto, ma sempre prigioniero della propria intrinseca natura di gwai, (“fantasma bianco”, nomignolo lievemente dispregiativo con cui la gente del luogo chiama gli occidentali), si addentrerà nei meandri di una metropoli sull’orlo del declino, fra corruzione politica, “laissez-faire economics” e fanatismo imperiale, atmosfere da bar anni ’40, delitti irrisolti e il più classico dei triangoli d’amore non corrisposto. Chi è, davvero, Jimmy Tang? Cosa sarebbe disposto a fare, nel momento della caduta e del tracollo, per preservare l’unico bene che ancora gli appartiene e di cui può servirsi, ossia la reputazione?
“Intorno a me e dentro di me prese a crescere la confusione. Fu uno sconcerto amplificato dalla dissoluzione della città. Si può dire che l’intera società era diventata paranoica mentre oscillava su fondamenta sempre meno solide e so avviava alla disintegrazione. Per questo io e chiunque altro diventavamo paranoici. Non era eccezionale nemmeno la paranoia di Jimmy. Era la nuova realtà, e c’eravamo dentro tutti. I confini rimasti in piedi tra polizia, governo, famiglie potenti e media, eliminati nel giro di un mese. La vecchia Hong Kong delle leggi e dei giudici britannicamente imparruccati decostruita in una notte, e al suo posto era spuntato un mondo totalitario cupo e selvaggio nel quale regnavano dicerie, esagerazioni, odio, tribalismo, supposizioni.” (4)
Insomma, volevo farla breve per una volta e invece eccoci qui a parlare di Osborne in un modo in cui, secondo me, dovremmo andare avanti per ore. Leggete Osborne se volete immergervi in mondi incredibili, di una realtà concreta eppure inafferrabile, magnifica e terribile, al di là del nostro modo di sentire – e comprendere. Il meccanismo del thriller resta sempre valido, e nessun finale sarà come sarete stati in grado di immaginarlo.
Note: / (1) Sempre parlando di reportage come strumento di narrazione, bisogna osservare che in Osborne il narratore onnisciente non esiste: all’interno di una struttura a dialogo, i personaggi espongono la propria, personale visione del contesto; in tal modo il punto di vista si risolve nel parziale e l’analisi politica e sociale è sempre di parte. Sono i protagonisti stessi a fornire al lettore il quadro generale che in questo modo pur restando sempre sospeso, non oggettivato né oggettivabile, acquista valore di testimonianza del sentire locale, auto-validandosi. / (2) Di Osborne mi affascina l’abilità nel seminare easter eggs: piccoli gioielli che si riferiscono a eventi storici o citazioni letterarie rispetto ai quali il lettore si percepisce curiosamente sempre, o quasi, in difetto di conoscenza. Di seguito giusto due esempi, recuperati in “Java Road”. 1. “Jimmy raccontò la storia terribile del medico personale di Mao (…) convocato (…) per eseguire la mummificazione della salma (…)”. Questo fatto, fondativo del pensiero transumanista russo, è ben raccontato dal divulgatore e giornalista Michel Eltchaninoff nel suo “Lenin ha camminato sulla Luna” ed. E/O. 2. “Nel 1938 alle cene altolocate del Surrey avresti sentito i medesimi argomenti sulla Germania.” È riferimento ai rapporti che il Duca di Windsor e la consorte Wallis intrattenevano con Ulrich Friedrich-Wilhelm Joachim von Ribbentrop, ministro degli Esteri tedesco, fidatissimo di Hitler. Pochissimi sono a conoscenza del fatto che nel Surrey Ribbentrop avesse preso possesso di una dimora di pregio: saranno questioni del lettore arrangiarsi a scoprirlo, pare ci suggerisca Osborne. Il dialogo sulle sorti gloriose della Germania nazista riportato da Osborne ricalca quasi perfettamente quello realmente accaduto e riportato fedelmente dai presenti, avvenuto fra il Duca, Wallis Simpson, Churchill e alcune altre personalità di spicco, proprio nel 1938, allo Château de l’Horizon, costa Azzurra (cfr “Côte d’Azur”, di Mary S. Lovell, ed. Neri Pozza). / (3) Osborne rende tangibile il meccanismo attraverso cui la crisi sociale e politica della città pervade, come mai accaduto, l’esistenza di Gyle per mezzo di un espediente stilistico alla coup de théâtre: una ferita alla guancia – frutto di un pugno che un insospettabile attivista sferra al giornalista lungo la via, all’uscita di un ristorante – che non vuole guarire e va in suppurazione (cfr. nella nostra recente narrativa il mal di denti del milite Cesco Magetti, protagonista di “Ferrovie del Messico” ed. Laurana, che ha la stessa funzione). / (4) Tutte le citazioni nel post sono tratte da “Java Road”.