“Java Road” – “Il regno di vetro”, di Lawrence Osborne (trad. Mariagrazia Gini)

Nota: longform – tempo di lettura 10min

A ogni nuova uscita mi domando cosa significhi leggere Osborne, di cui, va detto, sono grande appassionata. Credo sia perché è così irritante che a volte faccio fatica a sostenerlo, per quel suo modo che ha di prenderci tutti in giro: sicché per me è una questione di puntiglio, oltre che di fascino.

“La storia da raccontare non era lunga ma ero certo che vi potessero cogliere un nonsoché di esotico. E la loro distanza dai fatti la rendeva adeguatamente pornografica.”

Nato nel 1958 in Inghilterra, Lawrence Osborne studia al Fitzwilliam College di Cambridge e poi ad Harvard. Comincia con il mestiere di giornalista-viaggiatore subito dopo il diploma: percorre tutta l’Europa (per l’Italia passa più volte: in Toscana vivevano dei parenti acquisiti dai quali andava per l’estate), si sposta nella penisola balcanica, poi Nord Africa ed Estremo Oriente. Per molti anni risiede a New York, luogo in cui la sua carriera di columnist e reporter spicca il volo. Nel dettaglio, Osborne è autore di long-form journalism: per anni ha scritto su diverse testate, tra cui The New York Times Magazine, The New Yorker e Condé Nast Traveller; su Gourmet e Men’s Vogue ha curato, inoltre, valide e seguitissime rubriche di enogastronomia. Dal 2011 risiede a Bangkok. Al romanzo (“breve”, come tiene spesso a sottolineare) arriva quasi per caso, al successo pure: consapevole della sua abilità come narratore ma abbastanza incredulo, almeno all’inizio, di fronte all’impatto dei suoi testi narrativi.

La sua storia professionale, come si vede, è già di per sé intrigante; lontano dallo stereotipo dello scrittore escapista, Osborne deve parte della propria fortuna a questo punto di rottura con la tradizione: se l’America difatti lo riconosce erede della spy story internazionale (viene spesso avvicinato a Graham Greene e Patricia Highsmith), l’Europa d’altra parte lo elegge a esponente di quell’odi et amo usualmente dedicato agli autori che, appunto, si discostano dal venerato cliché di cui sopra. A ciò si aggiunga, carico da novanta, la spinosa questione del romanzo esotico.

“Era scesa una tregua, come se gli studenti, con le loro ultime volontà e i testamenti cuciti nelle giacche, avessero deciso di fermarsi qualche giorno per recuperare, e dunque le strade erano tornate a essere luoghi di tranquillità consumistica. Oppure, nel caso di Java Road, una distesa di pompe funebri piene di drappi scuri e insegne in bianco e nero, infestate dagli spettri dei magnati dello zucchero che si erano arricchiti con il commercio da Giava e i cui imponenti uffici un tempo troneggiavano proprio qui, come simboli della magnanimità coloniale.”

Pare incredibile data la varietà delle trame, eppure c’è caso che i Leitmotiv osborniani sempre a uno si riducano: l’enigma della stanza chiusa, ove per stanza chiusa si intende un ambiente altro all’interno del quale l’autore ha piacere di collocare le statuine dei suoi personaggi e stare a vedere cosa succede. In sostanza si tratta di protagonisti che per i più svariati motivi – e qui sta il nodo: la capacità di scovare varianti – vengono removed (così le recensioni oltreoceano) dall’ambiente geografico, sociale e politico di appartenenza per nascita e transplanted, ossia trapiantati, all’interno di contesti del tutto alieni all’esperienza. Questo “divorzio dall’abituale” crea nel protagonista una sorta di depersonalizzazione che trova concretezza di simbolo in alcuni punti fermi: solitudine, esclusione sociale, alterata percezione del tempo cronologico, incapacità di comprendere la dimensione politica, difficoltà di adattamento alle condizioni climatiche, resi tangibili attraverso la tecnica del romanzo d’atmosfera. Approccio narrativo che in questo caso si identifica, tornando al punto sopra, nell’ambientazione esotica: dalla Grecia a Macao, da Bangkok 2014, nella stagione del colpo di stato (“Il regno di vetro”) alla Hong Kong dei tumulti studenteschi al momento del ritorno alla Cina (“Java Road”) Osborne non smette di solleticare il lettore col guilty pleasure del mondo allo specchio, raccontando una realtà parallela che da sempre è oggetto di fascinazione e sempre lo sarà. Con un dettaglio: l’autore conosce per davvero i luoghi descritti, perché lì ha vissuto e lavorato; ne comprende le dinamiche sociali, ne ha scovato pregi, difetti, crepe e sintonie, ne ha approfondito la dimensione politica, economica, fisica.

“La vita del giornalista sfigato è pittoresca fin verso i quarant’anni. Dopo, si fa vivo lo squallore.”

“Ci avevano surclassati. Noi ci trascinavamo come un branco di elefanti semidormienti al seguito di notizie divulgate altrove al triplo della velocità. Servivamo ormai solo a dare un senso di legittimità a informazioni che credevamo degne di essere sancite dalla stampa, fosse anche solo digitale. Ma era diventata una specie di truffa. Noi mentivamo come tutti gli altri, pur essendo assolutamente certi di non mentire, e disprezzando chi, secondo noi, mentiva.”

L’abilità di Osborne, di fatto, è la capacità di inserire il resoconto di viaggio(1) all’interno della struttura narrativa di finzione, ove – per sua stessa ammissione – le vicende sono immaginate (…ci sarà da credergli?) ma i personaggi ni. Peter Kemp del Sunday Times definisce questo sistema di scrittura “atmospheric reportage of a place and time” identificando così uno sguardoche tramite l’osservazione di dettagli concreti riesce a dare l’idea del tempo storico che scorre attraverso un luogo specifico. Una dimensione spaziotemporale da cui Osborne taglia fuori il lettore, così di netto – ecco da dove viene l’irritazione! – rendendolo di fatto fruitore passivo riguardo a situazioni rispetto alle quali, va detto, in pochi al momento possono dirsi più consapevoli di lui. Conoscenza di luoghi e di temi attraverso cui, per altro, riesce a evitare il rischio di “latent orientalism”.

“Il tutto non avrebbe spostato di una virgola la mia marginalità.”

I personaggi messi in scena da Osborne, solitamente americani o inglesi (“maladjusted white protagonists”), sono i più vari. Ne “Il regno di vetro” c’è Sara, una giovane assistente personale in fuga dagli Stati Uniti; con sé porta una valigia di banconote, frutto di un raggiro ai danni dell’anziana celebrità per la quale prestava servizio. Convinta che il sistema migliore per farla franca sia far perdere le proprie tracce, si rifugia a Bangkok, affittando sotto falso nome (e tinta ai capelli compresa) un appartamento di pregio all’interno del Kingdom, un complesso residenziale abitato principalmente da farang – così vengono chiamati dalla popolazione locale gli stranieri ricchi e viziati. Fra prostitute euroasiatiche di alto lignaggio, inglesi espatriati dediti ad affari loschissimi, domestici silenziosi e prezzolati alla bisogna, Sara scoprirà ben presto, mentre i tumulti del colpo di stato si avvicinano pericolosamente alla recinzione del Kingdom, che nessuno è come appare e che disturbare il sonno degli animali preistorici addormentati nel fondo di certe piscine può risultare fatale, come ben ci insegna J.C. Ballard (3).

“«Siamo arrivati da laggiù, noi come tutti. Mio padre era un contrabbandiere. Non è passato poi così tanto tempo. Eravamo amici dei britannici, però. Lei è uno di quegli expat con la nostalgia di casa o uno di quelli che non torneranno mai?». «Sono un emigrato, quindi del secondo tipo». «Allora lo siamo tutti e due, per così dire. Migranti. Lei mi sembra più un esule. Di quelli volontari. È un destino fortunato, in qualche modo. Io dico sempre che poteva andar peggio. Potevamo non farcela».

In “Java Road”, invece, il protagonista è annoverato fra i “professional observers” – ossia personaggi dalla connotazione lavorativa ben specifica, che dà loro modo di osservare la realtà da vari punti di vista, interagendo con individui di circuiti sociali particolari. Alla vigilia della restituzione di Hong Kong alla Cina, le strade della metropoli sino-britannica sono invase dagli studenti universitari. Mentre la polizia utilizza lacrimogeni e manganelli per sedare la rivolta, Adrian Gyle, giornalista inglese di mezza età, expatried a Hong Kong da almeno vent’anni, talento in declino ma agganci formidabili nell’alta società, viene in contatto con Rebecca To, brillante studentessa e attivista nonché amante di Jimmy Tang, rampollo di una delle famiglie più influenti e ricche della capitale, amico intimo di Gyle dai tempi dell’università. Gyle, ben integrato nel microcosmo del quartiere, Java Road appunto, ma sempre prigioniero della propria intrinseca natura di gwai, (“fantasma bianco”, nomignolo lievemente dispregiativo con cui la gente del luogo chiama gli occidentali), si addentrerà nei meandri di una metropoli sull’orlo del declino, fra corruzione politica, “laissez-faire economics” e fanatismo imperiale, atmosfere da bar anni ’40, delitti irrisolti e il più classico dei triangoli d’amore non corrisposto. Chi è, davvero, Jimmy Tang? Cosa sarebbe disposto a fare, nel momento della caduta e del tracollo, per preservare l’unico bene che ancora gli appartiene e di cui può servirsi, ossia la reputazione?

“Intorno a me e dentro di me prese a crescere la confusione. Fu uno sconcerto amplificato dalla dissoluzione della città. Si può dire che l’intera società era diventata paranoica mentre oscillava su fondamenta sempre meno solide e so avviava alla disintegrazione. Per questo io e chiunque altro diventavamo paranoici. Non era eccezionale nemmeno la paranoia di Jimmy. Era la nuova realtà, e c’eravamo dentro tutti. I confini rimasti in piedi tra polizia, governo, famiglie potenti e media, eliminati nel giro di un mese. La vecchia Hong Kong delle leggi e dei giudici britannicamente imparruccati decostruita in una notte, e al suo posto era spuntato un mondo totalitario cupo e selvaggio nel quale regnavano dicerie, esagerazioni, odio, tribalismo, supposizioni.” (4)

Insomma, volevo farla breve per una volta e invece eccoci qui a parlare di Osborne in un modo in cui, secondo me, dovremmo andare avanti per ore. Leggete Osborne se volete immergervi in mondi incredibili, di una realtà concreta eppure inafferrabile, magnifica e terribile, al di là del nostro modo di sentire – e comprendere. Il meccanismo del thriller resta sempre valido, e nessun finale sarà come sarete stati in grado di immaginarlo.

Note: / (1) Sempre parlando di reportage come strumento di narrazione, bisogna osservare che in Osborne il narratore onnisciente non esiste: all’interno di una struttura a dialogo, i personaggi espongono la propria, personale visione del contesto; in tal modo il punto di vista si risolve nel parziale e l’analisi politica e sociale è sempre di parte. Sono i protagonisti stessi a fornire al lettore il quadro generale che in questo modo pur restando sempre sospeso, non oggettivato né oggettivabile, acquista valore di testimonianza del sentire locale, auto-validandosi. / (2) Di Osborne mi affascina l’abilità nel seminare easter eggs: piccoli gioielli che si riferiscono a eventi storici o citazioni letterarie rispetto ai quali il lettore si percepisce curiosamente sempre, o quasi, in difetto di conoscenza.  Di seguito giusto due esempi, recuperati in “Java Road”. 1. “Jimmy raccontò la storia terribile del medico personale di Mao (…) convocato (…) per eseguire la mummificazione della salma (…)”. Questo fatto, fondativo del pensiero transumanista russo, è ben raccontato dal divulgatore e giornalista Michel Eltchaninoff nel suo “Lenin ha camminato sulla Luna” ed. E/O. 2. “Nel 1938 alle cene altolocate del Surrey avresti sentito i medesimi argomenti sulla Germania.” È riferimento ai rapporti che il Duca di Windsor e la consorte Wallis intrattenevano con Ulrich Friedrich-Wilhelm Joachim von Ribbentrop, ministro degli Esteri tedesco, fidatissimo di Hitler. Pochissimi sono a conoscenza del fatto che nel Surrey Ribbentrop avesse preso possesso di una dimora di pregio: saranno questioni del lettore arrangiarsi a scoprirlo, pare ci suggerisca Osborne. Il dialogo sulle sorti gloriose della Germania nazista riportato da Osborne ricalca quasi perfettamente quello realmente accaduto e riportato fedelmente dai presenti, avvenuto fra il Duca, Wallis Simpson, Churchill e alcune altre personalità di spicco, proprio nel 1938, allo Château de l’Horizon, costa Azzurra (cfr “Côte d’Azur”, di Mary S. Lovell, ed. Neri Pozza). / (3) Osborne rende tangibile il meccanismo attraverso cui la crisi sociale e politica della città pervade, come mai accaduto, l’esistenza di Gyle per mezzo di un espediente stilistico alla coup de théâtre: una ferita alla guancia – frutto di un pugno che un insospettabile attivista sferra al giornalista lungo la via, all’uscita di un ristorante – che non vuole guarire e va in suppurazione (cfr. nella nostra recente narrativa il mal di denti del milite Cesco Magetti, protagonista di “Ferrovie del Messico” ed. Laurana, che ha la stessa funzione). / (4) Tutte le citazioni nel post sono tratte da “Java Road”.

“Il giudizio universale”, di Luc Lang (trad. Maurizio Ferrara)

“Quanto a me, credo nell’ira degli spettri all’approssimarsi della morte! «Così la notte fosse già venuta! Fin allora, tieniti tranquilla anima mia: le turpi azioni risorgono, benché tutta la terra le sopraffaccia, agli occhi degli uomini».”

Nel 1998 il romanzo “Mille six cents ventres” del quarantaduenne Luc Lang, scrittore e professore di estetica all’École nationale supérieure d’arts de Paris-Cergy, vince il Prix Goncourt des lycéens.

Creato nel 1988 da Fnac, rettorato di Rennes e accademia Goncourt, il premio Goncourt des lycéens viene assegnato annualmente da una giuria di circa 2000 studenti scelti fra tutte le scuole superiori francesi a partire dalla seconda classe e chiamati a votare l’opera preferita fra una lista di libri proposti dall’accademia Goncourt stessa. I volumi vengono distribuiti nelle scuole, senza distinzione d’ordine anzi includendo in maniera dichiarata e specifica tutti quegli istituti, tecnici e professionali, “notamment ceux les plus éloignés d’une culture littéraire” tra cui scuole francesi all’estero e, per dire, istituti penitenziari. Nel corso degli anni il Goncourt des lycéens è divenuto uno dei premi più ambìti nel panorama letterario francese1.

Milleseicento ventri” arriva da noi in Italia due anni più tardi, nel 2000, pubblicato da Passigli in traduzione di Maurizio Ferrara. La casa editrice decide di mantenerne il titolo originale che si riferisce – e qui sta il punto di questo giro introduttivo – al numero dei detenuti presenti fra le mura di Strangeways, il carcere cittadino di Manchester, al momento della rivolta dell’Aprile 1990.

Le proteste di Strangeways, con i detenuti in sommossa a denunciare le condizioni insostenibili della vita quotidiana all’interno della prigione, le vessazioni subìte dal personale, l’ingiustizia delle pene comminate (Strangeways in origine doveva essere un luogo di recupero per detenzioni non superiori ai cinque anni, ma poi – come prevedibile – divenne ben altro), diedero il via, in piena epoca Thatcheriana, a un fenomeno mediatico imponente le cui conseguenze furono una serie di rivolte all’interno di altri centri di detenzione fra Inghilterra, Galles e Scozia e svariate inchieste che toccarono punti nevralgici della struttura governativa dell’epoca2.

“Le ragioni invocate dai carcerati non sono del resto totalmente dei falsi pretesti”

Ricapitoliamo: uno dei più promettenti scrittori francesi, da poco professore di filosofia alla ENSAPC, sceglie di ambientare il suo quarto romanzo – quindi l’opera con cui o la va o la spacca – tra le casupole che compongono la zona suburbano/residenziale sorta alle pendici di uno dei penitenziari più problematici dell’intero Regno Unito, mettendo in scena, come su un teatro, uno degli episodi più drammatici di lotta sociale avvenuti in Gran Bretagna durante il governo di Margareth Thatcher: la rivolta di un manipolo di giovani uomini imbestialiti contro il sistema – perché di fatto la popolazione di Strangeways era composta per la maggior parte dai figli del sottoproletariato urbano fra abbandono scolastico, disoccupazione, microcriminalità e spaccio – chiusi in un carcere di massima sicurezza per reati di furto e ricettazione (“giovani che vanno dentro per una macchina rubata ed escono tossicomani”), costretti a condividere la cella con criminali della peggior specie in condizioni di detenzione disumane, abusi, malagiustizia. E in che modo decide di strutturare il racconto di questi venticinque giorni di sommossa, il nostro Luc Lang? Tramite la prima persona singolare, prendendo come protagonista uno dei residenti del quartiere: il sessantenne, raffinatissimo Henry Blain – proprietario di una delle casette più graziose del sobborgo, gran estimatore di donne e vini, mobili d’antiquariato e miscele di tè, nonché capocuoco della prigione di Strangeways e avvelenatore seriale dei detenuti; milleseicento ventri, appunto, su quali Blain regna incontrastato.

Fra spedizioni punitive – potenti lassativi nel minestrone dei carcerati giudicati maleducati o molesti, somministrazione di alimenti avariati a gruppi etnici di specifico taglio – e smerci di derrate consone in cambio di cibi etichettati come mangime animale, Blain da anni governa nell’ombra le cucine del penitenziario così come per anni aveva esercitato le proprie, disgustose perversioni sul personale delle navi da carico a bordo delle quali era arruolato. Abile manipolatore, malvivente astutissimo, meticoloso trafficante, Blain si ritrova al centro dell’azione che, come un miracolo letteralmente sceso dal cielo (i rivoltosi occupano i tetti, scagliando giù nella strada qualsiasi oggetto capiti a tiro: dalle pesantissime tegole di ardesia che vanno a infrangersi nei giardini delle casette fino a delicati e meravigliosi origami, farfalle che in mezzo allo spettacolo pirotecnico di lampeggianti, fuochi e sirene atterrano sulle teste del pubblico pagante), gli dà modo – unica volta nella vita – di autocelebrare pubblicamente il narcisismo patologico di cui è pregno: sfruttando l’indubbio vantaggio topografico, Blain apre la propria casa a cameramen e giornalisti che, previo pagamento, possono godere di una posizione di favore per riprendere gli scontri, nonché della testimonianza di un prezioso insider (che ovviamente se ne guarda bene dal proclamarsi parte del problema).

Riassumiamo (di nuovo): in Francia, un neoassunto professore universitario decide di giocarsi l’appena avviata carriera di scrittore mettendo insieme un romanzo basato su un fatto di cronaca dolorosissimo, che riguarda un Paese terzo e che ha per protagonista un lurido infame. Il romanzo tratta di violenza minorile, stupri, droga, delinquenza, abbandono scolastico, malattia mentale e femminicidio. Il libro esce, viene proposto a un pubblico adolescente/liceale – e vince il Prix Goncourt des lycéens.

“Louise sembra una zitella emancipata, sa quel che vuole, è lei a condurre il gioco, ma non è insensibile ai complimenti di un uomo. (…) Ha inoltre ritrovato in individui cosiddetti spacciati, lei predica fiduciosa, slanci di compassione verso gli altri, la natura umana è insondabile. (…) La compagnia di Louise un po’ brilla mi conveniva benissimo un attimo fa, ma davanti ai miei amici distinti ho una voglia quasi incontrollabile di schiaffeggiarla, un paio di sberle ben assestate, l’impronta viola della mano sulle guance bianche, si svegli dunque, si riprenda!”

Pausa – perché potremmo addirittura finirla qui, già sarebbe sufficiente (la domanda provocatoria potrebbe essere quale dei nostri attuali scrittori sarebbe in grado di osare tanto, ma ce la teniamo per un altro momento). Il punto in realtà è un altro e sta tutto nella figura di Henry Blain, che sotto la maschera di un’elegante normalità, fra aperitivi e merende nel salotto-tinello, nel profumo delle copertine di pellame pregiato con cui sono rilegate le edizioni dell’opera Shakespeariana di cui è avido collezionista, nasconde il più abominevole degli orrorie no, non stiamo parlando dei suoi maneggi avvelenati.

“«È un fior di donna, la sua fidanzata», mi confessano. «Sì, ma è di origine tropicale, ha sete e debbo innaffiarla spesso», rispondo per fargli piacere.”

Fra le meravigliose aiuole di aeonium e tillandisia, beloperona guttata, azalee e camelie che compongono il suo giardino – l’unico della strada a non essere invaso dai detriti di una vita ai margini e dai rifiuti della depressione economica, ecco sta lì, il raccapriccio mortale di un individuo scellerato rispetto alla cui moralità nessuno, nemmeno noi che leggiamo (con l’eccezione del pubblico femminile adulto, forse) avremmo potuto nutrire il benché minimo sospetto. Henry Blain è, in sostanza, l’uomo perbene: un vicino di casa un po’ fissato con l’ordine e la disciplina (“Dio solo sa quanto detesto che mi scompiglino le ondulazioni dei capelli pazientemente rifatte ogni mattina”), ma così premuroso all’occorrenza; il compagno di bevute forse un po’ eccentrico, ma a chi di noi, se ciucco tradito, non scappa lo sproloquio razzista e misogino? L’amante esigente, certo, ma così attento, e facile allo scatto d’ira ma figuriamoci, si pensi a cosa deve sopportare, poveretto, sul posto di lavoro e via così, con quei tratti che oggi nella neolingua si chiamerebbero red flag ma che nel linguaggio vecchio del racconto scritto bene entrano spogliati da qualsiasi orpello woke (linguaggio politicamente scorretto e scene triggering incluse) a indicare l’analisi sapiente dello scrittore sul tema del predatore sessuale – sul modo che ha di prendere di mira gli strati deboli del tessuto sociale mascherandosi da benefattore (allenatore, maestro, zio acculturato, metteteci chi volete), sulle maniere subdole che mette in atto al fine di penetrare la fragilità di donne scelte appositamente per la loro intrinseca debolezza.

Luc Lang, con una lingua colta e affilatissima e un sistema di romanzo a scene che prende a piene mani dal teatro antico, costruisce un giallo sociale che fa della normalità percepita il proprio cardine. La domanda, quindi, risulta ancora più delicata, spinosa da affrontare: se sia possibile, oggi, nel momento attuale, proporre un testo come “Il giudizio universale” al medesimo pubblico a cui era stato proposto vent’anni fa e se addirittura si dovrebbe sentire la necessità di proporlo, in tutto il suo scabroso e didascalico orrore di vomito e diarree, corpi mutilati e sangue, sciacallaggio mediatico e turismo dell’orrore – insomma nulla che non appartenga all’oggi – scrittore maschio bianco incluso che per altro afferisce a un sistema culturale completamente differente dal retroterra descritto (giusto per rimarcare bene il fatto che se uno è bravo a scrivere può scrivere della qualunque).

“Il giudizio universale” esce ora per Clichy, rivisto direttamente dall’autore nella traduzione – e la scelta di questo nuovo titolo è conveniente e adeguata, non solo perché riprende uno dei temi ricorrenti del libro, quello della differenza fra pena e giustizia, ma anche perché segna bene il riferimento a un aspetto interessantissimo della vicenda: la trasformazione finale del protagonista in un moderno Ebenezer Scrooge che, costretto a letto e divorato dalla febbre e dai sudori, viene visitato dagli spiriti degli orrori commessi, in una notte senza fine per la quale forse esisterà giustizia, ma non redenzione.

“I suoi capelli sono stringhe di cuoio, sembra che abbia passato sul viso un lucido da scarpe, quando ride le rughe e le guance scavandosi le screpolano la maschera, immagino la pelle lattiginosa di sotto. È sempre così arrogante, tende una mano verso di me, le sue unghie smaltate sono coltelli smisuratamente lunghi, dice: «Ricordati di Eleanor nel momento della tua caduta. Il tuo corpo non ha raggiunto il suolo ma si è già separato dal suo zoccolo, sta cadendo, le leggi della gravità sono più forti delle legge del tempo. Quando ti spappolerai, miscuglio di ossa e carne, pensa alla tua sposa davanti a Dio».”

Luc Lang non piace a tutti: è un autore che sceglie di trattare temi difficili utilizzando una scrittura raffinata e nello stesso tempo rarefatta, su cui occorre tornare più volte, e delle strutture temporali complesse, pluridimensionali, che necessitano di un impegno mentale importante. Non è certo uno scrittore della buonanotte, insomma. Eppure io lo trovo geniale: precisissimo nella forma, riduce all’osso le necessità del dire, strapazza il lettore, rendendolo allo stesso tempo dipendente dalle allusioni e dai sottintesi e libero di ampliare le proprie, personali riflessioni relative alla materia analizzata. In questo guinzaglio lungo, tirato e smollato con sapienza filosofica, nell’invenzione caleidoscopica di protagonisti grotteschi e disperati, esaltati o depressi, vittime e carnefici, ecco proprio lì sta per me il talento dell’autore.

  1. L’edizione 2023 appena trascorsa è stata vinta dalla scrittrice Neige Sinno con “Triste tigre” (di cui Neri Pozza ha giusto acquisito i diritti), un memoir in cui l’autrice francese trapiantata in Messico racconta le violenze sessuali e gli abusi domestici a cui fu sottoposta durante l’infanzia da parte del padre adottivo. ↩︎
  2. Ancora oggi, la Strangeways Prison riot è oggetto di acceso dibattito interno. ↩︎

“Faune”, di Christiane Vadnais (trad. Piernicola D’Ortona)

Con gran dovizia di modi e di toni, da diverso tempo ormai il panorama editoriale si pregia di illustrarci le azioni che in tutta coscienza dovremmo mettere in atto allo scopo di contrastare il disastro ambientale di cui siamo responsabili. Dal romanzo alla saggistica divulgativa, dalla poesia al fumetto, dal reportage al podcast, ci vengono elencati tutti i bias cognitivi di cui dovremmo liberarci e tutte le azioni pratiche individuali e collettive necessarie ad arginare le drammatiche situazioni che abbiamo contribuito a creare. La tipologia degli interventi proposti è duplice – contenere il danno e invertire la rotta – ma di fatto l’obiettivo è unico: il mantenimento di un particolare status quo che in questo caso corrisponde, ça va sans dire, alla sopravvivenza del genere umano.

Cosa succederebbe tuttavia se, con uno scarto di pensiero, saltassimo fuori dalla prospettiva umanocentrica e ci rivolgessimo all’antispecismo, ovvero se per una volta non ci sistemassimo – noi, in qualità di esseri umani – al centro della questione? Cosa succederebbe insomma se nell’economia delle cose future mettessimo in conto la nostra stessa estinzione, come conseguenza del casino prodotto?

“Di notte, i sogni dell’individuo si mescolano a quelli della sua specie. Mammiferi, uccelli, rettili tornano incessantemente a divorare. Sprofondati nel sonno, cani e gatti continuano a cacciare, le zampe percorse da sussulti. Volatili e lucertole addormentati reinventano il fremito degli insetti, lo strisciare dei vermi pasciuti, la fuga di prede minuscole e l’arrivo dei predatori più voraci.”

La domanda non è peregrina né inedita. Ne hanno già parlato, per esempio – giusto per citare la saggistica divulgativa raccontata qui sul blog – Emma Marris e Cal Flyn, che nei loro lavori riportano l’opinione di diversi scienziati al momento scettici sulle teorie del conservazionismo, ritenute, di fatto e di nuovo, figlie di una necessità antropocentrica spesso frutto di analisi su scenari remotissimi (per la serie: com’era il mondo prima noi) rispetto ai quali le nostre conoscenze restano vaghe, perfino ipotetiche. Un conto, tuttavia, è riflettere su quanto sia il caso di sterminare col veleno quella specie alloctona di gagliardissimi roditori che hanno invaso certe isolette del Pacifico a seguito dell’espandersi delle rotte commerciali cinquecentesche (risposta: no, non è il caso, ormai è tardi, sa il cielo a quale imprevedibile reazione a catena daremmo il via ammazzando migliaia di creature che alla fine nel bene e nel male si sono integrate nel cerchio della biodiversità locale). Altro conto è inserire la voce estinzione umana nell’elenco di ciò che riteniamo possibile che accada, in un futuro prossimo venturo.

Per fortuna però c’è la scifi. A raccontare con gran candore questa dissacrante ipotesi ci pensa il sottogenere weird, a cui il romanzo breve “Faune” appartiene, per forma e temi. Nel solco di chi, dal punto di vista scientifico, mette in dubbio la necessità di una salvaguardia conservazionista (che per certi versi sottostima l’efficacia dell’autoregolazione naturale e il concetto evoluzionistico di ibrido – cfr. sempre Marris e Flyn), ecco che le poetiche pagine di “Faune”, scritte da una giovane project mananger canadese, ci regalano un punto di vista quanto mai inedito: quello del non far nulla. Dell’arrendersi all’idea che questo pianeta su cui ci troviamo a vivere a un certo punto, semplicemente, non abbia più bisogno dell’essere umano e che si metta d’impegno per liberarsi di questo inutile fastidio.

“Nel sogno ritrova una nebbia attraverso cui si disegnano i contorni di animali vaghi, una foresta di sagome che si sfiorano girando intorno. Cervi. Volpi. Da quella massa di vapore si staccano creatura oblunghe, né bisce né vermi, che fuggono nell’acqua. Le vede agglomerarsi in un groviglio brulicante, un nido di vipere galleggiante che si trasforma in una donna, la cui pelle diafana lascia vedere le ossa in trasparenza, le vene, il sangue che pulsa nel corpo. Un essere a infrarossi, che spalanca enormemente la bocca scoprendosi il cranio.”

La biologa Laura, alla ricerca del parassita misterioso che a quanto pare sta modificando geneticamente tutto quello che di vivo incontra sul proprio cammino senza distinzione alcuna fra uomini, animali-non-umani o piante nell’approccio-spillover antispecistico più massiccio che la storia della Terra abbia mai conosciuto, si imbatte in una serie di esseri viventi che, col proseguire del contagio, assumono sempre più le caratteristiche di ibridi mostruosi e affascinanti, in una lotta spasmodica per la sopravvivenza che interessa tutti, senza distinzione di specie. Crostacei col ventre ricolmo di sostanze tossiche nascosti nel greto dei fiumi, in attesa di essere inghiottiti dai pesci e dagli uomini, conigli dai denti di bestie feroci che si nutrono di carne umana, piante luminescenti che secernono bave di sostanze infestanti, funghi che invadono con le loro spore la terra grassa del bosco e colonizzano la semenza futura; e poi uomini-pesce, uomini a cui spuntano peli e ali, donne-foresta dalla pelle bianchissima, quasi trasparente, che corrono nude per i boschi e si nutrono dell’acqua della palude. Nel cerchio della vita – viene a rendersi conto Laura, sempre più affascinata (perché scienziata) e orribilmente impaurita (perché essere umano) – poco importano i danni collaterali: il processo evolutivo ha sempre messo in conto i vicoli ciechi; il punto è che a questo giro pare che a essere arrivata alla destinazione finale non sia solo una certa quantità di animali e vegetali la cui ibridazione non riesce ad andare a buon fine ma anche l’essere umano.

“Non distingue più gli animali dalle loro ombre. I vivi dai morti. I rumori umani dal raspare e dagli ansiti resuscitati nel buio pesto.”

Al Weird non interessa granché della Natura come organismo eticamente polarizzato. Rifiutando sia l’epica del buon selvaggio (da Thoreau a tutto il movimento dell’anarcoprimitivismo, per esempio), con l’accogliente, idilliaca bontà del mondo naturale, sia – all’opposto – la narrazione che, fin da quel momento in cui sulla linea del tempo la preistoria lascia spazio al mondo illuminato, vuole l’essere umano in perenne conflitto con il mondo-non-umano (dal mito greco arrivando a “Jaws”, dallo sterminio dei popoli del Sud America alla conquista del West), questo stile narrativo, che in realtà è più un modo di vedere le cose del mondo, interpreta gli ambienti naturali come un ecosistema unico, volto alla propria conservazione, all’interno del quale l’essere umano altro non è che uno dei tanti attori.

In “Faune” Vadnais riprende esattamente questo paradigma, dipingendo un postumano in cui gli animali-uomini di nuovo (un ritorno al preistorico, insomma) non si trovano più al centro dell’ecosistema ma sono unicamente parte di esso – e di sicuro non in cima alla catena alimentare. Al di là della trama, di cui possiamo raccontare poco pena la perdita dell’effetto sorpresa (perché è chiaro, Laura non sarà semplice protagonista di tutte queste mutazioni), preme sottolineare come questo romanzo breve, a punto di vista interno multiplo e strutturato a capitoli praticamente autoconclusivi che assumono quasi la forma di piccoli racconti sul modello di una Spoon River distopica, si ponga come obiettivo la riflessione sulla wilderness e su come l’idea di separazione fra uomo e vivente-non-umano possa risultare al momento addirittura controproducente, ai fini della sopravvivenza della Terra. Vadnais sistema questo pensiero su carta attraverso una forma di romanzo poetico che, per frammenti, linguaggio lirico e sogno, vuole rendere evidente un modo di raccontare che scavalca il razionale logico, per entrare in una dimensione dominata più che altro dalle associazioni intuitive, sinestesiche, dall’istinto, dalle situazioni ambientali in una sorta di descrizione dell’istinto animale più puro.

Questo sistema di scrittura, con riguardo sia al contenuto sia alla forma, è stato accostato alle opere di Jeff Vandermeer. Vadnais è molto brava e possiede forse una voce addirittura più forte di quella del maestro, perché i personaggi delle opere di Vandermeer conservano di fatto una realtà umana che lo scrittore non ha (ancora)1 avuto il coraggio di scardinare. La biologa Laura è per certi versi degna erede di Kerans di ballardiana memoria, di cui Vadnais sembra ripercorrere la strada, chi lo sa se per coscienza o per mera convergenza evolutiva: la decisione dello scienziato di abbandonare il gruppo dei compagni per intraprendere un viaggio di sola andata verso l’equatore neo-preistorico va di pari passo con l’immergersi della scienziata in un mondo in cui le differenze fa esseri umani e animali-non-umani via via si assottigliano, fino a scomparire del tutto. Con una differenza, non marginale: “Faune” è un libro profondamente femminile, all’interno del quale è dato ampio spazio a tutti i fenomeni collegati alla fecondazione, alla riproduzione e al parto (non a caso c’è una netta prevalenza di protagoniste donne); l’atto generativo, di qualsiasi essere vivente si tratti, è il punto da cui la Natura parte e sempre ripartirà. La capacità di riprodursi, di generare e di partorire, dice Vadnais, sta alla base di ogni nuovo inizio.

“Forse raggiungendo una condizione stabile, relativamente al riparo dal pericolo, i nostri antenati hanno cominciato a sentir palpitare in loro una vita notturna. I sogni saranno attecchiti nel calore e nella sicurezza dei loro primi rifugi, nel riposo tranquillo di chi caccia anziché essere cacciato. I film catastrofici nascono in mezzo alle comodità. L’essere umano del nostro tempo, in barba a tutte le sue vittorie, continua a temere gli animali feroci.”

  1. [Note: Se la biologa dell’Area X non prova nemmeno a rinunciare completamente alla propria natura di essere umano, la madre adottiva di Borne (e così l’autore, parrebbe) comincia al contrario – nell’abbracciare l’alterità del figlio (simboleggiata dalle dimensioni fisiche che la creatura acquista con lo sviluppo) – ad avere sentore della necessità di una riflessione sull’arrendersi (non per nulla il terzo capitolo dell’Area X si intitola proprio Accettazione – ma non possiamo aprire qui questa discussione). Qualcosa di più potente affiora invece in Hummingbird salamander, con la trasformazione finale della protagonista nella quale si insinua, oltre allo spavento della mutazione, anche la consapevolezza di una necessità deterministica che va oltre il singolo individuo.] ↩︎

“Kallocaina”, di Karin Boye (trad. Barbara Alinei)

“Sapevo che una volta, all’epoca dei civili, gli uomini dovevano essere attirati al lavoro e alla fatica dalla speranza di ottenere case più grandi, cibi più raffinati e vestiti più belli. Ormai non ce n’era più bisogno. L’appartamento standard – una camera per chi non era sposato e due per le famiglie – era più che sufficiente per tutti, dai più umili ai più meritori. I pasti della cucina condominiale nutrivano il generale come il soldato semplice. L’uniforme comune – una per il lavoro, una per tempo libero e una per il servizio militare o di polizia – era uguale per tutti, uomini e donne, di basso o alto rango, eccetto che per i distintivi di grado. Ma anche questi non differivano l’uno dall’altro per eleganza. Ciò che rendeva desiderabile un distintivo di grado superiore era unicamente il suo valore simbolico. Tale è il livello di spiritualizzazione.”

Poetessa di ampia produzione e scrittrice di cinque romanzi di cui “Kallocaina” è il più noto, Karin Boye nasce a Goteborg nel 1900; la famiglia si trasferisce presto a Stoccolma dove la Boyle, agevolata dal clima che si respira tra le mura domestiche, compie studi umanistici ed eterogenei che vanno dalla letteratura alle religioni orientali, dal greco antico al norreno. Durante gli anni universitari si unisce al movimento Clarté, le cui basi sono da ritrovarsi nel pacifismo e nella critica sociale socialista. Viaggia in Europa, visitando perfino l’Unione Sovietica e la Germania agli albori del Nazismo; nel 1929 si sposa con un collega di movimento ma divorzia poco dopo, a seguito di un percorso di psicoanalisi – altra materia di studio approfondito – che le permette di accettare la propria omosessualità, fino ad allora negata e repressa. Nell’aprile 1941, poco dopo aver completato “Kallocaina”, viene ritrovata senza vita, morta suicida, in un bosco di campagna non distante dall’abitazione che condivideva con un’amica malata di cancro, di cui si era innamorata e che da tempo accudiva.

Affrontare l’opera di Karin Boye significa immergersi in un mondo in cui le esperienze di viaggio, gli studi su materie specifiche e la vita privata dell’autrice si compenetrano in un sistema di pensiero attuale e composito. È in particolare il caso di “Kallocaina”, distopia da manuale perché recupera tutti i temi fondativi del genere, dalla critica sociale nei riguardi dei regimi totalitari fino al minimalismo della rappresentazione ambientale, e allo stesso tempo ne aggiunge uno specifico, di chiara influenza autobiografica: la necessità – che per Boyle non differisce da una volontà personale, autoimposta – di conformarsi a un modello sociale prestabilito tramite un quotidiano, controintuitivo e problematico processo di adeguamento.

In “Kallocaina” la rappresentazione finzionale di questo conflitto interiore nel momento esatto della sua nascita – la presa di coscienza della discrepanza – è affidata all’integerrimo Camerata Leo Kall, funzionario di una non ben identificata “Città Chimica numero quattro”. All’interno di questa megalopoli vige il sofisticato sistema politico dello “Stato Universale”, regime totalitario (di impronta prettamente socialista ma non scevro da alcuni elementi vicini nazifascismo) che per tramite sia dei propri funzionari sia dei cittadini stessi, direttamente coinvolti nei processi quotidiani di gestione e controllo, domina l’intera collettività dal punto di vista politico, economico e sociale.

L’occhio del potere scruta ogni anfratto della vita individuale che, suddivisa in tempi di lavoro, svago e servizio alla comunità, è regolamentata in ogni aspetto e secondo rigidi protocolli di fruizione nel tempo e nello spazio. In particolare, la dimensione personale è limitata e ogni individuo è precocemente inserito nella collettività: ad esempio, le relazioni di coppia si basano su frequentazioni e matrimoni di fatto combinati e gli eventuali figli (ndr: Leo Kall ne ha tre) sono presto allontanati dal nucleo familiare per essere distribuiti fra le città dell’impero a seconda delle necessità governative – che prevedono anche l’addestramento militare, poiché l’impero è sotto costante minaccia da parte di altri regimi limitrofi.

“Dovresti ben capire che non è la mancanza di difetti che fa un buon compagno, e ancor meno l’irreprensibilità in quelle questioni in cui l’etica pubblica è ancora in elaborazione. No, la cosa più importante è la capacità di abbandonare il proprio punto di vista per abbracciare quello giusto.”

Malgrado le restrizioni tuttavia, la vita sotto lo Stato Universale non viene percepita poi così disturbante o limitata – o almeno questo è ciò che appare: il sistema soddisfa tutte le necessità materiali, comprese quelle di vitto e alloggio, e a ciascun individuo sono assegnati, pur nei contorni di un principio di scelta oltremodo ristretto, un contratto di lavoro a tempo indeterminato e anche momenti di svago e di relazione più o meno in linea con l’interesse personale, che comunque viene agevolmente tralasciato in favore di un’ormai interiorizzata disposizione d’animo a favore del collettivo. Il potere governa con pugno di ferro ma o per deliberato calcolo o per inconsapevole inerzia tende a limitare gli interventi più invasivi: in questo modo le maglie vengono ad allargarsi e sono molte le situazioni in cui, pur nella restrizione, l’individuo riesce a gestire la propria quotidianità in maniera in un certo qual modo accettabile (relazioni extraconiugali comprese). Anche la pena, ove si riscontri una lieve infrazione, possiede spesso carattere simbolico e la giustizia viene applicata in maniera sostanzialmente corretta. Escludendo la perenne situazione di emergenza bellica – che alla fin fine potrebbe anche essere del tutto costruita ad arte, per quanto si mostra indeterminata e aleatoria – la vita dei cittadini dello Stato Universale scorre tranquilla e la popolazione, complice anche un assiduo lavoro di propaganda vòlto a magnificare il presente a fronte di un passato insalubre, violento e socialmente instabile, pare possedere un’opinione tutto sommato positiva, quando non apertamente favorevole e financo devota, come nel caso del Camerata Kall, nei riguardi delle strutture governative al rispetto per le quali viene affiancato un alto livello di responsabilità collettiva.

E difatti “Kallocaina” parte proprio da qui, dalla riflessione su quel che a lato pratico non manca ma di cui, in un modo o nell’altro, non si può fare a meno di sentire la mancanza.

“Rigettai con tutte le forze il pensiero della Città Deserta, forse non tanto perché fosse chimerica quanto perché era repellente. Repellente e al tempo stesso attraente. Mi ripugnava l’idea di una città – per quanto in rovina, squarciata dai gas e invasa da batteri, abitata da esseri asociali che vi cercavano il loro misero rifugio nascondendosi tra i sassi, perseguitati dall’angoscia e dal terrore, spesso vittime degli agguati della morte – una città dove comunque il potere dello Stato non arrivava, un territorio al di fuori della comunità. Ma perché attraente? La superstizione ha spesso un suo fascino, mi dicevo con sarcasmo. È uni scrigno nel quale si custodiscono come tesori le proprie illusorie tentazioni: il timbro profondo di una donna, il tremito nella voce di un uomo, un attimo, mai vissuto, di completa devozione, un riprovevole sogno di fiducia illimitata in un altro, la speranza di una sete saziata e di un profondo riposo.”

Il libro è strutturato come un lungo flashback in prima personasotto forma di diario dal carcere (e qui non si po’ rivelare la motivazione della prigionia, che copre per tutta la lettura del romanzo la funzione di efficace sistema “page turner”) nel quale il protagonista racconta le modalità attraverso cui, tramite i propri studi ed esperimenti, si imbatte una curiosa specie di siero della verità. Questa sostanza –brevettata con il nome dell’inventore, come si può intuire – una volta iniettata nei pazienti crea una sorta di trance durante in quale l’individuo non può esimersi dal rivelare ogni sentimento più recondito e quindi, va da sé, anche confessare eventuali momenti di debolezza, sconforto o franca ribellione nei confronti del regimeIl soggetto è spinto da un impulso irrefrenabile e disinibito a rivelare non solo accadimenti già avvenuti ma anche, e qui sta il punto, prossimi a compiersi, nella condivisione forzata non tanto di programmi già predisposti quanto di riflessioni e sentimenti ancora in bozza. L’invenzione viene brutalmente sperimentata su “materiale umano” e i volontari (in realtà cittadini che per mestiere hanno scelto il sacrificio estremo: una forma di lavoro, degna del massimo rispetto, che prevede la cessione del proprio corpo al regime per fini di sperimentazione) interrogati da un Kall incredulo, entusiasta ed efferato, si trovano ad ammettere ogni tipo di “delitto di pensiero”: dal desiderio di tradire il partner al senso di estraneità nei confronti del proprio mestiere, sino alla produzione di fantasie su un nuovo modo di concepire la vita personale, la famiglia o la società stessa. Naturalmente il preparato desta l’attenzione degli alti vertici e Kall assurge a inaudite vette di popolarità – salvo poi, come è possibile prevedere, cadere vittima del suo stesso sistema di delirio e mania di controllo nel momento in cui il dubbio comincia a erodere le sue personali, intime certezze: prima sui suoi collaboratori, poi sulla moglie e, infine, addirittura su sé stesso.

“Kallocaina” racconta un mondo al contrario – già solo per muoversi nella città pare sempre che occorra scendere, in un continuo di spazi chiusi fra ascensori e luoghi di scatole cinesi che assomigliano più al labirinto dei criceti che a un ambiente urbano – all’interno del quale il talento più ambito sembra identificato con la capacità di adattarsi, non certo con l’eccellenza individuale. Essa viene di riflesso poiché il principio dell’omologazione, giustificato per mezzo del bene collettivo, se ben attuato porta alla completa aderenza al regime, ossia all’approvazione da parte della comunità.

Il punto in realtà non è la messa in discussione di una sovrastante, malvagia struttura politica ma il comprendere cosa succede quando nella quotidianità viene a mancare il sentimento che deriva da un’azione unica, individuale, fatta – oseremmo dire – solo per sé. Ecco perché nel delirio indotto dal siero le cavie umane fanno riferimento non tanto a ipotesi di complotto e rovesciamento politico-militare come si aspettavano Kall e le autorità preposte ma a fantasie che insistono prima di tutto sull’intimità del quotidiano: vivere in un gruppo sociale scelto, altro da quello imposto, coltivando – guarda caso – discipline artistiche come la musica o il ballo (che ça va sans dire nello Stato Universale sono rigidamente proibite, se non nei limiti dell’utilizzo propagandistico), abitare nella Natura, al di fuori del contesto iperurbanizzato della città-trappola, e – addirittura – allevare i figli in piena autonomia decisionale, dando spazio a un rapporto genitoriale di lunga durata, empatico, costruito su misura, libero dai dettami imposti dal regime.

Cosa capiterà al Camerata Kall quando, terminata la dose di sonnifero mensile, pur senza essersi sottoposto al rito della Kallocaina verrà assillato – nel corso di notti sempre più inquiete – dalle medesime visioni apparse ai suoi pazienti? Fino a che punto siamo padroni del nostro pensiero? E fino a che punto, insomma, possiamo arrivare a negare noi stessi?

“Certo sapevo che ufficialmente ci veniva attribuito uguale valore che agli uomini, o quasi, ma un valore accessorio, in realtà, semplicemente perché potevamo mettere al mondo nuovi uomini, o nuove donne che avrebbero a loro volta messo al mondo altri uomini. (…) Le donne sono inferiori agli uomini, mi dicevo, non hanno altrettanta forza fisica, sono meno resistenti, meno salde di nervi sotto i bombardamenti e sul campo di battaglia: insomma, sono guerrieri e soldati meno validi degli uomini. Non sono che uno strumento per creare nuovi guerrieri. Che ufficialmente si attribuisca loro ugual valore è pura cortesia, lo sanno tutti, per farle contente e renderle compiacenti. Arriverà forse il giorno, pensavo, in cui ci si accorgerà che le donne sono superflue, il giorno in cui si potranno conservare le loro ovaie e gettare il resto nella fogna. Allora lo Stato potrà esser fatto di soli uomini, e non ci sarà bisogno di sprecare denaro per l’educazione e il mantenimento delle bambine.”

“Lenin ha camminato sulla Luna”, di Michel Eltchaninoff (trad. di Luisa Doplicher)

Art direction: Emanuele Ragnisco – Illustrazione in copertina: DR

“Verrà forse il dubbio se valga davvero la pena di interessarsi a questa piccola setta di pensatori e studenti esaltati, che vorrebbero sconfiggere la morte e invadere il cosmo. Non incarnano forse le derive peggiori del famigerato misticismo russo, mescolate all’utopia sovietica della creazione di un essere umano nuovo, alleggerito dal peso del passato? È possibile che sia così. Ma è innegabile che le speranze nutrite da questi uomini dimenticati, in parte, sono diventate anche le nostre. Non tanto in Europa, dove si guarda con sospetto al potere distruttivo della scienza e della tecnica, ma sull’altra sponda dell’Atlantico, soprattutto nella Silicon Valley. Oggi questo sogno di chiama transumanesimo.”

Nel 2018 Elon Musk, invitato a una tavola di discussione sul telefilm Westworld, richiama l’attenzione del pubblico su Konstantin Ėduardovič Ciolkovskij (1857-1935), filosofo, ingegnere, scienziato russo nonché padre della cosmonautica sovietica. Di famiglia povera e appartenente alla piccola nobiltà rurale (il padre era guardia forestale e amministratore locale), sordo sin dall’infanzia per via della scarlattina, dopo una formazione primaria da autodidatta frequentò scuole prestigiose e divenne insegnante di matematica e fisica, lavorando soprattutto sulla progettazione dei motori a reazione. Per volere di Putin, nel 2013 il suo nome fu utilizzato per ri-battezzare la città chiusa siberiana che secondo i faraonici progetti governativi russi dovrebbe (o avrebbe dovuto) sostituire il cosmodromo kazako di Bajkonur. Tuttavia pochi sanno che Ciolkovskij, insieme ad altri due esponenti della vita scientifica e intellettuale sovietica, il filosofo Nikolaj Fëdorovič Fëdorov (1829-1903), che intratteneva rapporti perfino con Dostoevskij e Tolstoj, e il mineralogista Vladimir Ivanovič Vernadskij (1863-1945) – che fra gli altri suoi studi si occupò di Biosfera e Antropocene – viene considerato l’iniziatore non solo dell’astronautica ma anche del pensiero cosmista russo.

“La più grande scoperta che forse avremo compiuto entro il 2001 è la possibilità di eliminare la vecchiaia (…). Troppa gente ritiene inevitabile il decadimento senile, e anche la morte stessa. Non è affatto vero, come ha scritto l’autorevolissimo scienziato russo Vasilij Kuprevič: «Sono sicuro che riusciremo a scoprire come disattivare i meccanismi che fanno invecchiare le cellule.»” L’autore di questo virgolettato non è Musk e nemmeno Putin: è Stanley Kubrick, intervistato da Playboy nel 1968, in occasione dell’uscita di 2001: A Space Odyssey.

Lenin ha camminato sulla Luna” è un ricco e variegato compendio di divulgazione filosofica. Michel Eltchaninoff, giornalista, docente di filosofia russa a Parigi nonché autore di “Nella testa di Putin“, attraverso una scrittura intensa e precisa ci invita ad approfondire il cosmismo russo, ossia quella corrente di pensiero filosofico che come un fenomeno carsico attraversa l’Unione Sovietica dagli ultimi decenni del 1800 sino a giorni nostri. Vale la pena, si chiede l’autore nell’introduzione, indagare il pensiero di questi sparuti esponenti, di questa tendenza di riflessione che alla fine non è mai nemmeno stata codificata apertamente, incastrata com’era fra l’esaltazione, l’abiura e le referenze interdisciplinari (dalla filosofia alla biologia, dalla geologia al misticismo religioso fino alla mistica di matrice ortodossa) che la caratterizzano? A quanto pare sì, dati gli aneddoti di cui sopra.

Attraverso la struttura classica della presentazione cronologica, quindi, Eltchaninoff ci prende per mano e ci conduce nel fantastico, caleidoscopico e sconcertante mondo di tutte quelle personalità sovietiche che – chi in qualità di scienziato, chi come esponente politico o militare, chi come religioso – hanno abbracciato una visione della realtà a cui afferiscono alcuni aspetti ben precisi, identificati come “elementi del cosmismo sovietico” ossia di quella forma di pensiero che si impegna a studiare e approfondire il concetto di interdipendenza fra esseri umani e cosmo, nella convinzione che l’essere umano possa essere in grado di determinarne e dirigere gli eventi di quest’ultimo. Detta così è riduttiva, poiché non si tratta di una teoria superomistica nella visione di un affrancamento individuale dai concetti del bene e del male ma di un legame tra specie umana e intero universo che nasce nientedimeno che dal misticismo religioso di matrice balcanico-asiatica: nel paese più esteso del mondo, “immensa pianura disseminata di chiese” che, nella tradizione bizantina da cui derivano, per struttura e iconografie testimoniano il legame unico e indivisibile tra cielo e terra, nasce e si sviluppa una speculazione filosofica nomade, che si nutre di eventi in grande scala, riflessioni di radicale ascetismo e feroce critica neoeuroasiatica all’occidente in qualità di luogo in cui viene “respinto ogni principio infinito” nel nome di un essere umano divenuto dio all’interno di una realtà priva dell’idea di dio.

Gli elementi fondativi del cosmismo sono vari e non posso prescindere dagli esponenti che di volta in volta li hanno approfonditi. Ecco perché “Lenin ha camminato sulla Luna” risulta in sostanza una piccola enciclopedia di nomi e relazioni fra le parti. Dalle lezioni di “umanità divina” di Vladimir Sergeevič Solov’ëv (1853-1900) alla monumentale, citatissima e proscritta (più e più volte nel corso dei decenni) “Filosofia dell’opera comune” di Nikolaj Fëdorovič Fëdorov (all’unanimità ritenuto il miglior teorico del cosmismo russo), figlio illegittimo del principe Pavel Gagarin nonché coltissimo bibliotecario del Rumyanzev, la più prestigiosa biblioteca moscovita, nella quale l’autore introduce il concetto di resuscitazione; dalla crioconservazione teorizzata da Leonid Borisovič Krasin, spregiudicato militare tra i più vicini ai vertici del potere bolscevico, dai raccapriccianti esperimenti sulle scimmie africane del biologo Il’ja Ivanovič Ivanov fino all’empiriomonismo anticapitalistico dello scienziato e pensatore Aleksandr Bogdanov – che scappato in Europa fra un’epurazione e l’altra si pregia di scrivere pregevoli romanzi di fantascienza socialista tra cui “La stella rossa” e “Ingegner Menni” e infine muore fra atroci tormenti nello scantinato di un inquietante palazzo principesco al centro di Mosca in seguito a un esperimento transumanista a cui si era sottoposto… insomma come vediamo ce n’è per tutti.

L’intento del transumanesimo, ricordiamo, è quello di “superare la natura umana nella sua finitezza tramite progressi congiunti di biologia, medicina, nanotecnologie, scienze cognitive e informatica” (Eltchaninoff, nell’introduzione). Che esistano delle convergenze evolutive fra cosmismo e transumanesimo è evidente, come altrettanto chiari sono i rapporti di reciproca conoscenza che i cosmisti russi – di fatto esponenti di certo livello intellettuale e respiro internazionale (in molte occasioni addirittura spinti dal regime all’approfondimento all’estero, ove e quando il cosmismo era considerato utile alla causa politica) intrattennero con la più quotata intellighenzia europea. Altrettanto chiare tuttavia sono le differenze fra i due movimenti, in specie quando si prende in considerazione l’ideologia libertaria del transumanesimo statunitense che, pur sempre a favore di una élite – non diversamente dal movimento sovietico – è in realtà fondato su una libertà individuale completa che spinge ad alcune conclusioni (auto-esclusione dalle imposizioni morali, emancipazione culturale) estranee ai cosmisti russi.

“Lenin ha camminato sulla Luna” è un saggio interessantissimo perché riesce a far luce su un aspetto della filosofia russa che, sebbene ancora privo di una trattazione sistematica, ha influenzato le scienze e il pensiero sovietico in maniera profonda e per certi versi ancora ignota. Per leggerlo occorre pazienza e metodo, poiché la divulgazione in ambito filosofico non può prescindere da una struttura che ha l’esigenza tecnica di rimanere accademica. Ma sarà tempo ben speso.

[Qui e qui alcuni articoli che su ADC hanno raccontato di transumanesimo. Potete trovare altro anche sul Twitter)

“Nuoto libero”, di Julie Otsuka (trad. Silvia Pareschi)

“Ti promettiamo di accoglierti cordialmente, ma con rispetto, e senza troppe storie. «Che piacere rivederti» diremo, oppure: «Da quanto tempo». Ma tieni presente che la seconda volta che ci lascerai non potrai più tornare.”

Nuoto libero” è straziante perché parla del nostro diventar vecchi. Parla di me e di mia madre – quel suo discontinuo svagarsi che non si capisce mai bene da cosa derivi, se sia una distrazione contingente (sono in piedi da stamattina alle cinque) oppure il prodromo della scossa tellurica (come si chiamava la cassiera del supermercato dove andavamo quando eri piccola?), stiracchi del mostro marino che abbiamo inopinatamente svegliato. E parla anche di mio padre, col suo ciabattare lento per casa, alla ricerca di cose perdute (chissà dove tua madre ha nascosto le mie maglie di lana) – le luci spente nel tardo pomeriggio, il riflesso blu del televisore sul programma di attualità.

Questo è il sistema, geniale nella sua infida semplicità – perché frutto di un lavorio costante di cesellatura terminologica e incisione di toni – che utilizza Julie Otsuka per presentarci Alice (tecnica di laboratorio in pensione sull’orlo della demenza), un’anziana signora nippoamericana che da anni frequenta quotidianamente la piscina urbana sotterranea di una città caotica e complicata, ovunque e in nessun luogo, indefinita perfino nel tempo, rispetto alla quale il centro sportivo è isola di quel conforto e di quel sollievo che solo l’abitudine può regalare. L’avvicinamento ad Alice è graduale, come le bracciate che questa dignitosa vecchietta spalma – una dopo l’altra, come metodo e attenzione – lungo la corsia riservata al nuoto circolare.

“Lassù ci sono incendi, emergenze smog, siccità catastrofiche, stampanti inceppate, scioperi degli insegnanti, insurrezioni, rivoluzioni, giornate torride che sembrano non finire mai (Enorme «bolla di calore» stabilmente insediata sopra l’intera costa occidentale), ma quaggiù, in piscina, c’è sempre una gradevole temperatura di ventisette gradi. L’umidità è del sessantacinque per cento. La visibilità è ottima. Le corsie sono ordinate e tranquille. L’orario, anche se limitato, è adeguato alle nostre necessità.”

Il mondo di Alice, in verità, ha cominciato a sgretolarsi già da un po’. Si tratta di vaghi segnali che un poco si perdono nel rumore di fondo della quotidianità (marito) o della lontananza (figlia), un poco si ignorano nella convinzione di una transitorietà contingente. Come la crepa nelle piastrelle della vasca, che all’improvviso si rende palese (come abbiamo fatto a non accorgercene prima) e porta con sé la destabilizzazione di un rituale consolidato, così le fragilità di Alice erodono le consuetudini giornaliere, creando inciampi e sobbalzi dove prima la bracciata era solida e naturale.

“Siamo rincuorati, tuttavia, dai risultati dello studio più recente, secondo cui le crepe come la nostra – esitanti, incerte, a malapena visibili a occhio nudo, in definitiva timide – tendono a essere di natura indolente piuttosto che aggressiva, e si espandono a passo di lumaca. «Queste crepe possono restarsene lì senza far niente per anni» dice l’ingegnere capo Henry Mulvaney dell’impresa di ingegneria geotecnica Mulvaney & Fried, approvata dal consiglio di amministrazione. Mentre una «vera» crepa, se lasciata incustodita anche solo per poche ore, può facilmente dilagare e invadere l’intera piscina nel giro di una notte. «Lo vediamo molto spesso». La sua valutazione definitiva: la nostra crepa è più una pre-crepa che una crepa vera e propria. «Non c’è niente da temere» ci viene detto. Ma la professoressa Anastasia Heerdt, investigatrice indipendente ed esperta di analisi dei guasti, ci avverte di non prendere troppo sul serio la valutazione «ottimistica» dell’ingegner Henry Mulvaney. «Vi ha detto quello che volevate sentirvi dire» sostiene.

Il romanzo, composto da cinque sezioni tragiche, si apre con “La piscina sotterranea“, parte corale attraverso cui le voci dei nuotatori si sovrappongono l’una all’altra, nel racconto di un costume abitudinario. Il trait d’union che lega l’uscita del coro e l’entrata in scena della protagonista è rappresentato dal secondo capitolo, “La crepa“, narrazione – ancora collettiva – che assumendo i toni di un’ironica, caustica cupezza determina il focus sul personaggio principale o meglio sull’araldo che si farà carico di recuperarne la voce. “Diem perdidi” è infatti il racconto della vita di Alice e del suo decadimento psichico da parte della figlia, per mezzo di un monologo (ogni paragrafo comincia con “Ricorda”, in terza singolare) in cui la donna ripercorre i momenti fondamentali della vita di sua madre: gli anni in Giappone, un grande amore, il matrimonio, il trasferimento negli Stati Uniti e poi ancora la nascita dei figli, il lavoro come domestica, la terza età, la demenza senile; sino al giorno in cui Alice, dichiarata non più autosufficiente, viene trasferita in una casa di cura.

“Fra gli oggetti della sua vita precedente che al Bellavista non le serviranno più ci sono: la sua tessera scaduta del Ralphs (non tornerà tanto presto a fare la spesa), il suo enorme ombrello rinforzato con le nuvole bianche sul lato inferiore (né troverà più un «tempaccio»), la sua fede nuziale (la perderebbe sicuramente nel giro di pochi giorni), la sua giacca di nylon imbottita (solo abbigliamento da casa, per favore: la temperatura diurna del Bellavista è di ventidue gradi costanti tutto l’anno), la sua preziosa collezione di inutili pezzi di spago (no comment) e la sua agenda settimanale (d’ora in poi ogni sua giornata verrà pianficata in anticipo). Non sono graditi neppure gli animali di peluche (non siamo una scuola materna), così come qualunque opera d’arte che potrebbe aver realizzato negli ultimi cinque anni. Niente fotografie sui davanzali (i davanzali devono restare sgombri). Niente mini frigoriferi. Niente mobili «di fuori». Niente crocifissi sopra il letto, per favore (siamo un’istituzione priva di immagini sacre con una rigorosa politica «anti-puntine»).

Con “Bellavista” si torna nuovamente alla dimensione corale, affidata questa volta alla direzione generale e al personale della clinica che in un vortice di registri diversi, dal finto accorato al jingle televisivo, dallo stile affabile e coinvolgente della brochure al grossolano rimbotto di un’infermiera in turno di notte, raccontano la permanenza di Alice all’interno della struttura, fino al decadimento completo, rappresentato dall’afasia. Nell’atto finaleEuroneuro” si torna alla figlia, che questa volta racconta il proprio punto di vista in una sorta di riflessione personale che spazia dall’esame di coscienza al rapporto con il padre, in un arco temporale a tre dimensioni: quella del prima, del durante e del dopo, in una sorta di epilogo post-mortem.

“Nuoto libero” di argomenti ne tocca parecchi, con un sistema di citazione che nella maggior parte dei casi scivola nella suggestione, nell’accenno di un ricordo confuso. Come fosse un filo quotidiano di pensieri, bolle d’acqua che nascono per il caso derivato dall’associazione di idee, da un incontro casuale, dalla quotidianità di un rito casalingo. La Storia va a infilarsi per carsismo un po’ dovunque – il grande amore scomparso, il trasferimento negli Stati Uniti, la vita grama della domestica – fra l’eredità culturale che un po’ scompare e un po’ viene consapevolmente rinnegata e le nuove forme sociali, così difficili da interpretare.

Continuo a imbattermi in questi meccanismi di erosione: è un fenomeno molto curioso, poiché di libri che raccontano il crollo della casa una volta svanito il proprietario, recentemente ne ho letti altri tre – uno prima e gli altri due dopo (saranno l’oggetto dei prossimi post su ADC)- senza conoscerne l’argomento a priori. Chissà dove queste parole hanno intenzione di portarmi.

“Tornare a casa”, di Mark Boyle (trad. Carlo Branchini)

“Ero anch’io un ambientalista una volta, ai tempi in cui si trattava di difendere luoghi vergini e mondo naturale dall’incontenibile ambizione degli esseri umani, piuttosto che dal carbonio e da quella cosa oscura chiamata ‘sostenibilità’. Negli anni mi sembrava che gli ambientalisti si stessero sempre più preoccupando di addomesticare certi luoghi selvaggi, come deserti, oceani e montagne, per imbrigliare energia verde con cui rifornire il nostro stile di vita, in particolare di quello di una piccola percentuale degli abitanti del pianeta.”

Oh Mark, che pasticcio. E sì che eri partito così bene, con questa storia del ripensare al mondo in cui viviamo e farti giusto due domande su quell’assurdo controsenso dello sviluppo sostenibile.

[Un passo indietro.] Mark Boyle (Ballyshannon, IE, 1979) è un attivista, columnist e scrittore molto conosciuto in Irlanda e nel Regno Unito – malgrado abbia più volte dichiarato di non aver mai voluto intraprendere consapevolmente la carriera di divulgatore. . Già durante gli studi superiori comincia a interessarsi agli esiti, in specie locali, della globalizzazione e dell’ipertecnologia. Dopo aver conseguito la laurea in economia, ottenuta con successo seppur fra inciampi e occupazioni precarie, inizia a viaggiare e a lavorare nell’industria, anche per il comparto dell’alimentare biologico, maturando consapevolezza nei riguardi dei temi ambientali e dello sfruttamento delle risorse naturali. Sperimenta modi di vivere alternativi ed ecosostenibili sino ad arrivare, nel 2008, alla decisione di abbandonare completamente e per almeno un anno (che poi diventeranno tre) l’uso del denaro. Questa scelta susciterà scalpore e curiosità sia nel mondo dell’attivismo sia fra le gente comune tanto che Boyle da questo momento in poi verrà conosciuto come “the Moneyless Man” (l’uomo senza soldi) nonché fondatore della Freeconomy Community. Dal 2016 vive a Loughrea, un paese della contea di Galway, in una baita autocostruita e priva di strumenti elettrici. Non possiede interruttori né acqua corrente, si sostiene praticando raccolta, caccia, pesca – per le quali si serve unicamente di attrezzi manuali e a cui aggiunge una minima coltivazione – e utilizza il baratto e lo scambio di aiuto per recuperare ciò che gli è necessario ma non riesce a produrre in maniera autonoma. Per gli spostamenti, ridotti all’essenziale, utilizza bicicletta, autostop o mezzi pubblici. Accanto alla baita ha costruito The Happy Pig, una foresteria che è anche spazio eventi e sibin. Su richiesta del Guardian, dai primi dodici mesi di questa esperienza ha tratto un memoir: “The Way Home: Tales from a Life Without Technology”, appunto.

“Quando cammino di solito sono sempre alla ricerca: bacche, piante, chiarezza, o lezioni da tutti quegli esseri che non ricordiamo più come si ascoltano.”

“Il cacciatore-raccoglitore primitivo che è in me dice invece che dovrei ucciderlo e considerare il gesto come parte dell’unica cultura che per me abbia mai avuto senso.”

“Non sono sicuro di quando un’arte trascendente possa favorire una cultura più tangibile.”

[Ora torniamo a te, Mark.] Se ci si prende la briga di andare sul sito del The Guardian e sfogliare le centinaia di commenti che affollano ogni pezzo a firma Mark Boyle, possiamo trovare un po’ di tutto: c’è chi gli ride in faccia (effettivamente, Mark, un po’ l’aria da ultimo fricchettone ce l’hai, siamo onesti), chi non vede l’ora di crearsi la propria baita autoprodotta – meglio se nel giardino della casa di famiglia, chi gli rivolge con garbo domande interessanti sui temi pratici più scottanti (per esempio: se ti viene un ascesso a un dente come lo curi? E come ti lavi?) e infine chi tenta di riflettere sulla replicabilità dell’esperimento, sul target e pure sull’intrinseca fallacia del metodo. Sì, perché in realtà Mark Boyle, pur non dichiarandolo mai apertamente, fa proprie le linee di pensiero appartenenti a quel movimento che nel tecnico viene definito dell’Anarco-primitivismo. L’accademia pone tra gli antesignani di questa filosofia radicale H.D. Thoreau, che più o meno per primo teorizzò – e mise in pratica, anche se poi la biancheria la mandava a lavare a casa, ma sono dettagli – il ritorno a una vita di auto-sufficienza in ambiente naturale. Di base, il movimento anarco-primitivista auspica il recupero (ecco perché Boyle parla di “tornare a casa”) di uno stile di vita pre-civilizzato che si declina tramite alcuni punti fissi: il rifiuto della tecnologia, ossia di tutto ciò che è prodotto/funziona attraverso un interruttore, la deindustrializzazione, l’abbandono dell’economia in larga scala e l’abolizione delle strutture sociali basate sulla divisione del lavoro e sulla specializzazione delle competenze. Più nello specifico, possiamo dire che fulcro dell’Anarco-primitivismo è la critica a quel preciso momento dell’evoluzione umana in cui si passò dal nomadismo alla sedentarietà, o meglio ancora quando smettemmo i panni di raccoglitori/cacciatori per indossare la casacca da contadino – cioè… quando abbandonammo la wilderness (qualunque cosa essa significhi, il che non è poco).

“So bene che la coltivazione del cibo non è sempre stata così, ma l’agricoltura ha aperto la strada all’industria, e non c’è voluto molto tempo perché l’una sposasse l’altra”.

Letto in quest’ottica, “Tornare a casa” assume un significato ben preciso. Peccato che Boyle se ne guardi bene dall’avvertirci (in realtà qualche sospetto viene, ad esempio seguendo la scia dei testi fondativi che l’autore cita di tanto in tanto, però non è che siamo tutti esperti in materia), il che crea una serie di scompensi in fase di lettura per via di una certa sensazione di inganno latente. La vita che Mark Boyle sceglie per sé – va detto, l’intento non è quello di convincere né di provocare – è potente, per certi versi rivoluzionaria e in parte adottabile. Essa pone tuttavia dei dubbi che sono prima di tutto etici e che stanno alla base di tutte le critiche metodologiche rivolte appunto non alla persona Mark Boyle in quanto tale ma al movimento a cui Mark Boyle si trova ad afferire. Dimenticandosi di dichiararlo, Boyle crea uno scarto di giudizio, che dal metodo vira sulla sua persona, privandosi di focus – ed è proprio questo, caro Mark, ciò che personalmente non ti perdono.

[Concedetemi un approfondimento – riferimenti al testo inclusi.] Una delle critiche più diffuse è quella secondo cui il movimento faccia proprio un certo imperialismo culturale accompagnato dall’esaltazione quasi ascetica per il mito del buon selvaggio. Ironicamente, Boyle – in una delle sue tante invettive contro la contemporaneità disseminate fra i vari capitoli – utilizza proprio l’argomento dell’imperialismo culturale quale espressione della modernità attuale, da cui ça va sans dire desidera svignarsela. Con incredibile tempismo, inoltre, frammischia al memoir il racconto di un viaggio, fatto insieme alla fidanzata Kirsty durante il primo anno a Loughrea – nelle Blasket Islands, arcipelago del sud est irlandese e luogo di residenza di una enclave di grande interesse antropologico, culturale e linguistico, che fu fatto evacuare nel 1954 a causa delle condizioni proibitive in cui versavano i 170 abitanti, di cui Boyle non cessa di lodare l’estrema resistenza fisica e la grande solidità mentale (attribuendo la causa dell’evacuazione unicamente al danno sull’ecosistema causato dalla pesca industriale. Spoiler: sì ma anche no).

“Mentre sono fuori nel bosco, (…) tra alberi sospesi e rami rotti, e sego tronchi e sudo sette camicie, Kirsty è nella baita a preparare la cena. (…) Stiamo ricoprendo i ruoli tradizionali dell’uomo boscaiolo e la donna al paiolo? Sembrerebbe di sì, ma inconsapevolmente. Siamo entrambi liberi di fare qualsiasi lavoro di cui abbiamo voglia, semplicemente il più delle volte io preferisco andare a far legna e lei cucinare.”

” A trentott’anni il pensiero della vecchiaia è diventato più concreto, come se non fosse qualcosa che capita solo agli altri.”

“A una conferenza qualche di settimana fa qualcuno mi ha chiesto cosa farò quando sarò vecchio. Ho risposto che come tutti penso che morirò. Non desidero essere l’uomo che arriva sano in punto di morte, a ottantotto anni, attaccato a una maschera per l’ossigeno, spaventato dal lasciarsi andare, terrificato da cosa verrà dopo. Il rapporto che abbiamo con la morte modifica profondamente quello con la vita. È molto alto il rischio di vivere una vita lunga e malsana senza essersi mai sentiti vivi.”

L’altro punto comunemente sollevato da chi mette in dubbio le teorie anarco-primitiviste è legato alla questione della (in)coerenza. Ritorniamo a Boyle: in primis, il suo stile di vita è congruo, e questa evidenza è incontrovertibile, soltanto per individui in piena salute e giovani – o relativamente tali. Il ritiro Boyleano quindi possiede, di fatto, due fondamentali caratteristiche: è abilista e di impronta per certi versi patriarcale* (chiunque mi conosce sa che solitamente mi tengo lontana da certa abusata terminologia, eppure penso che in questo caso non ci siano aggettivi più opportuni); da ultimo, esso è – per stessa ammissione di Boyle – temporaneo e completamente reversibile.

Studi effettuati nel tempo hanno stimato che nelle società di cacciatori-raccoglitori poco più della metà della popolazione raggiunge/va i 15anni e che l’aspettativa di vita si colloca fra i 20 e i 35-37 anni. Per quanto riguarda le cause dei decessi, abbiamo 70% per malattie, 10% patologie degenerative, il resto distribuito fra incidenti/morte violenta. In “Tornare a casa” Boyle sorvola allegramente sulla questione delle cure mediche, salvo sottolineare in più punti l’utilizzo di metodi naturali, in specie erboristici, per la cura dei fastidi quotidiani. A patologie più gravi non accenna, lasciando intendere di non averne mai sofferto; né a quanto pare si è mai infortunato, ha avuto incidenti con animali selvatici o di rischio alimentare. Insomma sembra che a Boyle vada tutto bene: è un uomo sano, trae giovamento dalla vita all’aria aperta, da un’alimentazione di qualità, varia, proteica e primitiva (consumo di erbe spontanee, verdure e radici, selvaggina e crudi di pesce, interiora – zuppa di sangue di luccio compresa) e da rimedi naturali che mirano a mantenere il corpo in salute invece di curarlo quando malato. Le percentuali di cui sopra, tuttavia, ci raccontano un’altra storia, fatta di altissima mortalità infantile, decessi per parto, infezioni e traumi, una vecchiaia che comincia a 40anni, terza età non pervenuta. Boyle, insomma, rientra nella percentuale di quelli che per ora ce la fanno e ci fa credere che ciò avvenga in virtù della vita che ha scelto – ma ciò è vero solo in parte poiché il suo punto di partenza non è il medesimo degli antenati a cui vorrebbe riferirsi: per esempio, nell’infanzia non ha certo sofferto di malnutrizione, avrà sicuramente ricevuto cure dentistiche, gli saranno state somministrate vaccinazioni – se non a lui direttamente, per lo meno a molti del suo gruppo sociale -, anti-infiammatori e antibiotici (“medicine industriali”, le chiama lui).

Checché ne dica, insomma, quello di Boyle non è tanto un ritorno a casa quanto un pacchetto-viaggio acquistato con assicurazione sanitaria base e biglietto di ritorno inclusi. Il punto è però ancora un altro: in una delle interviste rilasciate ai media nel corso di questi anni, Boyle racconta i suoi dubbi non solo riguardo l’utilizzo di apparecchiature mediche ma anche nei confronti della genitorialità: veniamo a sapere che, contro il parere di familiari e sanitari, a trent’anni decise di farsi sterilizzare, poiché di bambini da regalare al nostro mondo così malato non ne voleva sapere. Nell’economia di pensiero di Mark Boyle, insomma, le persone anziane o disabili sarebbero una rarità e non non si capisce bene cosa bisognerebbe farne dei bambini – e quindi di tutte le criticità, le sfide e i bisogni di chi copre il ruolo di caregiver (tra i quali inserisco anche i maestri di scuola). Nella società pre-industriale a cui Boyle agogna non esiste né ascensore sociale né emancipazione dalla famiglia di origine, poiché ognuno sta dove è nato e con chi è nato, facendo il mestiere che ha sempre fatto e che farà per sempre. E a quanto sembra non esisterebbe nemmeno l’autodeterminazione della donna nella gestione del proprio corpo (come evitare di concepire bambini senza anticoncezionali chimici o meccanici… questo resta un mistero che Boyle si guarda bene dall’affrontare) né del proprio ruolo all’interno del gruppo sociale**.

[Concludiamo, ché l’abbiamo già tirata in lungo.] Insomma, “Tornare a casa” è presentato come un testo vòlto a rilanciare la riflessione sul significato che attribuiamo all’espressione “qualità della vita”, sviluppando un pensiero critico e consapevole su concetti quali la mutua collaborazione e l’egualitarismo. Ce la fa? No – o meglio sì, ma solo in parte, proprio perché l’appartenenza o quanto meno la simpatia di Boyle verso il particolare modello culturale dell’Anarco-primitivismo viene taciuta. E quindi, Mark, se tutta ‘sta manfrina l’avessi scritta a capo del libro ci saremmo risparmiati della gran fatica e ne avremmo guadagnato un poco in onestà intellettuale – e, da’ retta, il tuo racconto non avrebbe perso né in freschezza, né in riflessione, né in capacità di stimolare nel lettore un ragionamento autocritico.

“(…) non appena il giornalismo diventa un concorso per la popolarità e premia il sensazionalismo, il pensiero di gruppo e l’inganno piuttosto che l’onesta esplorazione di argomenti complessi, ecco che a perdere sono i luoghi e le persone, e i vincitori coloro che dovrebbero essere giudicati. Di una vittoria poco lungimirante.”

Note: se volete saperne di più sull’Anarco-primitivismo, qui un approfondimento uscito per Il Tascabile alcuni anni fa (a firma Andrea Daniele Signorelli). L’intervista in cui Boyle racconta della vasectomia ed espone in maniera un poco più strutturata i suoi dubbi nei riguardi della “medicina industriale” e sulla apparecchiature mediche è qui, sul The Guardian (commenti inclusi). * Sì, lo so che gli studi sembrano confermare una certa prevalenza di strutture matriarcali all’interno delle comunità di cacciatori/raccoglitori. Bisognerebbe quindi chiedere a Boyle come mai lui sembri propendere, in certi punti, per il contrario. **Sì, lo so che una delle contro-critiche che il movimento rivolge ai delatori è la tendenza a giudicare un modello del passato utilizzando sistemi di pensiero moderni. Che però l’emancipazione femminile passi anche dall’autoderterminazione sul proprio corpo e sul proprio ruolo dentro e fuori dal nucleo familiare, possiamo considerarlo le basi, ve’?

“Pellegrini del sole”, di Jenni Fagan (trad. Olimpia Ellero)

«So macellare gli animali, se mai dovessimo andare a caccia», fa lui. «O magari le persone?». «Non so perché l’ho detto». «Forse un giorno finiremo per arrivarci, al cannibalismo: l’ultima risorsa per i sopravvissuti nella desolazione dell’inverno di Clachan Fells. Chi mangeresti per primo?», scherza Constance. «Non sceglierei né te, né Stella», dice lui. «Quanto sei dolce, e premuroso». «Siete entrambe troppo magre», spiega Dylan.”

Novembre 2020, Londra – Soho, 345a Fat Boy Lane. Il trentottenne Dylan cammina per l’ultima volta fra le poltrone del Babylon, “il più piccolo cinema d’essai d’Europa” che come tante altre piccole imprese della zona non ha retto l’impatto con la gentrificazione. Il minuscolo teatro, opulento nella sua decadenza di velluti e cristalli, sul cui schermo erano passati cavalieri Jedi e Goonies, documentari sulla Luna e poi Linch, Besson, Bergman e il fantasma di Nosferatu, sta per essere ceduto ai creditori, che lo trasformeranno in un immobile di design. Il cinema non rappresenta soltanto l’attività professionale di Dylan ma anche la sua eredità familiare: a rilevarlo era stata infatti la nonna, Gunn MacRae, che per decenni lo aveva poi gestito insieme alla figlia Vivienne e al nipote, cresciuto fra l’angusto appartamento annesso, il palco, la stanza del proiezionista e la cantina che Gunn utilizzava per macellare le carni e produrre il suo famoso gin artigianale. Gunn è mancata da poco, vittima di una morte improvvisa e alquanto misteriosa: un lutto che con la malattia di Vivienne, deceduta a poche settimane di distanza dalla madre, ha contribuito a farsi per Dylan ferita insanabile.

“Pellegrini del sole” è un distopico raffinatissimo, che si nutre di gran competenza tecnica e notevoli artifici di trama. L’autrice, d’altra parte, è Jenni Fagan: nata in Scozia nel 1977, laureata alla Greenwich University, un dottorato in filosofia all’Università di Edinburgo, varie borse di studio, è pubblicista per The Independent, Marie Claire, the New York Times , artista e scrittrice con all’attivo diverse raccolte di poesie, racconti e il romanzo “Panopticon” – finalista ai premi Desmond Elliott e James Tait Black.

Il punto di tutta questa storia è che Londra è stretta nella morsa di un gelo sempre più intenso: a causa dello scioglimento delle calotte polari dovuto all’inquinamento, a cui è seguito l’arresto della corrente nord-atlantica, tutto il pianeta sta entrando in quella che parrebbe proprio una nuova era glaciale. A Londra la temperatura è ormai sotto zero da mesi, il Tamigi si sta ricoprendo di ghiaccio, molti si preparano a una migrazione collettiva verso sud; i satelliti riportano foto dell’Europa imbiancata, dagli Stati Uniti giungono notizie sempre più allarmanti di violenza atmosferica e stragi di massa. Dylan però, – assediato dai creditori, orfano di famiglia e disoccupato – in maniera del tutto controintuitiva sale su un pullman alla volta del Nord. La sua meta è la Scozia: con sé porta le ceneri delle due donne (Vivienne è chiusa in un Tupperware, Gunn dentro a una scatoletta di gelato Carte d’Or), che intende spargere sull’isola natia della nonna, nelle Orcadi, e alcune carte che lo fanno proprietario di una roulotte per nomadi, comperata a sua insaputa dalla madre. Mentre l’autunno scivola nell’inverno e le temperature continuano a scendere – siamo già a meno venti – , un iceberg di dimensioni gigantesche si avvicina alla costa, le scuole vengono chiuse e i grandi della Terra, riuniti in consulta, si dimostrano inevitabilmente impotenti, Ryan raggiunge il camping di Clachan Fells e fa conoscenza dei suoi abitanti, un caleidoscopio di persone ai margini tra cui un vecchio studioso di astronomia con le dita piene di anelli e un’armonica nella tasca dei pantaloni, una prostituta in tuta di lattex, una coppia di giovani satanisti e infine Constance, capelli biondissimi e ciglia bianche di ghiaccio, il di lei ex marito che vive con la terza moglie in un cottage poco distante lavorando come imbalsamatore di animali e la loro figlia figlia Stella – che in realtà è un preadolescente in transizione, della cui nuova identità di genere il padre non vuole sentir parlare. Fra riunioni nella sala parrocchiale, gruppi di aiuto tenuti dalle suore della congregazione locale, zuppe calde ed emergenza sanitaria, tutta la comunità si arrabatta per sopravvivere alle condizioni climatiche sempre più proibitive. L’inverno scende buio, durissimo e sfocia in una primavera splendente ma a meno cinquanta gradi: quando la corrente salterà definitivamente, le strade diventeranno impraticabili per via del ghiaccio e le tempeste di neve scenderanno dalle montagne improvvise e terrificanti, congelando senza pietà tutto ciò che troveranno sul loro cammino, uomini inclusi, allora la favola nera di Constance e Dylan si trasformerà nell’orrore di una nuova estinzione.

La Scozia è terra di miti e leggende. E così si racconta che nonna Gunn, cacciata dalla casa paterna poiché incinta di Vivienne, frutto di un incesto, in una notte londinese di buio e tempo brutto abbia sottratto le chiavi del Babylon al diavolo in persona, con l’inganno, durante una mano di carte – e che il diavolo quelle chiavi sia venuto a riprendersele. Si racconta anche di Constance, che balla alla luce dei falò indossando una maschera di lupo – un lupo vero, scuoiato dal marito fedifrago in segno di pentimento, e dei Sunlight Pilgrims, monaci-asceti abitanti delle Orcadi che un giorno come impazziti si lanciarono in massa giù dalla scogliera: tutti tranne uno, che rimase sull’isola nutrendosi unicamente dei raggi del sole – e lo trovarono così, nella posizione del loto, “nudo come un verme e duro come il marmo”. Se da una parte le favole sono il modo che abbiamo per inzuccherare le medicine più amare, dall’altra è anche vero che alla bellezza del mondo non c’è mai fine, a dispetto di tutte le più grandi schifezze alle quali si venga esposti. E lo sa bene Jenni Fagan, che di certe dinamiche ne ha contezza – il bullismo scolastico verso i ragazzi fragili, l’assistenzialismo peloso di alcuni conciliaboli ai quali comunque occorre rivolgersi per rimediare a un welfare farraginoso e lentissimo, se non inesistente, il lavoro precario e sottopagato, le famiglie disfunzionali e violente – lei che per tutta l’infanzia ha vissuto fra case famiglia, pensionati minorili e parcheggi per nomadi e che tutt’oggi collabora con istituti di detenzione, rifugi e altre realtà che accolgono persone vulnerabili.

Gli artifici di trama che Fagan mette in scena, in realtà, sono sì stupefacenti ma solo perché così veri da non credere ai propri occhi; a volte si tratta di ambientazioni (le roulotte metallizzate che ognuno addobba secondo il gusto o al contrario abbandona alla decadenza, la sala parrocchiale caldissima e soffocante con le dame di carità che si prodigano in un servizio tutto tranne che disinteressato, il teatro di posa dell’Ikea, soggiorno-salotto-cucina, aperto ai più bisognosi in una assurda messa in scena di casa di bambole); altre volte di circostanze (Constance che per mestiere recupera mobili dalla discarica comunale e li rivende, magnificamente restaurati shabby chic [ndr: shabby shit per Stella] a facoltose signore di campagna apparentemente ignare della loro provenienza), altre ancora di individui, che per particolarità e sentimenti non possono che appartenere all’esperienza della scrittrice (la coppia dei satanisti in erba, i bulli di classe, qualche anziano rassegnato all’indigenza, i lavoratori a giornata: rudi, facili alle mani e obliqui nello sguardo; l’angoscia che prende quando scende il buio, il desiderio di un luogo caldo dove consumare un pasto per una volta sfizioso, la fatica nell’interazione con le strutture pubbliche). Per paradosso, è come se tutti i personaggi che Fagan mette in scena – protagonisti compresi – ne venissero fuori un po’ sfocati, come se lo sguardo (del punto di vista multiplo, per altro) non potesse fare altro che raccogliere impressioni senza davvero arrivare a conoscere nel profondo, cosa d’altra parte molto frequente nel mondo di fragilità economica e sociale descritto dall’autrice, spesso caratterizzato da legami familiari precari, instabilità lavorativa …e dalla legge non scritta del farsi i fatti propri.

A questo proposito vale la pena una digressione sulla tematica gender, che Fagan tratta in maniera molto equilibrata e definita poiché, prendendo come punto di vista quello interno di Stella, ne evidenzia i desideri e i sentimenti ma anche la criticità di un sistema di pensiero evidentemente complesso e multistrato, che non viene scisso (ma neanche si nutre eccessivamente [di]) da tutta una serie di situazioni contingenti e condizionamenti familiari, ad esempio l’assenza di figure maschili di riferimento o il rapporto con la madre: donna energica, colta e abilissima ma evidentemente vittima di una relazione abusante. Anche il contesto che Stella frequenta è specifico ma multiforme e si discosta da un immaginario che spesso si vorrebbe invece molto polarizzato: per esempio Stella è sì vittima di bullismo a scuola, però può contare su una comunità all’interno della quale sembra prevalere una sorta di partecipe indifferenza; ha un medico che – vero – le nega le terapie ormonali ma non in nome di un’opposizione soggettiva: in maniera onesta si dichiara professionalmente scettico e non idoneo alla valutazione. Dylan è figura che sta in mezzo, come se fosse, nella sua imprecisa identità di adulto fuori canone (attaccatissimo ai legami familiari, gran lavoratore, per nulla ambizioso ma nemmeno portatore di uno stile di vita di naivete intellettualoide), una specie di bussola a suggerire un sistema comportamentale che potrebbe essere utile in questi casi: imparare a non negare la realtà dei fatti. Qualsiasi fatto, anche quello, scomodo per i più attivisti, di tenere presente la famosa …storia dei gameti. Tuttavia nell’economia del romanzo la questione transgender non diventa predominante perché è inserita in un contesto più ampio, che appartiene con pacifica evidenza alla fantascienza distopica, di generale critica politica e sociale all’interno del quale il tema diventa soltanto una delle molte difficoltà che affliggono le fasce di popolazione più fragili.

“Uno stormo di uccelli vola basso sopra la sua testa. Il verde muschio, il viola e il rosso oro sfumano nel marrone. Folate di nevischio si alzano sulla montagna. Le cime degli alberi scompaiono in un batter d’occhio, appena l’ondata candida raggiunge la vetta della montagna e ne ridiscende, ancora più fitta e più rapida, colorando ogni cosa di bianco, finché, nel giro di pochi secondi, il paesaggio non si è totalmente trasformato.”

“Sai come mi sento, mamma? Come se la neve stesse per ricoprire il mondo intero, perfino le piramidi, perfino le spiagge e gli aeroporti deserti e i grandi scheletri delle montagne russe in quei parchi di divertimento vuoti dove nessuno va più da secoli. Anche quelli finiranno sepolti sotto la neve, come le città e i grattacieli e pure i maxicontainer delle navi sull’oceano, la baia di San Francisco, tutte le strade di Roma e le taverne di Atene. I lupi artici vagheranno in ogni parte del mondo, e i goth domineranno il mondo.”

Scrivere di fantascienza distopica significa anche aver contezza del (New)Nature writing, particolarità del descrivere realtà immaginarie che spesso scivola in secondo piano a favore di ambientazioni di maggiore impatto scenografico. Fagan non ci parla di contesti urbani alla The day after tomorrow (che con gran furbizia programmatica relega alle fantasie mainstream di una tredicenne imbevuta di catastrofilm e videogames – ndr: e il Tamigi ghiacciato viene utilizzato come spazio espositivo, perché la coolness sarà l’ultima a lasciarci) quanto di piccole alterazioni, impercettibili cambiamenti che sommati l’uno all’altro daranno il via all’inevitabile – e soprattutto ci parla della Natura, del modo che avrà di riprendersi il pianeta, di quali specie sopravviveranno e quali no, dell’equilibrio ristabilito, di come il non-umano si farà strada fra le nostre rovine.

“«Mi manca la chiarezza». «Che cosa intendi, mamma?». «Voglio dire che mi manca il fatto che le cose siano chiare. Il tempo, Stella! (…) Mi mancano quelle dannate estati belle lunghe, gli autunni piovosi, gli inverni deprimenti, le primavere variabili.»”

“«Beh, quando finiremo il cibo in scatola, e poi gli animali surgelati – e ci vorrà un bel po’ di tempo – penso che sarò io il primo a essere mangiato. Sapete, è un po’ come quella barzelletta dell’orsetto che va nel bosco e dice ‘Ho paura’, e allora l’orso più grande gli fa: ‘Non capisco di cosa tu abbia paura, non sei mica tu quello che deve tornare da solo’»”. Sono tutti fermi ad ascoltare l’orologio che ticchetta. «Ma, se mi mangerete per primo, potreste farmi un favore?». «Quale sarebbe?» gli chiede Constance. «Beh, sono contento di vedere che nessuno mi sta contraddicendo. Se davvero lo farete, potreste tenere da parte le mie ossa, ridurle in polvere e trasformarle in un bel servizio da tè in porcellana?».”

In pianura .1: “Pontescuro”, di Luca Ragagnin

“Invece, quel buio, là fuori, adesso, gli pareva un’oscurità cattiva, la pelle stessa di un gigantesco essere multiforme che respirava rantolando, e allargava il torace inspirando le sostanze vitali, le poche rimaste, le superstiti, seppure lontane e indistinguibili: le stelle, le nuvole, gli esseri alati, e quelli della terra, del sottoterra, anzi, che continuavano laboriosamente a trafficare nei grumi, nell’umido, nei cunicoli, perché non si erano ancora accorte che il mondo era terminato.”

Torno al blog – che felicità, sono proprio contenta (una sospensione occorre, ogni tanto) – con un tema che mi è caro e che in queste settimane di pausa estiva ho avuto finalmente modo di approfondire, recuperando dalla biblioteca alcuni titoli che aspettavo da tempo. Uno di questi è “Pontescuro”, di Luca Ragagnin con illustrazioni di Enrico Remmert. Proposto allo Strega 2019 da Alessandro Barbero, questo romanzo breve racconta in maniera corale – voci umane e naturali – le vicende di un immaginario paesetto della bassa padana, Pontescuro appunto, alle prese con l’efferato omicidio della licenziosa Dafne, la giovane e spregiudicata ultimogenita del fattore locale. Siamo nel 1922, le famiglie si spaccano nel nome della marcia su Roma e delle rivolte contadine messe a tacere a suon di manganelli e i pochi tetti che compongono “questa terra con le sue case sopra, come denti isolati o accavallati o nascosti nella bocca della pianura” sono avvolti dalla nebbia e da una miseria profondissima, che svuota le pance e ottunde gli animi. Colpevole dell’efferato delitto – il corpo della ragazza abbandonato in campagna, un nastro rosso a legarle stretto il collo – può essere chiunque: l’invidioso uomo di fatica a cui Dafne ha negato le grazie, il ragazzotto geloso cui invece le ha donate per tante volte, l’acida perpetua alla quale non è stato concesso di amare chi desiderava, una moglie tradita a vendetta del torto subìto, il barbone cencioso che dorme in riva al fiume, il giovane prete reso pazzo dal desiderio, lo scemo del villaggio. Nessuno sa eppure tutti sanno, a partire dalla ghiandaia, dalla nebbia e dal fiume che come Cassandre mai tenute in conto non si fan scrupolo a raccontare – nel loro incomprensibile linguaggio – la verità di un luogo maledetto.

“La carne è una casa, o un attrezzo. / È un rastrello, un badile, la venatura di un legno. / È una cucina, un pollaio, un cassetto, un raggio chiaro che scalda una finestra, oppure povere e inchiostro sbavato, lettere nascoste e ragnatele, qualcosa che scricchiola e non si sa dove.”

Si dice che Luca Ragagnin, scrittore di grande esperienza, con queste pagine abbia fatto il miracolo di una narrazione dal bilanciamento perfetto: nello stile – che unisce la prosa, essenziale nel romanzo, di tradizione novecentesca ma libera da retorica o autocompiacimento, alla frammentazione poetica della riflessione individuale – e nel contenuto, ancorato stretto alla trama che però, nel suo girarsi tra gli attori protagonisti, non manca di toccare una ricostruzione storica di fatto necessaria ma mai invadente né stereotipata.

“Un consesso di malati con i demoni nascosti sottopelle, disposti in semcerchio per potersi guardare tutti negli occhi e legarsi con l’incrocio degli sguardi a una fitta rete di salvatggio, ecco a cosa assomigliavano ora. (…) Erano ombre malvestite, in via di disfacimento, e diventavano, con il sole ormai issato nel vuoto, impietoso nella messa a fuoco del turbamento, esseri capovolti: l’umanità avuta in dote si rovesciava nelle viscere e il demone personale si arrampicava fuori dal buio, distendendosi sui lineamenti.”

In “Pontescuro” ho trovato quello che cercavo. Lo scrivere dei nostri luoghi maledetti, quelli della provincia, con i suoi panorami come “un ventaglio aperto, ma le sensazioni opprimenti” che fanno parte della mia infanzia; quel Nature writing libero dall’idillio perché, come scrive Andrea Morstabilini in “Aldilà” (di cui spero di raccontarvi presto), nessun manufatto, in pianura, può esser raccontato sciolto dalla terra a cui appartiene. E, infine, il diavolo. Sì, proprio lui, di cui la pianura è regno incontrastato. La struttura di “Pontescuro” infila le radici nella terra grassa della tragedia greca, di porte che s’aprono sul proscenio, monologhi, il coro del popolo che di voci ne ha mille e una sola. Ciascuno racconta la propria verità, nel mistero di una terra dimenticata dal mondo, luogo infernale oltre il conosciuto, fuga dal quale significa morte certa. La pianura, così com’era il palcoscenico della tragedia, è liminare ed è il regno in cui l’uomo e il demoniaco s’incontrano: in pianura, come nulla può esser raccontato sciolto dalla terra così nulla può esistere senza far riferimento allo spirito del sacro – in “Aldilà” di antiche divinità pagane d’inferi e misteri che è d’uopo non andare a sfruculiare, in “Pontescuro” di diavoli imprigionati fra umide canoniche e patti scellerati tra uomini e demoni di fiume.

Sul Twitter mi chiedevo come farò, a venire a capo di queste pagine, piene di haiku e minuscole rivelazioni, e del mio viaggio nella pianura: non so ancora. Forse per adesso sarà sufficiente far fluire le parole di altri, continuare a cercare.

“Ma queste terre, lasciatelo raccontare a una che le ha sempre occupate dell’alto, sono come dei sogni mescolati, che quando apri gli occhi non sai più se sentirti impaurito e minacciato da forze invisibili oppure padrone incontrastato della tua vita e del tuo destino.”

“Anime selvagge”, di Emma Marris (trad. Michela Guardigli)

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“In questo viaggio impiego gli strumenti della filosofia per capire cosa dovrebbero fare gli esseri umani nei confronti degli animali selvatici. Quindi occorre saper argomentare in modo chiaro e convincente a favore del valore delle specie, se mi accingo a sostenere che è moralmente giustificabile fare del male, uccidere e compromettere l’autonomia di creature senzienti per salvare la specie.”

Cosa significa oggi parlare di “natura incontaminata” o di “specie nocive“? Ha senso ragionare di tutela della biodiversità riferendoci a mondi che per migliaia di anni sono stati plasmati dalle popolazioni che li hanno abitati? Qual è la nostra responsabilità etica nei confronti degli “animali selvatici” il cui habitat e le cui traiettorie evolutive abbiamo contribuito a modificare?

La giornalista scientifica Emma Marris (pluripremiata divulgatrice, con articoli apparsi su National Geographic, the Atlantic, the New York TimesWired) comincia da questa manciata di scomode domande – in realtà già argomento del suo primo libro (“Rambunctious Garden: Saving Nature in a Post-Wild World”, inedito qui in Italia) – per definire ancor meglio, in questo secondo testo che si vorrebbe dire programmatico, la propria visione nei riguardi della spinosa questione del conservazionismo. Come spiega l’autrice stessa, la “biologia conservazionista” è quel campo scientifico nato nel 1985 che a differenza dell’ecologia, sua “disciplina madre”, “ha un programma esplicito: salvare le specie“; se l’ecologia “cerca semplicemente di descrivere i meccanismi del mondo vivente”, il conservazionismo, racconta Marris, “poggia su valori morali “, ha una “base etica” e gli scienziati che ne sono fautori “non si limitano a studiare cosa sta accadendo, ma forniscono raccomandazioni su cosa dovremmo fare.”

Lo strumento che Marris utilizza per questa analisi è il confronto diretto, sul campo, con le figure di spicco attive nelle pratiche conservazioniste o che, al contrario, a esse si oppongono. Si tratta – è bene sottolinearlo – di eminenti scienziati, biologi di pluriennale esperienza, responsabili di gruppi di ricerca o di progetti di tutela ambientale nelle più remote aree del pianeta Terra. Dopo una premessa di carattere filosofico tesa a indagare e cercare di definire i quesiti morali che ci portano a determinare di volta in volta la validità – o la necessità – di un intervento di tutela ambientale, Marris ci trascina in un lungo e affascinante viaggio nello spazio e nel tempo terrestre, alla scoperta delle radici e delle conseguenze di quel dualismo uomo/natura che tanto appassiona noi occidentali categorici – e dei tanti danni di cui questa “narrativa ambientale misantropica” si è resa responsabile, dal concetto di “contaminazione genetica” a quello della “sfumatura morale” del pensiero occidentale contemporaneo nei riguardi della tutela ambientale.

“La cultura occidentale ama notoriamente le categorie, in particolare i dualismi. Uomo e natura, Oriente e Occidente, selvaggio e addomesticato. Il modo in cui affrontiamo la prospettiva di una cane lupo in natura evidenza il nostro profondo disappunto quando i binarismi si incrinano o si confondono. (…) Se gli umani sono cattivi per definizione, il rovescio della medaglia vuole la natura buona per definizione. È per questo che vediamo l’aggettivo _naturale_ appiccicato alla nostra colazione, al nostro shampoo, al nostro sapone per i piatti.”

Insomma, le definizioni correnti di selvaggio e di area incontaminata partono dal presupposto che l’uomo non faccia parte della natura, dando anzi per scontato che qualsiasi presenza o azione umana in natura consegni all’ambiente lo status di meno selvaggio. In realtà, come racconterà Marris proponendo esempi concreti e testimonianze, che la presenza umana su un dato territorio sia sempre e comunque non pertinente è questione ancora tutta da dimostrare (mentre in più di un’occasione è capitato proprio il contrario). L’autrice si spinge anche oltre, prendendo posizione nei riguardi di un sistema di analisi i cui risultati, in termini di definizioni, si possono dire non solo “ascientifici” ma addirittura “dannosi” poiché si fondano su fallacie metodologiche: prima di tutto è un fatto che uomini e organismi vivi si influenzino tra loro da millenni, in un rapporto difficilissimo da districare; in secondo luogo la retorica della natura selvaggia viene spesso utilizzata per giustificare interventi di impronta colonialista (pensiamo alle terre espropriate ai nativi americani nell’errata convinzione che fossero incurate ma anche alle attuali pratiche di eradicazione di specie allogene nelle isole della Nuova Zelanda, dai nativi considerate irrispettose delle tradizioni locali). Da ultimo, “pensare che natura ed esseri umani siano incompatibili rende impossibile far rivivere o scoprire modi di lavorare con e all’interno della natura, per il bene comune” e di fatto in alcuni contesti elude l’analisi e la presa di coscienza sui temi dello sfruttamento del territorio.

“Un assioma conciso non sempre è sinonimo di un sistema etico a prova di proiettile.”

La disanima del dualismo uomo/natura passa anche, nel testo di Marris, da un attentissimo focus sul linguaggio, nell’organizzare un sistema che per esempio sostituisce – almeno nei contesti tecnici – “naturale” con “disabitato” o “all’aria aperta” e “stato selvaggio” con “non destinato all’uso umano” o “ambiente non costruito“; in sostanza, l’autrice pone sotto inchiesta il “culto quasi religioso della natura e della selvaticità” a cui dovrebbe sostituirsi un approccio costituito da due particolari “impegni”: la prosperità degli esseri viventi (che comprende la loro autonomia) e l’umiltà, a cui segue il principio di moderazione, da parte degli esseri umani.

“Sostenere che i bisogni e i desideri umani non devono travolgere quelli di altre specie [è] un concetto ben diverso dal sostenere che gli esseri umani devono essere estirpati come una massa cancerosa da qualsiasi ecosistema che porta le nostre tracce.”

Interrogandosi sul concetto di tutela della biodiversità, che riconosce come corretto, Marris tuttavia mette in discussione i mezzi utilizzati a questo fine, rispetto ai quali occorre domandarsi “se ci siano dei limiti a ciò che siamo disposti a fare“.

In primo luogo (1) Marris si focalizza sulla pratica dell’allevamento in cattività di specie a rischio d’estinzione (fedele all’intenzione programmatica di portare a tema alcuni casi pratici, dedica un capitolo intero, per esempio, alle vicende di recupero e reintroduzione in natura del Condor della California), processo che non esita a definire “un esercizio di dominazione totale” che, seppure efficace – a volte, non sempre -, occorre giustificare alla luce di un certo numero di valori. L’altro nodo programmatico del testo è difatti il recupero e la ricollocazione del termine specie all’interno di un sistema di valori definito “etica ambientale” e di una prospettiva di studio che deve di necessità abbandonare il punto di vista antropocentrico e far buona pratica nella distinzione tra valore strumentale e valore finale – a sua volta soggettivo oppure oggettivo – di ciò che chiamiamo specie, sempre che sia possibile provare che “specie ed ecosistemi abbiano un valore finale oggettivo”. Uno dei punti critici del conservazionismo infatti è il concepire la specie come un “fermo immagine” e la biodiversità come la presenza di un certo numero di specie “fotografate” in un dato momento (ndr: che spesso tra l’altro è l’attimo in cui l’esploratore bianco sbarca sull’isola incontaminata e prende nota sul suo taccuino di quanto vede e sente). Si tratta quindi di un “restauro ecologico” vòlto per certi versi a emulare un passato comunque non più antico di 12mila anni fa (ossia relativamente giovane, perché “nessun ecosistema, definito dalla composizione delle sue piante, ha più di 12.000 anni”), che rivela incrinature nel momento in cui per esempio ci si trova a lavorare su spostamenti avvenuti in epoche così lontane de rendere impossibile estrapolare quelli derivati dall’influenza umana (l’albero di kukui, simbolo delle Hawaii, è un esempio). Conservare le specie tuttavia (2) significa anche eliminare gli intrusi, perché per i conservazionisti l’atto di rimozione di una specie non ha come fine il famoso viaggio nel tempo di cui sopra ma l’arresto di una o più estinzioni. Seguendo il filo rosso tracciato da Marris viene facile a questo punto ripensare alla serie televisiva Dark, nella quale ogni personaggio, spinto dal desiderio di tornare alla condizione precedente, operava modifiche nel continuum spazio-tempo che favorivano il proprio destino ma che andavano a danneggiare irreparabilmente la linea temporale di qualcun altro, giudicata minoritaria. Ciò che succede in Dark è esattamente quello che capita all’interno di contesti ambientali in cui venga determinata la necessità di distinguere tra esseri viventi non umani nativi e allogeni, peggio ancora nel caso in cui si venga a contatto con soggetti ibridi, che in questa fase evolutiva del nostro pianeta non sono rari. “I confini tra le specie possono essere labili” – avverte Marris – tanto che a volte esse sono più “concetti umani” che una realtà biologica. Spoiler: in Dark alla fine il bene trionfa, nei processi di eliminazione di specie un po’ meno, tra i patimenti orribili sopportati dai roditori avvelenati con il brodifacoum, le proteste degli abitanti di alcune isole neozelandesi secondo i quali l’eliminazione delle “specie invasive” (ritenuta per altro appropriazione culturale dato che per i nativi la caccia di alcuni animali ha valore rituale) di fatto copre le nefandezze dello sfruttamento intensivo del territorio, e la necessità di una biosicurezza intesa come una “vigile sorveglianza” inapplicabile nella pratica quotidiana. Per non parlare delle conseguenze ecologiche impreviste e potenzialmente catastrofiche (si veda l’infestazione di cespugli di more selvatiche sull’isola di Santiago) di un’eliminazione abborracciata.

“Quando siamo tentati di impedire il cambiamento di una discendenza o di evitare l’ibridazione delle specie, dobbiamo chiederci: stiamo davvero preservando la biodiversità con questi interventi, o la stiamo ostacolando?”

La pars destruens del saggio di Marris è corposa, come si vede. L’autrice si dice ancora nel mezzo delle riflessioni alla ricerca di una mediazione costruttiva che riesca a minimizzare il “residuo morale” e a coniugare il rispetto del “diritto alla sovranità” che ogni essere vivente non umano possiede con la responsabilità collettiva (perché va detto, di danni noi umani ne abbiamo fatti parecchi), nell’intento di costruire “narrative in alternativa”, in reciproco vantaggio. Se poi questo intento passi dalla teoria della “conservazione compassionevole” (che già si oppone concretamente alla biologia conservazionista ma che fatica a imporsi per via dei costi altissimi e dello scarso impegno delle istituzioni) o dalla manipolazione genetica – con le criticità che questa metodologia porta con sé, uplifting fantascientifico compreso, questo è ancora tutto da vedere.

“Anime selvagge” appartiene al genere della narrative non fiction ma, per temi e linguaggio, afferisce anche all’universo della saggistica tradizionale: abbiate quindi cura di dedicare a questo testo dei momenti di lettura attenta e meditata.