"Il Ciclope", di Paolo Rumiz

“A chi, come me, è nato in Adriatico, non la darete a intendere che i fari più belli d’Europa stanno in Bretagna o Cornovaglia. Sappiatelo, voi che amate il mare e vi fate infinocchiare dalle foto che glorificano torri oceaniche assediate dai marosi. Il Mediterraneo non è da meno” (pag.87)

Da diversi anni il giornalista triestino Paolo Rumiz – che, lo ricordiamo, da inviato speciale ha testimoniato attraverso i suoi scritti i momenti più salienti delle vicende mediterranee, dai conflitti balcanici agli eventi dell’Afghanistan – ogni estate intraprende un viaggio che poi riporta sulle pagine di Repubblica in forma di reportage a puntate.
Accompagnato da amici, poeti, registi, attori, scrittori e utilizzando i mezzi di trasporto più diversi (dalla bicicletta a una Topolino del ’53, dalla barca all’autostop) in più di dieci anni ha percorso migliaia di chilometri tra l’Italia e i Balcani, dall’Europa all’Artico, fino a Gerusalemme e Istanbul, con gli intenti più disparati: seguire le Alpi in tutta la loro estensione, raggiungere il sepolcro di Cristo, percorrere il lungo tragitto della Via Appia, visitare insediamenti industriali e civili in rovina. Da molti di questi itinerari sono stati tratti non solo delle inchieste giornalistiche ma anche dei docu-films alcuni dei quali presentati con successo di pubblico e critica.
Gita al faro
Nell’estate del 2014 Rumiz per la prima volta parte da solo, per trascorrere tre settimane su uno sperduto e deserto isolotto nel mezzo del Mediterraneo, all’interno di un impianto di segnalazione luminosa ancora attivo e comandato manualmente da un manipolo di guardiani in turnazione continua.

“Ora dovrei dirvi dove sono. Per esempio, che questa è un’isola lontana da tutto eppure al centro di tutto. Uno scoglio che, nonostante la distanza, è impossibile mancare. Dirvi che è microscopia, ma sulle mappe nessuno la dimentica, perché è un punto nave fondamentale. (…) Dovrei darvi le coordinate, latitudine e longitudine. Ma non lo farò. Non vi dirò nemmeno la nazione cui appartiene. (…). Non chiedetemi altro. Troppo facile, con i motori di ricerca. Bastano due-tre nomi e anche un bambino distratto ci arriva. Voglio che fatichiate a trovarla, che la navigazione si ardua, che vi perdiate nei libri prima che negli arcipelaghi. (…) Vi prego dunque, nel caso la trovaste, se siete affezionati alla mia scrittura e non volete che un luogo benedetto si invaso dall’orda degli infedeli, non ditelo a nessuno” (pag.17)

Nel volume “Il Ciclope”, edito da Feltrinelli come la maggior parte dei testi di Rumiz, il giornalista raccoglie in corpus le note di questo “viaggio immobile”, già pubblicate su Repubblica in precedenza.
L. Feininger

 

In realtà questo testo mi ha interessato non tanto per l’argomento in sé quanto perché esempio di un certo tipo di approccio al tema del viaggio, quello psicogeografico (che include anche, in questo caso, la prospettiva del turismo eco-compatibile), e inoltre per l’attraente assonanza tra le osservazioni di Rumiz e le caratteristiche che, almeno nelle opere di base anglofona, definiscono l’appartenenza al genere letterario definito del New Nature Writing.
Pronti, partenza, via
In completa antitesi con la formula contemporanea del mordi e fuggi all-inclusive, magari coadiuvata da qualche bel buono sconto per esperienze one-shot dichiarate imperdibili e relative foto sui Social, Rumiz celebra un turismo diverso, fatto prima di tutto di una progettualità che affonda le sue radici nel desiderio di trascorrere un tempo libero qualitativamente valido. Questo momento altro, che è segnato dalla consapevolezza per lo spazio e il tempo che ci si trova a occupare e che mira a evitare la trappola dello sfruttamento consumistico del territorio, è oltremodo speciale nel caso di Rumiz, il cui interesse si concentra soprattutto nei riguardi dell’interazione tra le vicende umane e lo spazio terrestre all’interno del quale si sono svolte, con particolare attenzione verso la Storia, antica e moderna.

 

 

Fa il resto l’approccio giornalistico del professionista che è caratterizzato da un impegno costante per la ricerca, la scoperta, la documentazione e la condivisione del sapere.
In questo caso tuttavia Rumiz va ancora oltre, scegliendo deliberatamente un luogo di reclusione assoluta all’interno del quale l’esperienza del viaggio – che occorre porti con sé non tanto avventure da spartire sul momento quanto conoscenze da condividere in seguito, una volta elaborate – diviene di necessità un percorso intimo all’interno di se stessi.
La reclusione è anche l’occasione per riflettere su analoghe esperienze passate ed è su questi racconti, trasfigurati nel più puro stile marinaresco, che si concentra tanta parte del reportage di Rumiz. Ecco allora la mente si affolla di ricordi: vecchi lupi di mare che in osterie fatiscenti, davanti a un buon bicchiere di vino, raccontano di naufragi e bastimenti fantasma affondati al largo di coste perigliose; luoghi remoti visitati da solo o grazie al talento dei compagni d’avventura (qualcuno dei quali anche in grado di recitare l’Odissea a memoria): le coste e i faraglioni del Pembrokeshire, nel Sudovest dell’Inghilterra, le acque attorno a Itaca fino a Corinto, Mikonos e le Cicladi, la visita alle rovine del carcere dell’Asinara; una gita a Capo Colonna, sulle orme di Annibale; quella al faro disabitato di Capo Trionto, a nord di Crotone; la spedizione a Point Hope, nell’estremo nord dell’Alaska.
E’ la perizia di skipper consumati, di maestri di vela, di anziani capitani in pensione che attraverso l’arte del racconto e del passaparola tessono una rete fittissima di notizie, rimandi, suggestioni che a poco a poco, con la lentezza vecchia di anni tipica del racconto orale di matrice ellenica, avvicinano Rumiz alla meta desiderata che si fa via via più vicina in un continuo “approccio pelagico” lontano anni luce dall’insipida rapidità del click al computer.

“La scelta di venire in questa Isola misteriosa la devo anche a un grande narratore di mare, Antonio Mallardi da Bari. Difficilmente conoscerò un’anima più omerica della sua. Pescatore, contadino, violoncellista, maestro d’ascia e consulente editoriale, ha inseguito dentici e murene dalle Tremiti alle Jonie e oltre ancora, fino al mare infuocato di Haifa. Con Fosco Maraini ha circumnavigato Itaca sott’acqua, una settimana a caccia di pesce di scoglio, con una barca d’appoggio. (…) Anche lui, cinquant’anni prima, aveva sognato di fare il guardiano di un faro. Gli mancava solo quello, nella sua vita inquieta. Il ministero della Marina lo aveva chiamato a sostenere gli esami e lui l’aveva detto a Mara, sua moglie. “O me, o il faro”, era stata la risposta. E così il desiderio inappagato è rimasto a covare in lui nelle notti di vento” (pag.22)

 

E. Hopper (@HopperAtoZ)
A ciascuno il suo (di New Nature Writing)
Su Medium, a proposito di tutt’altra narrazione – (fiction vs. non-fiction, e anche qui sta anche un po’ il succo – si rifletteva sulla declinazione nostrana del tema del New Nature Writing. Se per gli scrittori d’oltreoceano il NNW si definisce nel rapporto tra una natura aliena e insondabile e un’Umanità sempre meno propensa (e sempre più incapace) a comprenderla, probabilmente per noi il canone si svilupperà – parlo al futuro perché nessuno ha ancora provato a stilare un elenco – tenendo conto del ruolo che l’uomo ha, o ha avuto, sul nostro territorio, specie per quanto riguarda il rapporto con il Mediterraneo: e i reportage psicogeografici ne sono (forse) un esempio. E’ comunque stupefacente osservare come certe suggestioni travalichino geografia e generi letterari, ad esempio accomunando la scrittura del californiano Jeff Vandermeer, visionario, prolifico e apprezzatissimo sci-fi writer, con l’esperienza del più anziano Rumiz, appartenente a tutt’altra scuola:
  • l’idea di una natura che cerca in ogni modo di riprendersi i propri spazi difendendo se stessa dall’invasione dell’uomo (“Il mare si svuota: e a ripulirlo non è la pesca dei miei due simpatici bucanieri, ma quella industriale e sistematica. I tre-quattromila gabbiani sulle praterie e gli strapiombi non hanno quasi più niente da mangiare in acqua e cercano cibo in terraferma. Qualsiasi cibo. Sono diventati feroci. Da allora molto è cambiato per me. La natura, cui all’inizio avevo guardato con l’imbecillità contemplativa dell’uomo urbanizzato, si è svelata tutt’altro che pacifica. (…) Il loro urlo senza voce dice che in trent’anni il Mediterraneo si è svuotato del settanta per cento della sua ricchezza ittica. Me l’aveva svelato Tamara Vucetic, biologa marina croata, durante un viaggio in Dalmazia” [pag.65-66] “Siamo pieni di paure, certo, ma paure di cose senza significato, e le paure a vuoto si chiamano paranoie. Ci manca il timore vero, quello supremo. L’orrore di noi stessi, incapaci di sentire il grido della natura che boccheggia (…). [pag.69])
  • un viaggio che è esplorazione e racconto, pieno di note e diari (“Rileggo il diario di quel primo giorno. Frasi brevi, quasi degli haiku” [pag.13]); una meta che si distingue più per quello che non è, un non-luogo denso di storia che crea nel visitatore uno sdoppiamento dell’individualità (“Troppo improvviso il passaggio dal pieno al vuoto di questo luogo. Forse è il corpo che tenta di resistere al risucchio del nulla. Perché davvero, qui, se sei solo, rischi di diventare matto. Parli con te stesso, ti viene naturale, e non ti accorgi di farlo per il semplice motivo che hai il tuo Doppio accanto” [pag.15]) ; l’archetipo dell’Isola, quasi una creatura senziente gettata di traverso a intersecare coordinate universali altrimenti imperscrutabili (“Per leggere ora devo accendere la lampadina frontale. Sento che l’Isola è un sensore nell’universo che la circonda. Un’antenna parabolica di pensieri vaganti” [pag.92] “La torre solitaria in cima alla montagna è un ripetitore di suoni ultraterreni, un’antenna sintonizzata su frequenze non udibili ai vivi” [pag.114])
  • il misticismo religioso, l’esigenza di contatto con il divino e la ricerca di un significato superiore (“Qui sei un miserabile nulla davanti all’immensità della natura. (…) Quanto ci farebbe bene, penso, un po’ di sano, superstizioso timore dell’ira d’Iddio – o degli dei – per guarire da questa oscena sicumera che nasce dal sentirci garantiti e sazi in un mondo pieno di strepito e incoscienza” [pag-15]); il faro come luogo di culto, legato non solo al divino tradizionale (sia esso Cristiano, Musulmano o pagano) ma anche a una dimensione ultraterrena che affonda le sue origini nel mistero (“Non so perché ci ho messo tanto a guadare dentro i cristalli concentrici dell’apparato ottico. (…) Quel capolavoro millimetrico ti costringeva quasi a prostrarti, come davanti a una divinità, un enigma. O la pupilla di una sfinge” [pag.53-54])
  • l’inesprimibilità dei concetti, la meditazione sul linguaggio e in generale sulla lingua (“A ripensarci, mi rendo conto di non aver scritto io questa storia. Sono stati il vento e la marea. Io non ho fatto che registrarne la voce amplificata dal ventre cavo della torre” [pag.14] Ho anche la sensazione che il mare aperto lentamente disidrati i pensieri, renda superflua la sintassi, le spiegazioni, come se fosse vano comunicare l’incommensurabile. (…) Scrivo per disciplina, per mestiere o per autosuggestione. Scrivo perché lascio che sia il mare a dettare la storia. Ma sento che, se davvero non opponessi resistenza, quello stesso mare mi porterebbe pian piano al silenzio” [pag.93])
Una nota a parte merita la riflessione, sempre presente ma mai né ridondante né stucchevole, sulla storia e le civiltà del Mediterraneo che da sempre, e per millenni, ha ricoperto l’importantissima funzione di crocevia e luogo di scambio di lingue, culture, mestieri e materie. E’ un tema chiaramente difficile da affrontare, specie di questi tempi; Rumiz lo gestisce con sapienza e serietà, senza mai abbandonare una certa leggerezza di approccio (cfr. il capitolo “Ego Adriaticus Sum”), che doveva necessariamente caratterizzare questo reportage.
 
L’unico appunto al testo potrebbe derivare da una fruizione che evidentemente non è per tutti, in special modo per coloro che non provengono dall’area delle lettere classiche. Non solo perché il testo è denso di rimandi espliciti ma anche impliciti alla grecità antica in tutte le sue forme – storia, arte e letteratura – ma anche perché la lettura di alcuni punti necessita, per essere apprezzata appieno dal punto di vista stilistico, di una parziale sospensione del giudizio. Mi riferisco in special modo alle parti relative ai racconti in stile marinaresco e alla poetica che ruota intorno al cibo e al nutrimento: due temi per i quali Rumiz utilizza un linguaggio ricercato, costruito e arcaicizzante che mira alla creazione di particolari corrispondenze mentali. Tali assonanze tuttavia risultano evidenti soltanto a chi è pratico di certi studi mentre c’è rischio che vengano fraintese e interpretate solo come uno stucchevole gioco letterario da parte di orecchie meno allenate. 
 
Buona lettura