“Nina sull’argine”, di Veronica Galletta

“O forse è se stessa che non tollera, il ruolo che adesso si ritrova a interpretare, che la tiene così lontana da tante cose in cui ha sempre creduto, che la costringe a osservare tutte le sfaccettature di una questione, alla ricerca di una impossibile sintesi, in cui tutti sono liberi, tranne lei.”

Caterina Formica è ingegnere, specializzata in idraulica fluviale e dipendente di un ente pubblico. Finalmente, dopo mesi di anticamera, attese e demansionamenti, ottiene il primo contratto importante: si occuperà della costruzione dell’argine di Spina, piccola frazione di Fulchré, nella pianura padana. Equità, merito e competenza tuttavia c’entrano poco: l’argine di Spina, banalmente, è parte di quel mazzo di commesse riassegnate d’ufficio ai pochi professionisti rimasti estranei al processo per tangenti che ha visto coinvolti diversi colleghi di Caterina, dirigente incluso.

Il mondo in cui Caterina si muove è quello dell’edilizia e dei cantieri: luoghi prettamente maschili, sovente assoggettati a meccanismi di tipo clientelare, all’interno dei quali le relazioni spesso obbediscono a rigidi criteri di norme non scritte e l’ingegnere, sulle carte progettuali responsabile del processo decisionale, si trova di fatto a scontrarsi e dipendere da impedimenti di ogni tipo. Dalla gestione della manodopera in subappalto irregolare alla resistenza passiva del comitato ambientalista, dalle maldicenze dei colleghi invidiosi alle lungaggini e omissioni, casuali o volute, di quel pachiderma iperparcellizzato che è la pubblica amministrazione, ecco che le giornate in cantiere, già complicate per via del carattere stesso del mestiere, diventano una serie infinita di ore alienate e alienanti – sotto il sole impietoso dell’agosto in pianura, nel tormento delle punture d’insetto, coi piedi gelati a mollo nella neve e il vento dicembrino che sferza le orecchie.

“Costruire un argine è una cosa complessa. Bisogna calibrare bene la quantità di terra fin dall’inizio, evitare le corde molli, prevenire i dilavamenti. Perché se si forma una breccia, puoi anche riparare, ma qualcosa rimane. Perché non basta ridipingere la casa e spostare tutti i mobili. Chiudere le fotografie di prima in un cassetto. Anche con la casa tinta e bianca come la sua vita adesso. Pulita, ordinata, lineare. Una traccia rimane. L’argine lo sa. La memoria rimane.”

“Nina sull’argine”, insomma, si inserisce perfettamente all’interno della tradizione italiana della narrativa industriale, della quale riprende in forma convenzionale ma anche nuova tutti gli argomenti. Ci si accomoda proprio, in quel solco che, segnato dai “Tre operai” di Bernari (1934) e passando da Ottieri, Bianciardi, Volponi ma anche Calvino o Sereni e infine Rea (che nel 2002 con “La dismissione” definisce il confine ultimo del genere), arriva fino a Pennacchi, Avallone, Prunetti, Raspi e tanti altri, e che per tutto il nostro Novecento e oltre ha reso testimonianza e trasfigurato in forma letteraria il mondo della fabbrica sia in chiave critica denunciando le contraddizioni, i limiti e la psicopatia del capitalismo industriale, sia interpretando l’officina industriale come uno strumento di autodeterminazione, emancipazione sociale e lotta di classe.

“È un uomo di mezz’età, una caratteristica comune per lo Stato, che fa un concorso ogni quindici anni, e che considera lei sempre giovane. Rappresenta quella parte della macchina che vive di vita propria, con un’inerzia tenace e proterva. Caterina vive sempre questo doppio sentimento. Da una parte la voglia di mettersi di traverso, in un mondo in cui non sa mai bene come collocarsi. Poco esperta, eccessivamente qualificata, ha studiato troppo, e le cose sbagliate. Dall’altra la voglia di ritirarsi, di nascondersi. Come se ci fossero sempre due Caterina. Una parla e l’altra la prega di stare zitta. Chiude gli occhi, li riapre. SI sente soffocare dentro i cattivi pensieri.”

Gli argomenti che Veronica Galletta affronta con “Nina sull’argine” si possono raccogliere in tre macro aree: il topos del cantiere, l’alienazione individuale e la denuncia sociale.

Nel primo gruppo rientrano le riflessioni sul tema della professionalità. La strenua e orgogliosa difesa del proprio saper fare un mestiere – non scevra comunque da un’autocritica invasiva, ma lo vedremo più avanti – passa in primis dall’uso di un linguaggio tecnico strettissimo (“casseforme, pile, casseri, compattare, piana, cordone morenico, rilevato in sponda sinistra, alveo, golena, linea di sponda…”) che se nelle prime pagine spinge il lettore a una certa, voluta irritazione, successivamente diviene limpido nello scopo che si prefigge, ossia la rivendicazione di un ruolo e di una autorevolezza che sgombra il campo dalla tuttologia e dalla discussione da social (ben rappresentata dal bar del paese, croce e delizia di Caterina tra Luisone di Benniana memoria, i “non sono architetto ma…” dei pensionati brontoloni e le più assurde fake news complottiste) per restituire a qualsiasi professione ben imparata e ben esercitata la qualifica di “fatto a regola d’arte“. Di contro, è anche rappresentato l’elemento della perdita di questo ben fare soppiantato da figure professionali inadeguate per causa di ritmi d’usurante precariato all’interno del quale, peraltro, il mancato scambio generazionale preclude la formazione sul campo. I sentimenti di malinconia e di rincrescimento (per l’Antonio, abile operaio anziano costretto al più umile dei demansionamenti per non aver tradito un collega, o per il Mario, il gruista svitato senza il quale il geometra Bertini no, le travi di acciaio appena arrivate col trasporto eccezionale non si sogna di farle posizionare) si fanno quindi anello di congiunzione tra primo e terzo gruppo di argomenti, il più ancorato al nucleo della narrativa industriale: quello della denuncia sociale. Critica che per Galletta si esplica prima di tutto – e sta qui il vero rinnovamento – nella racconto della condizione femminile all’interno del macrocosmo dell’edilizia, spazio chiuso e autoreferenziato in cui le professioniste vengono guardate con malcelato sospetto, sono vittime di battute più o meno volgari o sessiste, sistematicamente diffamate e lasciate in disparte tramite i giochetti più subdoli. Spezzano l’esperienza in cantiere i bei capitoli sulla vita in ufficio che danno spazio anche ad altre sfaccettature tematiche tra cui la stagnazione politica (quella sì, fatta a regola d’arte!), l’organizzazione interna che punta a una sostanziale microvivisezione delle competenze con il dichiarato scopo di rendere nullo qualsiasi processo di attribuzione delle responsabilità individuali, la necessità del compromesso nell’impossibilità di corrispondenza tra i propri ideali e la pratica del quotidiano. Non mancano, specie nei capitoli finali, le riflessioni sul welfare e sulla condizione dei lavoratori irregolari sottomessi alle dinamiche del caporalato.

Il punto che fa di “Nina sull’argine” un compiuto romanzo industriale è il terzo gruppo di argomenti, al quale afferisce la vita privata e interiore della protagonista. Caterina è siciliana, straniera in terra lombarda di paesotti e pettegolezzi che fatica a comprendere ma con cui deve per forza interagire. Sta con Pietro ma la lunga relazione è agli sgoccioli, i genitori sono lontani, di amiche c’è notizia vaga: è il cantiere – che brucia ore, giorni, mesi e anni, che mastica ogni minuto libero, che invade persino i sogni, che fa ammalare, e che sì, a volte uccide. La stanchezza di Caterina (le ore di solitudine in automobile, ferma all’autogrill per l’ennesimo caffè, il ritorno in un appartamento vuoto e freddo, la vita sociale limitata dagli orari durissimi e dalle distanze), l’ansia da prestazione, il timore di fare male – che non può essere condiviso – è di contrappunto a chi davvero in officina ci ha lasciato la vita, tanto che “il morto in cantiere” è proprio l’ombra ricorrente di Caterina (che quando squilla il telefono sempre teme la notifica una disgrazia), o a chi per colpa del cantiere s’è alienato a tal punto da cadere nelle dipendenze o a chi, per seguire il cantiere, ha trascurato la famiglia fino al divorzio.

“Nella polvere del pomeriggio Caterina si incammina verso il fiume per dare un’ultima occhiata alla protezione antierosione. Sono le cinque oramai, e il cado impastato di polvere rende l’aria incerta. Poco distante si intravede il luccichio del fiume che scorre verso valle.”

Eppure il cantiere rappresenta anche, nell’eredità di Calvino, il luogo della rinascita personale. Attraverso l’esperienza sul campo, l’interazione con colleghi e maestranze nella quotidianità di un lavoro di squadra che non ha nulla a che vedere con l’asettico team di un paradigma importato ma ha molto a che spartire con l’idea del conoscere e del condividere, attraverso l’autocritica personale e la capacità di stringere un rapporto intimo ma rispettoso con l’ambiente naturale [nota: che assume in certi punti il carattere di uno spiccato new nature writing che disgrega e poi ricostruisce il panorama della letteratura industriale classica in cui si alternavano impostazioni fortemente neorealistiche e posizioni dicotomiche fabbrica/natura], Caterina in qualche modo recupererà gli argini, non solo del fiume ma anche i propri, ri-definendosi e regalandosi spazi aperti ma anche confini. Perché

“I fiumi sono sempre liberi, pensa Caterina. Basta osservarne le sovrapposizioni del tracciato nei secoli, ed ecco che emergono le costrizioni, gli avanzamenti dell’uomo, le zone in cui il fiume si è allargato di nuovo a forza, piena dopo piena, in un mescolio di colori molto eloquente, per chi ha la pazienza di decifrarlo.”

“Nina sull’argine” è uno di quei libri che sarà bello rileggere, a distanza di tempo e a dispetto del tempo, perché invecchierà bene. Per recuperare i dettagli, cercarne di nuovi – quelle piccole dimenticanze figlie di una lettura vorace che non può abbandonare l’urgenza e la fretta di sapere – ritrovare le ombre.

“Non è facile accettare il cambiamento. Non è semplice accettare che il paesaggio intorno si trasformi (…). Più del cambiamento fa male l’annuncio del cambiamento, il suo diluirsi nel tempo, l’incertezza del procrastinare. Certi errori si fanno una volta, poi si impara.”

La lettura di “Nina sull’argine” è stato un caso fortuito e tale deve rimanere. Qui la storia di come sono arrivata in possesso di queste pagine e qui di come queste pagine, arrivate in sorte, per sorte continueranno a girare.