“Non oso dire la gioia”, di Laura Imai Messina

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“Ha vissuto così a lungo nascosta che ora tutto le sembra tempesta. Questo vento che scaraventa, percuote, scuote le spalle, disturba” (“Non oso dire la gioia”, Kindle, pos. 4413)

“Quando ero sola sbarravo porte e finestre, mentre i sospetti mi si incistavano in testa. Avevo nausea per le oscillazioni degli alberi nelle scariche di vento” (“La vita lontana”, pag.44)

“Esperta dei loro umori, m’illudevo di conoscerli alla perfezione” (“La vita lontana”, pag.81)

“A nessuno si augurano errori madornali come a chi non sembra farne” (“Non oso dire la gioia”, Kindle, pos.2897)

Credo poco nelle coincidenze, specie quelle che hanno a che fare con i libri – con quei libri che trasudano lo sforzo che fanno per essere trovati, essere letti. Mi domando se non ci sia un nesso, o meglio una convergenza, che si fa mia, intendo: un percorso di acque carsiche che in qualche modo io stia seguendo, inconsapevole.

Tutto è cominciato con “L’estate muore giovane“, una storia cruda di bambini venuti su troppo in fretta sotto il sole caldissimo di un passato italiano così difficile da vivere, figuriamoci da dimenticare. Ho continuato poi con “La vita lontana“, una specie di confessione intima e urticante scritta da una madre ormai matura, col cuore straziato dai rimorsi e dai rimpianti. E tanto il passaggio da Sabatino a Pecere era stato consapevole e strutturato, dettato dal desiderio di restare ancora per un po’ a camminare nel solco della narrativa contemporanea italiana (ndr: indipendente) e dalla necessità di approfondire ancora gli stessi temi (quali, di preciso, va detto che non sapevo), tanto è stato inconscio e viscerale lo scivolamento verso “Neghentopia“. Che non è altro se non la favola truce di un ragazzino che, per garantirsi la sopravvivenza – fisica e mentale – uccide i propri genitori, in tutti i modi in cui possono essere uccisi e poi dimenticati. Lì, tra le pagine finali di “Neghentopia”, ho intuito per la prima volta che quello che mi interessava davvero non era tanto il soggetto familiare quanto, nel dettaglio, il tema dell’allontanamento dei figli dal nucleo familiare e dall’influenza genitoriale.

“La maternità, lo sente, la sconfigge in ogni forma” (cit. , Kindle, pos.1142)

E poi è arrivato “Non oso dire la gioia“, a confermarmi che ciò di cui ero alla ricerca aveva a che fare con la genitorialità: il modo in cui i figli li si cresce attraverso quello sforzo di continua, incessante e quotidiana correzione di rotta che viene chiamata, pomposamente, “educazione” ma che assomiglia di più a una scalcagnata barchetta lignea in balia dell’oceano, che cerca disperatamente di tenere la rotta verso la terraferma alla mercé di maree, vortici, tempeste e finanche qualche coccodrillo uscito da chissà dove.

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“Perché la violenza è un contagio. E la famiglia ha maglie larghissime, così che l’odio, e l’amore, e la viltà, e ogni emozione che germoglia nella madre, e poi nel padre, passa ai figli, e vi si insedia senza antidoto né soluzione” (cit. , Kindle, pos.1024)

Si dice spesso che per un romanziere la seconda prova sia la più difficile. Non so se Laura Imai Messina l’abbia percepito così, questo suo secondo romanzo, o se abbia prevalso il senso della creazione in sé dell’opera, un parto intellettuale che ha accompagnato la fisicità della gravidanza e della maternità. Ho la presunzione di pensare che sia stato un po’ così – ma solo per via del fatto che, nel caso, mi troverei a condividerne l’esperienza. Il voler fissare per iscritto non una storia qualsiasi ma come fosse un pezzo della propria, come un diario, quasi che la scrittura, cesellata e limata negli spigoli e per questo fattasi così tagliente, sia il modo attraverso cui rendere espliciti i timori e le inquietudini che riempiono le future madri durante il periodo dell’attesa (Sarà sano? Sarò ancora bella dopo il parto? Sarò in grado di occuparmene? Perché ho desiderato tanto questo figlio, eppure sento quasi il bisogno di tornare indietro e riavvolgere il nastro? Crescerà bene? E se qualcosa non andrà come deve, durante il parto? Stanotte ho sognato di essere al mare, sulla spiaggia. Era bel tempo, ma poi all’improvviso si è sollevata una grande onda di acqua, una massa gigantesca di materia densa e trasparente, che voleva ingoiarmi).

“Nutriva il costante timore che Marcel si ferisse, che qualcuno lo rapisse, che un incidente banale lo uccidesse. Era dalla vita che lo voleva tenere lontano, quella cosa da cui lei stessa non conosceva protezione. Quanto poco doveva esserselo goduta da bambino, quanto affanno doveva aver provato fino a che non s’era fatto adulto e indipendente” (cit. , Kindle, pos.3413)

Attraverso le storie di quattro personaggi a cavallo dei trent’anni – storie che si intersecano l’una con l’altra in un modo di cui qui non si può dire – l’autrice affronta il tema dell’essere genitore, che in sé ne contiene molti altri, dalla scelta di diventarlo sino a cosa capita quando invece questa libertà di preferenza è preclusa, in un modo o nell’altro. Passando per tutti i “rimpiantivi” che inevitabilmente ogni sistema educativo porta con sé.

“Piange per quanto è perduto, per la nostalgia di quando la responsabilità era sempre di altri, per la poca fiducia che sta concedendo all’uomo di cui è innamorata, per il pericolo che ogni inganno porta con sé” (cit. , Kindle, pos.2865)

Credo che il nucleo fondamentale di “Non oso dire la gioia” sia proprio il desiderio dell’autrice di “rimettere tutto a posto“; di figurarsi un mondo in cui, nonostante tutto, si possa ricominciare e all’interno del quale ogni errore sia se non rimediabile, almeno accettabile. D’altra parte, il “bambino immaginato” non è cosa nuova (Silvia Vegetti Finzi lo chiama “il bambino della notte“, in un testo diventato ormai celebre) e parte del tempo della gravidanza – quell’ultima parte di “attesa” spesso tanto vituperata (Perché non resti al lavoro anche l’ottavo mese? Tanto l’alternativa è stare in casa a non far niente) – ho sempre avuto la convinzione che fosse in qualche modo biologicamente destinata a far germogliare non solo il feto ma anche l’intelletto.

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“Se uno può decidere cosa far ereditare al proprio figlio, la scelta è scontata. Le cose negative è sempre meglio tenersele per sé, anche a costo di mentire” (cit. , Kindle, pos.2186)

“Non oso dire la gioia” forse fa anche di più. Perché se l’autrice riesce da una parte nell’intento di rendere esplicita la dimensione genitoriale in tutte le sue forme e le sue paure, dal pre-nascita sino alla vecchiezza del genitore, dall’altra è in grado di creare una struttura narrativa e soprattutto stilistica che garantisce l’assoluta imparzialità di giudizio, attraverso la guida di un punto di vista esterno, collocato sempre “altrove“.  E’ questo, più che il proporre personaggi e situazioni culturalmente ibride date dalla dislocazione (e dicotomia) geografica occidente / oriente, a rendere l’autrice una scrittrice che appartiene a due mondi. E non è un caso che il senso del nonostante tutto di Pecere (la vita lontana in qualche modo, nella sua propria forma, diviene salvifica, nonostante il passato) si trovi a un certo punto a convergere e fondersi con quello di Laura Imai Messina (la vita futura in qualche modo, nella sua propria forma, andrà avanti, nonostante le cicatrici che si porterà inevitabilmente dietro): entrambi, guarda la coincidenza, hanno l’occhio rivolto lontano, là in fondo, in mezzo all’oceano. E ci vedono bene: forse davvero hanno tracciato la rotta per evitare le onde più grosse, i mostri marini e i coccodrilli.

“Senza saperlo si trovano a pensare la stessa cosa, ovvero che famiglia è forse allora la mancanza di confini, il non essere più in grado di stabilire con chiarezza l’inizio e la fine delle cose in una casa. Tutto piomba nel caos, nell’eliminazione sistematica della reciproca distanza, di quella sola cosa che sa separare e nella stessa misura avvicinare le persone. A star troppo vicini ci si fa male, a star lontani si soffre” (cit. , Kindle, pos.3765)

Buona lettura 🙂

ps. la questione “genitorialità”, ahimè per voi non è finita qui. Arriverà presto un nuovo (e forse conclusivo – almeno per il momento) capitolo.

"Tokyo Orizzontale", di Laura Imai Messina, e "Corpi di Gloria", di Giuliana Altamura

(Sembrano così gracili, questi giovani moderni. Forse lo eravamo anche noi, ma nessuno se ne accorgeva). 

“Ovunque cumuli di vita fragili e dispersi, ammassati in luoghi così distanti da non incontrarsi mai” (GAltamura, #CorpidiGloria, p172)

“Tokyo Orizzontale” e “Corpi di Gloria” sono due romanzi esemplari nel genere che rappresentano e non mancano di rivelare come il giudizio non smetta mai di dipendere oltre che da considerazioni oggettive e imprescindibili su forma e contenuto anche dall’approccio soggettivo e personale all’argomento proposto. In questo caso, verrebbe quasi da scomodare l’obsoleto e polveroso tema dello “scarto generazionale”. Ma tant’è.

Laura Imai Messina (Roma, 1981) e Giuliana Altamura (Bari, 1984) nelle loro opere prime sembrano confrontarsi – vien da dire rifacendosi al giornalismo sensazionalistico più tradizionale e scontato – con il tanto citato “disagio giovanile”.

LIMessina racconta l’esperienza alienante della mutazione tardo-adolescenziale del corpo e dell’anima, del sovraffollamento antropico e dell’iperstimolazione sensoriale. E lo fa prendendone a paradigma Shibuya, uno dei 23 quartieri di Tokyo, con una densità pari a 13mila abitanti/Km per un totale, in estensione, di 15Km circa, attorno al quale in un crescendo di casualità concatenate si snoda il fine settimana di quattro giovani di età appena post-universitaria: Sara e Carmelita, che si sono ritrovate a condividere l’esperienza di expatried, e poi Hiroshi e Jun, due Tokyoti dai caratteri e dalle esperienze familiari completamente differenti; il fato farà interagire tra loro queste quattro persone segnandone per sempre il destino.

GAltamura invece, anziché far esplodere la narrazione attraverso un susseguirsi di esperienze diversificate e altre, la fa implodere dall’interno – con le stesse, devastanti, conseguenze – attraverso l’antonomasia di Riva Marina, esclusivo resort pugliese, immutato e immutabile centro turistico villette-a-mare-con-piscina (di eccezionale e immediata Ballardiana memoria, per altro) all’interno del quale i ventenniGloria, Cristina, Nic, Dave, Andrea e Michael si ritrovano con le rispettive famiglie a trascorrere la consueta, rovente estate mediterranea, confrontandosi con l'(apparente) immobilità del reale e con l’horror vacui che da questa inerzia scaturisce.

Entrambe le scrittrici, attingendo a piene mani dal proprio vissuto, si misurano con quello che forse impropriamente si era definito “disagio giovanile”: patimento che a quanto pare (ad occhio adulto, almeno) non è ormai più prerogativa di una piccola minoranza di adolescenti e young adults ma di tutta un’intera generazione, senza limiti né di geografia né di estrazione sociale.

A far da padrona, declinata in modi e ambiti differenti, è l’angoscia per l’ignoto del futuro e per l’inconsistenza anaffettiva del presente, esorcizzata attraverso l’abitudine a comportamenti estremi capaci di offrire una sempre maggiore assuefazione adrenalinica o l‘illusione di un sentimentofinalmente condiviso e ricambiato: si va dall’abuso di alcool e di sostanze psicotrope al sesso promiscuo, occasionale e non protetto, all’inclinazione al bullismo e agli atti vandalici o di cyber-pirateria. Tormenti di medesima entità, espressi o nelle forme di un elegante e prestigioso zoo-resort in cui, tra piscine dall’acqua immobile e cristallina e spiagge bruciate dal sole si consumano esistenze “tirate a campare”, o nel chiasso e nella densità corporea della più estrema metropoli asiatica, tra atti erotici consumati a distanza di poche ore dal primo incontro e sbrigati in fretta in un love-hotel o nella toilette di un bar – in una dimensione atemporale in cui giorno e notte non hanno più alcun significato – drink ultra-alcolici tracannati d’un fiato, travestimenti sgargianti di paillettes, parrucche fluorescenti e violenze da bullismo di gruppo.

Elemento comune, l’entusiasmo per le infinite possibilità di realizzazione personale, professionale e affettiva che il mondo offre, o potrebbe offrire, irrimediabilmente inficiato dall’ossessione per il molteplice e per la naturale eterogeneità delle esperienze: diversificazione che dovrebbe condurre per natura ad un principio necessario di scelta consapevoleed altrettanto cosciente criterio di rinuncia ma che al contrario viene sostituita dall’inedia senza fine di giornate identiche l’una all’altra, sulle quali si innesta facilmente il germoglio del godimento adrenalinico. Da una parte, gli atti vandalici nelle ville dei vip condotti dalla banda di Riva Marina capitanata dal teppista Nic, che pochi sopportano ma che nessuno ha il coraggio di evitare. Dall’altra, la creazione del cliccatissimo website #TokyoOrizzontale ad opera di Jun, figlio viziato di un ricco imprenditore locale; una collezione di scatti notturni che impietosi (e in barba a qualsiasi regola sociale o norma etica) ritraggono decine di businessmen giapponesi sfatti dall’alcool: chi crollato a terra sulla banchina del metro, chi accasciato su una panchina di un parco, chi riverso in una pozza di vomito sul marciapiede di fronte ad un pub.

Ciò che spicca – sempre ad occhio adulto (ritorniamo all’incipit della nostra osservazione) – è la relazione problematica con il nucleo familiare di origine, sia nella presenza sia nell’assenza. I legami con i genitori e/o con i fratelli si rivelano in entrambe le opere intricati e di difficile gestione e non esiste alcun momento di difficoltà in cui il genitore venga eletto a figura di riferimentoné per un aiuto eventualmente pratico né per un conforto emotivo.
Parimenti, sembra totalmente assente anche il concetto della consequenzialità degli eventi e delle azioni: il nesso causa-effetto è sradicato dal suo originale contesto perché le azioni compiute valgono per il “qui e ora” e qualsiasi conseguenza è consegnata ad una riflessione da farsi in un “domani” che non si vorrebbe vedere mai trasformato in “oggi”, salvo poi ritrovarsi impreparati e smarriti di fronte allo svolgersi di un destino che viene subìto come inatteso – e talvolta immeritato – ma che invero porta le tracce di una facile prevedibilità, stanti le premesse che lo hanno generato.

Insomma, una formula per il buon esito dell’impresa pare non esistere affatto.
Semplicemente, c’è chi si salva e chi invece soccombe ad una giovinezza che – sembra – di bellezza e poesia ne ha ben poche e che assomiglia più ad una lottaper la sopravvivenza combattuta con violenza estrema e senza esclusione di colpi.

Se nell’opera di LIMessina si apprezza lo stile asciutto e cesellato, l’ampiezza raffinata del punto di vista e la coralità poetica dell’immagine, da cui traspare una profonda e sostanziale fiducia nell’Uomo e nelle sue creazioni, nel romanzo di GAltamura prevalgono i toni cupi, sia di forma, attraverso le descrizioni dell’estate mediterranea, brucianti, dense ed evocative, non prive di echi letterari, sia di contenuto, in uno scritto che non è soltanto romanzo di formazione ma anche thriller psicologico il cui finale aperto lascia spazio a riflessioni mai banali né scontate.

Buona lettura 🙂