“Una di Luna”, di Andrea De Carlo

“Non va bene proprio per niente, Margherita” ha detto lui. “Siamo su un piano inclinato che ci sta facendo scivolare dritti verso una palude medievale” (pag18)

Degli ultimi De Carlo s’è detto un po’ di tutto. S’è detto che gli argomenti tendono al ripetitivo, che le strutture formali più che consolidate dovrebbero essere definite meccaniche, s’è detto che De Carlo, abbandonata la vis polemica, corre il rischio di ripiegarsi su una certa “letteratura per signore”, producendo testi di qualità discontinua. Posto che Andrea De Carlo è sempre stato autore prolifico e che più aumenta la quantità più – è un fatto che vale per chiunque – aumenta la probabilità che non tutte le opere raggiungano il medesimo livello, posto che Due di due resterà sempre Due di due e fine della storia, personalmente non sono d’accordo con chi ne decreta il decadimento.

Le ragioni le ho (ri)trovate tutte qui, in questo ultimo romanzo che leggo con molto ritardo ma si sa, i miei libri prendono la strada che vogliono.

Andrea De Carlo non ha mai vissuto fuori dal concreto, anzi è uno dei pochi autori italiani attivi da decenni che, mi pare, si espongono a descrivere la realtà così com’è, evitando di rintanarsi nel racconto decontestualizzato – buono per qualsiasi luogo lago e pubblico – o in un passato di vagheggiamenti e recupero. Soltanto, De Carlo impiega i propri tempi per analizzare questi spazi che lo circondano – il che per quanto mi riguarda non è sempre un male, il rivendicare quel po’ di calma in più senza farsi prendere dalla frenesia del dire subito. Questa volta è per l’autore il momento del mondo rarefatto dell’alta cucina (non una novità per lui, da sempre interessato al cibo, alla questione di come ne fruiamo, di quel che c’è, dietro all’atto del mangiare), la cui analisi inserisce tuttavia in un contesto estremamente attuale, quello dell’overtourism culinario e dei reality show per aspiranti cuochi.

In una Venezia strapazzata dalle aspettative dei turisti low-cost, tra speculatori, incompetenze, traffico e confusione – ma anche silenzi e tramonti luminosissimi, profumi di frutta, verdura, erbe aromatiche e cassette di pescato – si snoda la vicenda della quarantenne Margherita, figlia unica del grande Achille Malventi, fascista, orfano, foresto a Venezia (è abruzzese), molesto, seccante, acido, caduto in disgrazia economica a causa dei suoi deliri di onnipotenza – ma chef illuminato, il migliore della città lagunare. Tanto che un suo ex allievo, divenuto una stella della televisione di tema gastronomico, lo invita alla trasmissione “Chef Test” per una dimostrazione culinaria agli aspiranti cuochi. Ovviamente data la caratura di Achille – che accetta la proposta unicamente con l’intento di mettere in ridicolo i colleghi e riaffermare il proprio ruolo all’interno del pantheon – niente andrà come deve andare.

“E’ vero che la mia apprensione nei suoi confronti si è accentuata adesso che è anziano e non ha più il suo ristorante, ma ce l’avevo anche quando era un energico chef sessantenne sulla cresta dell’onda, e io una ragazzina che non sapeva niente del mondo” (pag28)

“Una di Luna” è un breve romanzo familiare che con ironia e speditezza racconta una fetta consistente della nostra contemporaneità – almeno, quella pre-virus. Il racconto del set con le falsità del trucco e del montaggio, di quel – linguaggio – televisivo – che – si – fa – sempre – interrotto – e – scontato – nella – sua – spettacolarizzazione – drammatica, perché dipendente dalle pause a effetto della sceneggiatura e dai cartelloni del gobbo, va di pari passo col racconto della storia personale di Margherita grazie alla quale De Carlo riesce ad esplorare in maniera profonda e mai prevedibile quella parte dell’animo femminile che spesso resta intima, non condivisa. Ecco allora il rapporto col padre, ottovolante continuo di sentimenti impediti, e l’emancipazione attraverso il lavoro (cuoca anche lei, per nemesi – in un mondo di maschi). Margherita non è un personaggio costruito e la prova è data dal fatto che non si fa amare quasi per niente: è donna indecisa, talvolta molto poco politically correct, succube del padre, invischiata in un ruolo di sostituta consorte da cui non si capisce se non voglia o non possa svincolarsi, e da ultimo ma non ultimo incastrata in una relazione pluridecennale con un fidanzato più scialbo di lei. Unica redenzione è il lavoro, quell’eredità paterna di talento e intuito che l’ha resa indipendente e stimata all’interno di una dimensione di cucina che se da una parte non si avvicina certo al minimalismo di un poco spacciato per autentico, dall’altro ha l’intenzione di recuperare un approccio più genuino, etico, conviviale, si direbbe quasi sacro, con il nostro cibo e con le persone con cui lo condividiamo.

Qui, nel contemplare il dentro e il fuori, sta a mio parere la freschezza di un De Carlo che non ha perso quel piglio polemico di cui si diceva sopra ma lo ha soltanto trasformato, per via dell’età e attraverso un’osservazione del mondo che secondo me s’è fatta molto meno dipendente da quegli aut-aut che in certe opere degli anni passati – ecco lì sì – l’autore si poneva a criterio imprescindibile e di conseguenza stereotipato. Anche Achille Malventi è un personaggio poco costruito e proprio questa sua concretezza – tra crisi di ira malcontrollata, attacchi di isteria, vaghe amnesie geriatriche – per paradosso diviene in un certo senso l’espressione non di un tipo ma di un possibile futuro che riguarda noi tutti.

“Una di Luna” è un bel libro pre-pandemia perché ci fa pensare in qualche modo anche al dopo. E’ uno di quei libri che forse aveva cercato di avvisarci dell’uragano imminente. Chissà che De Carlo non possa diventare, proprio lui, col suo stile lungo e scivoloso, di paratassi e aggettivi, col suo sguardo del dentro che non manca di riflettersi nel fuori, uno di quei pochi scrittori (e scrittrici) che saranno in grado di raccontarci il virus – sì, tra qualche anno, non proprio subito.

Nota: ho letto “Una di Luna” anche perché racconta di Venezia. Venezia che quest’anno non potrò andare a trovare, Venezia allagata, Venezia dove tutti quelli che conosco vanno perché fa figo ma dove nessuno di quelli che conosco è andato per dare una mano, quando quest’autunno ha rischiato di scomparire sommersa dalla marea. Venezia chiusa e vuota dopo il virus, prosciugata dai turisti, il cui esserci e non esserci è sempre e comunque condanna. Non sarà l’unico libro che leggerò quest’anno su Venezia, ne ho altri sul comodino, vedremo quale strada prenderanno.

"L’imperfetta meraviglia", di Andrea De Carlo

“Hanno una minima idea di chi sia davvero, al di là del personaggio che recita in pubblico? Almeno i più devoti e perseveranti tra loro, quelli che lo seguono da decenni, che hanno ascoltato tutte le sue canzoni, letto tutto quello che hanno scritto su di lui, visto tutte le foto e tutti i video?”

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Intro
Con i primi romanzi (1980-90) il trentenne De Carlo aveva scelto di dedicarsi al racconto delle esperienze giovanili, attingendo a piene mani dal proprio vissuto: i viaggi in America, le vacanze on the road, i rapporti di amicizia post-adolescenziali, le prime relazioni amorose, il confronto con l’età adulta.
In queste opere, da “Treno di panna” a “Uto”, sono presenti con qualche eccezione (ad esempio “Yucatan”, che ripercorre il viaggio in Messico fatto con Federico Fellini) tutti i temi cari al De Carlo degli inizi, condivisi da gran parte della sua generazione: dalla critica nei confronti di un sistema scolastico obsoleto ai primi approcci con una globalizzazione agli inizi, fino alla sperimentazione di nuovi stili di vita vòlti a coniugare il progresso incipiente con il pesante lascito della cultura hippie ormai trascorsa.
Ciò che caratterizza tutta l’opera di De Carlo è in effetti il processo di estrema contestualizzazione a cui vengono sottoposte le trame: un espediente attraverso cui l’autore è riuscito – consapevolmente o meno – nell’impresa di far crescere il proprio mestiere di scrittore all’interno di una precisa nicchia di pubblico, specie per quanto riguarda le prime opere  nelle quali i lettori di De Carlo si riconoscevano pienamente (temi che oggi, va detto, non presentano il medesimo appeal per un target coevo).
Abbandonato il filone delle esperienze giovanili – che per definizione prima o poi sono destinate a concludersi – a cavallo del millennio De Carlo pubblica una serie di romanzi dall’aria più rarefatta e meno coesa. Momenti di sperimentazione, forse gli anni in cui il lettore decarliano arranca di più, sforzandosi a seguire l’autore tra linee narrative non sempre facili da identificare ed esperimenti crossmediali (basti pensare a “Pura vita” e “I veri nomi”, gli unici due testi pubblicati con Mondadori).
Sono le opere degli ultimi anni, a mio parere, ad aver riacquistato una certa corposità e ad aver recuperato i temi degli inizi che però De Carlo è riuscito a rimodellare e quasi a liberare dagli stereotipi che negli ultimi tempi avevano in parte caratterizzato la sua scrittura, affievolendola forse un poco.
E’ innegabile che la platea di De Carlo sia cambiata nel tempo (vedasi la varietà di pubblico che affolla ogni sua presentazione e le critiche spesso discordi che accompagnano ogni nuova pubblicazione) ma è importante osservare che le modifiche di target non sono tanto il frutto di una decisione a tavolino (figurarsi!) quanto la conseguenza di una delle caratteristiche intrinseche della scrittura decarliana, ossia l’aderenza tematica all’esperienziale. Se a ciò si aggiunge anche la questione dello scarto generazionale si capisce bene perché talvolta si ha l’impressione che più si va avanti e più De Carlo diventi uno di quegli autori che se lo segui dagli inizi lo capisci, altrimenti anche no.
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“Sì, ma il senso di continuare a farlo? Le cosiddette ragioni? Quanto convincenti possono essere ancora canzoni come Hard Hard Hard o One Push Too Far o On The Brink, ascoltate da qualcuno che non sia preventivamente conquistato alla causa? Tutte quelle rappresentazioni di stati d’animo adolescenziali, in una gamma che va dalla frustrazione sessuale all’insofferenza sociale alla lamentela puerile, non sono ridicole in bocca a un uomo maturo, più che ricompensato da una società contro cui agli inizi si scagliava con rabbia iconoclasta? Come fanno una diciottenne o un diciottenne di oggi a prendere per buone le sue critiche – generiche – allo stato delle cose e i suoi inviti – altrettanto generici – alla rivolta?”
 
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“L’imperfetta meraviglia”
E’ il caso de “L’imperfetta meraviglia”, a cui De Carlo passa il testimone direttamente da “Villa Metaphora” e da “Cuore Primitivo“.
Milena Migliari, un’artista del gelato artigianale più vicina ai quaranta che ai trenta, incontra del tutto casualmente lo scozzese Nick Cruickshank, attempato frontman del famosissimo e alternativo gruppo dei Bebonkers. L’azione si svolge ai giorni nostri in una Provenza novembrina svuotata dei turisti; nell’arco di un fine settimana sia il cantautore, stanco del proprio successo e dell’entourage che lo circonda, sia la gelataia proprietaria de La Merveille Imparfaite, dovranno prendere decisioni importanti e irreversibili: Nick si sposerà – il suo terzo matrimonio – con l’algida e iperattiva Aileen, fidanzata e socia in affari, e Milena comincerà le procedure per sottoporsi alla fecondazione assistita, spinta non da un desiderio intimo di maternità, che anzi rifiuta, quanto dalla caparbietà e dall’entusiasmo della compagna Viviane, da cui si è lasciata convincere. Una relazione omosessuale inaspettata, cominciata quattro anni prima a seguito di una serie di delusioni sentimentali.
Entrambi i protagonisti, trascinati alla deriva da una serie di eventi e decisioni concatenate tra loro, prese forse con eccessiva avventatezza, si troveranno a confrontarsi l’uno con l’altra, terrorizzati di fronte alle strade senza ritorno che stanno per intraprendere.
Solo all’apparenza di uno sguardo da neofita la trama potrebbe dirsi minimale e abbastanza ricorrente (la dinamica della coppia “scoppiata”); invece, tutto si può dire tranne che De Carlo pecchi di codardia o di mancanza di originalità.
A far la differenza ancora una volta l’attenzione al concreto e all’attualità che costituisce l’ossatura del testo. In “Cuore primitivo” essa era rappresentata dall’analisi dei rapporti tra classi sociali diverse, nonché dal tema dell’ecologia e dell’utilizzo consapevole del territorio, mentre in “Villa Metaphora” l’autore si era focalizzato sul mondo della politica e dello show-business. Ne “L’imperfetta meraviglia” l’attenzione di De Carlo si concentra su alcuni temi a dir poco scottanti.
Spiccano ad esempio le riflessioni sulla necessità imprescindibile di una trasmissione etica del sapere (che deve riguardare qualsiasi forma di espressione artistica dalla scrittura alla musica fino al lavoro artigianale) a cui segue un’ironica ma non meno feroce autocritica:

“Non prova pena e imbarazzo per i suoi colleghi che recitano all’infinito la parte che si erano inventati agli inizi, anche se non corrisponde più per nulla al loro attuale ruolo nel mondo?” (pag102)

“L’integrità artistica è quasi sempre un atteggiamento, quando non un alibi per falliti” (pag104)

“Ci sarà di sicuro chi dirà che i Bebonkers sono meravigliosi perché suonano ogni pezzo come sempre, chi dirà che sono patetici perché si ostinano a farlo; chi dirà che sono una leggenda vivente, chi dirà che sono dei dinosauri. Ci sarà anche un esercito di veri e propri detestatori, fan rinnegati o gente che non li ha mai amati davvero, ansiosa solo di avere conferme del fatto che i Bebonkers sono diventati un prodotto commerciale come la Coca-Cola, un gruppo di porci milionari a cui non gliene frega più niente dello spirito originario della loro musica, alla faccia dell’immagine ribelle che ancora cercano di proiettare. Già può immaginarsi le accuse lanciate a vanvera, e stratificate nel gigantesco immondezzaio di internet: il sound standardizzato, lo Zeitgeist perduto, gli ideali traditi, il calcolo dietro la buona causa” (pag.123-124)

Ma non solo: le dinamiche di coppia per la prima volta sono analizzate facendo riferimento anche a una relazione omosessuale (“E’ inevitabile che prima o poi tra due persone che stanno insieme nasca un conflitto di aspirazioni e richieste, indipendentemente dal sesso delle due persone?” – pag96)  e assistiamo alla presa di posizione nei confronti di una certa tipologia di procreazione assistita che in nome di una perentoria medicalizzazione, considerata salvifica, sembra quasi arrivare a ledere alcuni dei diritti fondamentali dell’essere umano sottoposto alla procedura, social egg freezing incluso (“In realtà l’idea di dover prestare il suo utero – e il resto del corpo collegato all’utero – a un ovocita non suo fecondato dallo spermatozoo di chissà chi non le piace proprio per niente. L’ha detto chiaramente a Viviane più di una volta: chi ci mette l’ovocita deve metterci anche l’utero. D’altra parte ce li hanno tutti e due; e oltretutto lo dice anche la legge. Al che Viviane le ha risposto – come sempre – che è lei la maggiore contributrice al bilancio domestico, e che non potrebbe certo fare i suoi massaggi posturali con una pancia grossa così” – pag155).
Indubbiamente De Carlo offre il suo meglio quando si confronta con i rapporti di coppia tradizionali – questa volta incentrati sull’età matura – attraverso il collaudato sistema del punto di vista interno multiplo che mette in luce le criticità di un confronto all’interno del quale i due interlocutori possono liberamente esprimere le proprie necessità e le altrui mancanze. E così, da una parte abbiamo la quarantenne dalla “figura elegante e nervosa, caricata a molla” (pag311), che nel compagno di vita cerca supporto e comprensione ma non può fare a meno di temere le conseguenze che una tale invadenza possa portare (“…non sono il tuo prevaricatore, …non sono il tuo limitatore di sogni. Non sono il tuo impositore di ruoli” – pag341) dall’altra c’è l’uomo anagraficamente maturo ma emotivamente irrisolto (“Aveva fatto a meno così volentieri delle dichiarazioni di forza alternate a dimostrazioni di vigliaccheria, dell’egocentrismo divorante che cede a crolli di fiducia, della saccenteria che dà luogo allo sgomento, degli sfoggi nozionistici seguiti da ammissioni di ignoranza, della razionalità che nasconde incapacità sentimentale” – pag195) incapace di scelte radicali e definitive.
Il passaggio da Bompiani a Giunti sembra aver fatto bene a De Carlo che consegna nelle mani del lettore un testo molto ben curato per quanto riguarda lo stile, più preciso e acuto del solito e capace di sostenere l’urgenza della narrazione che tende a comprimere frasi e periodi.
La scelta tematica del finale aperto, ormai una consuetudine a cui l’autore si sta abituando, regala un’opera matura, di significato imprevisto e completo.
“La fine della stagione dei gelati è un luogo comune, e come tutti i luoghi comuni serve solo a rassicurare le persone prive di immaginazione”
 
Buona lettura

"Cuore primitivo", di Andrea De Carlo

Ancora una volta Andrea De Carlo punta sulle dinamiche di coppia. Qui però in maniera esclusiva, diversamente da quanto aveva fatto due anni fa con “Villa Metaphora” opera in cui lo scrittore si era messo alla prova affrontando in maniera esplicita anche temi di natura politica e sociale. 

Luglio 2014. Craig Nolan, antropologo inglese di fama internazionale, come ogni estate da sette anni torna per le ferie a Canciale, un paesino a mezza costa tra La Spezia e le Alpi Apuane in cui sua moglie – l’affermata scultrice di gatti in pietra Mara Abbiati – possiede da tempo una piccola casetta a cui è sentimentalmente molto legata. L’abitazione è vecchia e avrebbe bisogno di una ristrutturazione che entrambi i coniugi rimandano di anno in anno, ognuno per le proprie ragioni. A seguito di un forte temporale Craig sale sul tetto per controllare i danni ma le tegole cedono e l’antropologo, non più agile come un tempo, frana rovinosamente all’interno, riportando tra l’altro alcune contusioni. Nella spasmodica ricerca di qualcuno disponibile anche nel pieno dell’estate a riparare il cratere che rende inagibile la stanza da letto, i due coniugi si imbattono in Ivo Zanovelli, proprietario di una piccola impresa edile. Il motociclista Ivo, bicipiti e tattoo in evidenza, catenone d’oro al collo e coda di cavallo, con la sua banda di operai slavi sarà la scintilla che scardinerà gli equilibri già precari e le tensioni che minano non solo la coppia ormai al limite ultimo di vicendevole sopportazione ma anche la fragile stabilità emotiva dello stesso Zanovelli. 

L’impianto narrativo a prospettiva multipla, differenziato anche a livello stilistico, per strutture sintattiche e lessico, segue quello sviluppato negli ultimi romanzi ed è lo strumento che De Carlo utilizza per raccontare a capitoli alterni la verità di ciascun protagonista. Quindi la narrazione pur procedendo lungo una linea temporale ben precisa si nutre di continui flashback e cambi di punti di vista. Ciò permette in primis una caratterizzazione dei tre personaggi a tutto tondo e in secondo luogo è in grado di offrire dinamicità a un canovaccio che altrimenti avrebbe forse risentito di una certa statica ripetitività. Non manca poi – altro segnale di differenziazione tra questa diciottesima fatica dell’autore e le sue precedenti – un certo gusto per la suspance e l’effetto sorpresa reso vivo proprio dal continuo movimento di prospettiva che dilata il tempo delle tre narrazioni individuali.

“E’ in un’altra fase della sua vita, anche se è meglio non chiedergli quale perché non lo sa. Non è più dov’era prima, va bene? (…) Non serve nemmeno cercare di mettere tutto in parole. Per raccontarlo a chi, poi?” (pag.112)

sbotta tra sé Ivo Zanovelli. Forse lo è anche De Carlo, in un altro momento della propria storia creativa. Perché alla tecnica dello spostamento della prospettiva e quella della suspance che per altro non manca di un insolito risvolto noir aggiunge pure una pungente e abile ironiaAbbandonando la consueta dicotomia di sentimento nei confronti dei propri personaggi – o la resa incondizionata o l’odio feroce – De Carlo per una volta (a dire la verità ci aveva già provato in “Villa Metaphora” ma qui affina il gusto, limandone gli eccessi precedenti) prova a divertirsi, e ci riesce pure, dando vita a tre entità caratteriali completamente differenti ma estremamente verosimili alla cui osservazione si dedica poi con piglio quasi scientifico, lasciandole libere di sperimentare la propria individualità

Da una parte abbiamo così l’antropologo Craig Nolan, una fulgida giovinezza di studi passata “nella valle del Wahgi in Papua Nuova Guinea” (pag.31) – e in molti altri luoghi dai nomi francamente impronunziabili, dimenticati da Dio e dagli uomini – che ora, imbolsito dall’età, dalla vita sedentaria a cui l’insegnamento universitario lo ha abituato accalappiandolo scaltramente col passare degli anni, imbrigliato nel tutore che gli costringe la gamba malconcia, se ne sta lì sotto il sole cocente – la pelle arrossata da inglese pallido, il sudore che cola copioso sulla fronte – a criticare tutto e tutti.

Dalla casa di Canciale (e si badi al ruolo che via via assume, questa casupola decrepita infestata dalle erbacce): 

“La verità (però quale verità, quella di adesso, o quella di allora?) è che Canciale gli era sembrato un luogo rude, sciatto, semidesolato. (…) Niente a che vedere con il solare villaggio che aveva continuato a visualizzare fino a quel momento: nessuna traccia di bianche casette risplendenti nella luce, di buganvillee dall’intenso color porpora, di terrazze affacciate sul mare blu cobalto. A vista d’occhio c’erano solo pendenze verde scuro attraversate dalle linee più chiare di oliveti ormai in gran parte inselvatichiti e punteggiate di piccoli edifici mal ridipinti e mal curati, orti primitivi, garage abusivi, erbe infestanti fuori controllo, reti metalli che, lampioni dagli steli sproporzionatamente grandi” (pag.15)

alle sane abitudini dell’italiano medio: 

“E’ una cultura di furbi, truffatori, improvvisatori, arruffapopoli, seduttori da bar, prostitute e clown, che privilegia gli esercizi verbali a vuoto e i giochi di prestigio sulla serietà e l’affidabilità” (pag.72)

agli immigrati fuorilegge (i “balcanici indemoniati” come li definisce a pag.97), il tutto condito da dottissime e pedantissime digressioni antropo-psicologiche a spiegazione dei fatti accaduti e di quelli che a breve accadranno, che Nolan predice con assoluta, certosina accuratezza – va detto. 
Su tutto, la pruriginosa relazione di sesso occasionale (citata a pag.256 e indagata – finalmente! – soltanto cento pagine più tardi, alla 347) con la giovane studentessa universitaria, recente conquista del noto professore: più un’affermazione del sé, vittima della classica crisi di mezza età, che un vero e proprio innamoramento. 
De Carlo guarda a Craig Nolan con curioso disincanto: che fine ha fatto, sembra chiedersi, questo Indiana Jones de’ no’ artri, che dieci anni prima aveva incantato una donna straniera, meravigliosa e passionale raccontandole di viaggi e avventure, con magia di parole, destrezza di ragionamenti e fedele osservanza a misticheggianti questioni di principio (niente patente, niente auto, niente cellulare)? 
Ma non c’è spazio per il livore perché “La pancetta degli ultimi due o tre anni che sporge da sopra l’orlo dei calzoni” (pag.81) non fa differenze di classe e colpisce tutti, democraticamente, e le questioni di principio trascinate all’estremizzazione dopo un po’ scocciano perché:

“Qualunque libertà (…) ha un costo: è vero, ma spesso il costo viene semplicemente trasferito a qualcun altro” (pag.104)

Si rimane davvero basiti di fronte a questa affermazione che difficilmente De Carlo avrebbe affidato a un suo personaggio fra quelli descritti in passato. Non contento, lo scrittore rincara la dose: “La realtà è che la sua carriera si è diversificata sempre più negli ultimi anni, e lui ha sempre più bisogno di un’organizzazione di vita stabile per raccoglierne i frutti” (pag.102) e affronta sempre attraverso l’alter ego Craig Nolan uno dei temi più cari, quello del viaggio, ribaltandolo addirittura nella prospettiva: la scoperta di nuovi luoghi si tramuta in pedanti elenchi di nomi astrusi e alla fine insignificanti, a favore di una riflessione a trecentossessanta gradi sul valore delle radici e delle abitudini condivise (uh sì, come no, parlatene a Guido Laremi…):

“Chiunque ha bisogno di luoghi in cui sentirsi a casa, attraverso cui definire il proprio carattere e i propri gusti, a cui affidare le proprie memorie e le proprie immaginazioni” (pag.21)

Quasi che la soluzione sia non tanto saltar da un posto all’altro come cavallette impazzite quanto imparare a comprendere quando fermarsi per poi prendere il meglio di quel che viene offerto, per migliorare non solo noi stessi ubbidendo a un semplice edonismo narcisista ma anche chi ci sta intorno.

Naturalmente a Craig Nolan fa da contrappeso Ivo Zanovelli, un personaggio bizzarro che DeCarlo studia con raffinatezza di intento evitando di cadere nel tranello della macchietta. Il costruttore motorizzato è un tamarro senza patria e senza legge; si accompagna a un gruppo di operai slavi alcolizzati di cui non fa mistero a lamentare le abitudini violente che non vengono condannate ma neppure edulcorate in nome di una presunta com-passione umanitaria; stipula accordi in nero, corrompe con qualche mazzetta, si rifornisce di materiale ecocompatibile di prima qualità prendendolo da cantieri in sequestro; ha avuto due figlie da altrettante ex-donne. Zanovelli però all’opposto di Craig è vittima consapevole di uno stile di vita che di alcune, vere questioni di principio ne ha fatto il fil rouge, lontano anni luce dall’antropologo di fama internazionale che (per chissà qual motivo – DeCarlo, è un j’accuse o un mea culpa?) si è piegato alla divulgazione televisiva da documentario in prima serata, chinando il capo di fronte a drammatiche semplificazioni contenutistiche tra ospitate di starlette nazional-popolari e doppi sensi di innegabile cattivo gusto. E vedremo a quali conseguenze porterà questa presa di posizione.

E Mara Abbiati? Sta lì, tra i due contendenti, acquattata nell’erba come una delle gatte che estrae dal tufo a colpi di scalpello. Il personaggio più sfuggente, il più abbozzatoforse quello meno riuscito dei tre, il più criticato e criticabile. Craig le rimprovera una certa fatuità credulona che forse poteva affascinare dieci anni addietro ma che adesso crea soltanto fraintendimenti e irritazioni:

“Mara è prontissima a rinunciare a qualunque tipo di garanzia: trascinata dalla sua fiducia ingiustificata nel prossimo, travolta dall’impazienza, insofferente di qualunque rallentamento” (pag.76) 

“Lei sta per ribattergli qualcosa a proposito del diritto di un cittadino a disporre dei propri soldi come gli pare” (pag.158)

Lei stessa si strugge, nella vana ricerca di un punto fermo tra mente e corpo che cambia, il passare degli anni, la maturità intellettuale, l’insofferenza verso l’accademia a cui Craig la costringe:

“Craig qualche tempo fa le ha detto che la trovava “bella pienotta”, non era chiaro se in tono di apprezzamento o disapprovazione. Di fatto i jeans che l’estate scorsa le stavano già un po’ attillati quest’estate le vanno decisamente stretti” (pag.53)

E anche Ivo pur affascinato non le risparmia l’osservazione riguardo a una certa indolenza di atteggiamento – mascherata (ancora una volta De Carlo cambia prospettiva, sarà mica l’età?) sotto l’affascinante ma pericoloso mito della passione (o della repulsione, che è lo stesso) istintiva, caduca, instabile:

“Non puoi non essere curiosa (…)! Anche se odi il marmo fa comunque parte del tuo lavoro, no?” (pag.162)  

Se Starnone ci ha illuminato raccontandoci nient’altro che il poi di una crisi coniugale ormai consumata, De Carlo ci aiuta a interpretare questo poi attraverso il durante, testimoniando il momento stesso in cui essa accade:
“All’iniziale cessione spontanea di sovranità, e all’accettazione di comportamenti estranei che ne discende, alla mimesi temporanea, all’adattamento volenteroso a modi e ritmi altrui, segue una fase di resistenza crescente, un rigetto progressivo, nel tentativo (spesso disperato) di recuperare la propria identità perduta” (pag.99-100)
“E’ la paura a tenerli insieme? Un sistema incrociato di minacce e rassicurazioni? Un’offerta reciproca di familiarità e consuetudine come antidoto al terrore del non conosciuto? Hanno stabilito con il loro matrimonio il diritto a paralizzarsi a vicenda la vita sentimentale, senza in cambio il dovere di coltivare sentimenti o emozioni l’uno nell’altra?” (pag.256) 
“Ma l’alternativa non è molto peggiore, come hanno dimostrato i fatti di oggi? Non è la destabilizzazione totale, la moltiplicazione dei dubbi, una perdita generale di senso?” (ibid.)
Le conclusioni a cui giungono i due autori, pur analizzando lo stesso fenomeno, non sono affatto le medesime. Ancora una volta De Carlo ci sorprende perché, a differenza di Starnone e distaccandosi anche da tante sue opere precedenti, ci regala un finale sostanzialmente aperto (anche per trama) in cui per una volta viene dato spazio a una soluzione non convenzionale, nella sua apparente, semplice banalità:
“La realtà è che rifare alla perfezione il tetto di una casa in cattive condizioni strutturali non ha molto senso (…). Forse è vero che qualunque cosa può essere riparata, ma solo con un intervento radicale sull’insieme (dalle fondamenta in su, per così dire), non cercando di sistemare le singole parti” (pag.352)


Buona lettura 🙂

"Villa Metaphora", di Andrea De Carlo

Più riguardo a Villa Metaphora  Ovvero, delle corrispondenze. Curioso che negli ultimi periodi la letteratura rifletta spesso sul tema che stiamo per analizzare – quello del “reality show” – quasi che il sentimento dominante sia un certo qual “sentirsi in gabbia” dovunque e comunque, che come inevitabile conseguenza conduce all’approccio psico-socio-geografico nel tentativo di risolvere la questione (leggi: uscirne vivi e in salute). Perché la formula è, incredibilmente, sempre la stessa: 
  1. prendi un gruppo di individui, meglio se di classi sociali differenti, 
  2. rinchiudili all’interno di uno spazio ben definito, 
  3. crea un bel diversivo che irrompa nella routine quotidiana con la stessa violenza di una molotov lanciata a tutta velocità: 
  4. e vedi cosa succede. 
Molto prima c’era stato JGBallard, con due opere della maturità, meno fiabesche e più consapevoli malgrado l’ambientazione ai limiti della fantascienza: “SuperCannes” e “Il Condominio“. Da ultimo, Aravind Adiga con il suo “L’ultimo uomo nella torre”. 
E poi arriva DeCarlo, con Villa Metaphora. 
  1. Quattordici personaggi, di varia caratura sociale e morale, professione, cultura etcetc ospiti – ma anche dipendenti – di un lussuoso resort abarbicato sulle coste impervie di un isolotto immaginario perso nel Mediterraneo più estremo, ultimo baluardo a difendere l’Italia dall’Africa e raggiungibile solo via mare. DeCarlo ne ha per tutti (al pari di AAdiga): c’è la stella del cinema holliwoodiano, bella, giovane, talentuosa, intossicata da alcool e pasticche; c’è uno dei più alti rappresentanti del gotha finanziario mondiale che attende, leone in gabbia, il verdetto che segnerà il suo destino, a seguito di un gravissimo scandalo sessuale di cui il pluridecorato professionista s’è consapevolmente macchiato. C’è un distinto, anziano e malato imprenditore del Nord, accompagnato dalla moglie fedele, a rappresentanza di quella borghesia italiana “all’Agnelli” che tanto ha influenzato l’economia e la società italiana dal dopoguerra agli anni Ottanta. E diversi altri ospiti che vi lasceremo scoprire da soli. C’è pure il cuoco dalla fama internazionale, curriculum di prestigio e stipendio a sei zeri, celebrato esponente di quell’ “estremismo gastronomico” che tanto impazza tra i vip; per non parlare della manager del resort, giovane autoctona fuggita anni prima sul continente dopo aver ripudiato luoghi d’origine e affetti, alla ricerca di se stessa e di un affrancamento sociale, o del falegname-artista, una figura maschile tipica e quasi sempre presente nella letteratura decarliana. Anche qui, diversi i personaggi che lasceremo al vostro studio. 
  2. Insomma, ce n’è per tutti (noi), perché sono chiare ed evidenti le corrispondenze tra il personaggio che vive all’interno del romanzo, contestualizzato e particolare, e il suo alter ego che, dall’esterno della realtà quotidiana, in esso si rispecchia. Se la starlette americana rappresenta una tipica gioventù – made in USA ma in rapida espansione pure nel vecchio continente – talentuosa anche, ma inficiata da un ego ipertrofico, parto deforme di quel “tutto subito” tanto caro al mito del selfmade americano, neanche a dire quale sia l’immagine che il banchiere tedesco senza scrupoli ci rimanda dallo specchio fatato della pagina decarliana. Cosa ci manca poi, la politica? Voilà, ce l’abbiamo: ecco a voi l’italianissimo onorevole di turno, un bel giovanotto di grandi speranze, un WASP de no’ artri che più provinciale di così non si può (uh, le sentiamo quasi, le sue vocali aperte da bravo lumbard, ancora lì, belle presenti nonostante i corsi di dizione): lo vedete in tutto il suo splendore, intento nell’azione di lavarsi la mano destra con la sinistra autogiustificando la propria condotta pubblica e privata e adducendo, come fine ultimo dell’azione, il Bene Patrio. 
E così via, in un continuo gioco di rimandi bidirezionali e concatenati. Per dire, ne peschiamo uno a caso: Lara, madre irlandese e padre italiano, aiuto-scenografa capitata per caso sull’isolotto a seguito dell’attrice di cui sopra conosciuta sull’ultimo set cinematografico, è alla ricerca incessante di se stessa e delle proprie origini, in contrapposizione non solo alla giovane e pluripremiata attrice ma anche a Lucia, la manager scappata sul continente, e poi all’estero: lei che delle proprie origini ad un certo punto non ne ha voluto sapere proprio più nulla; lei, innamoratasi poi del bell’architetto di fama internazionale, autore del progetto e della realizzazione del resort, tutto muscoli di palestra, abiti taylormade e tecnologia ultimo modello, che a sua volta non possiamo non porre a confronto con il falegname-artista che vive di lavori precari e che di necessità ne ha poche o nessuna (evoluzione, per altro, del personaggio di Durante, degno erede, sìsì, di quel Guido Laremi là, esponente estremo della categoria “maschio decarliano – romanzi della gioventù”). 
Per ogni personaggio, uno specifico stile narrativo, appena ammorbidito dallo stile decarliano, sempre riconoscibile nonostante le varianti. E così abbiamo: la lingua colta, raffinata, liquida e leggera dell’imprenditore del Nord; lo stream of consciousness lumbard dell’onorevole di spicco, che non rinuncia alla verve del comizio neanche quando parla con se stesso allo specchio del bagno; il francese melodico e controllato della giornalista in incognito, che a sprazzi tuttavia cede al sentimentale e all’emotivo, e infine il registro forse più riuscito, quello di Carmine, il marinaio tuttofare che parla una lingua artificiale autoctona credibile e immediata nella sua finta semplicità. 
3 (e 4.) Sono tanti i temi trattati da DeCarlo, che affida a questa sua diciassettesima fatica letteraria una urgenza comunicativa evidente ad ogni pagina. Il reality show inizia qui, nel momento in cui, per motivi vari che chiaramente non anticipiamo, allontanarsi dall’isola sarà difficile, se non impossibile, in un crescendo di situazioni disagevoli sia psicologiche sia, soprattutto, pratiche, che faranno virare la storia dal farsesco della satira sociale al catastrofismo. DeCarlo insomma scende nell’arena e forse per la prima volta si misura con la realtà esterna, tralasciando per un momento quella visione dell’esistenza così intimista che caratterizza la maggiorparte delle sue opere. 
Quel che ne esce è un’analisi della realtà, profonda ed equilibrata, che tocca gli aspetti più caratterizzanti della vita moderna e del disagio che essa porta con sé, sia a livello individuale, sia collettivo e sociale. 
Un’opera “per giovani” dunque – target forse rivoluzionario per DeCarlo – che tuttavia non scade mai nell’epidittico. Si tratta piuttosto di una serie di riflessioni personali che DeCarlo, attraverso il pretesto del romanzo, ha avuto il merito di saper codifcare e plasmare, ad uso e consumo di quanti vorranno affrontare la fatica di queste 900 pagine scritte fitte: il successo sociale, per esempio, identificato nella persona (personaggio) del divo chiacchierato, bello e dannato, del potentissimo banchiere, dell’imprenditore, del selfmade men di foggia americana, del politico di chiara fama; oppure l’utilizzo dei social networks, che DeCarlo mostra di conoscere alla perferzione nonostante la sua fama di scrittore refrattario ad alcuni di questi specifici strumenti di comunicazione moderna, che per certi versi frammentano l’attenzione, scardinano dal profondo le regole sostanziali che differenziano la comunicazione privata da quella pubblica, e creano dipendenza. Oppure ancora, l’utilizzo di forme d’arte e di stili di vita che, sicuramente mutuati dalla realtà dell’esperienza umana, delle origini non conservano che poche gocce di succo annacquato (si va dall’estremismo culinario del cuoco di gran fama volto a denigrare l’esperienza carnale dell’assunzione del cibo – alla quale, inevitabilmente, si tornerà – fino all’esasperazione per il culto del corpo, in un tripudio di orientalizzazione della fatica fisica che poco aiuterà nel momento del bisogno, perché così disgiunta dall’essenza della materia). 
Vi lasciamo con una immagine evocata dalla giornalista in incognito Simone Poulanc quando oramai la vicenda dei quattordici naufraghi volge al termine: 
Eccoci alla degenerazione di rapporti tipica delle situazione ad altissimo stress. Eccoci all’abbandono di ogni freno inibitorio, all’esplosione dell’aggressività primaria incontrollata. Eccoci quasi alla **Zattera della Medusa** (…). Quasi cinque metri per sette. Il Cinemascope di allora. Così i buoni borghesi parigini potevano andare a contemplare l’abisso del dissolvimento delle regole sociali e la degenerazione dei rapporti umani – la regressione abominevole – e poi tornarsene alle loro confortevoli abitazioni” (pp844-45) 
http://it.wikipedia.org/wiki/La_zattera_della_Medusa – Théodore Géricault
Buona lettura 🙂

"Leielui", di Andrea De Carlo

More about Leielui Ovvero, appunti sparsi per una lettura da geek.

  • E’ che con De Carlo è una battaglia persa in partenza: te ne devi fare una ragione, sperando che ti prenda bene al primo colpo. Se no, so’ cavoli.
Dai primi capoversi puoi decidere che te’ deve pijià er trip della lettura veloce e continua: ti pare cosa buona&giusta, visti i titoli, lo spazio temporale ristretto in cui si svolge l’azione, il periodare contrappuntistico che hai intravisto tra gli incipit, la fruizione del testo; tutte quelle cose lì.
Però poi succede che a metà strada il testo rallenta, interrotto da intere sequenze dialogo-dilogo. Così a mano a mano ti accorgi, piccolo brivido e sorriso ebete alla Vispa Teresa, che qualcosa non torna.
E’ che Sei andato troppo veloce. Sicché, clamorosamente, ti sei perso dei pezzi; no peggio, la trama è ancora lì bella strutturata, non è quello il problema. Il problema sta in tutte quelle robe decarliane, sensazioni, ricordi, immagini, blabla, che non hai proprio raccolto.
Solo che hai voglia a tornare indietro adesso, visto che De Carlo è uno di quelli one-way: o te lo leggi bene la prima volta, o via, finito, fumato per sempre, the end e tanti saluti all’effetto sorpresa (sempre che di effetto sorpresa si voglia parlare, su un De Carlo diciamo, ma ne discuteremo più avanti). Così allora, memore della sòla di cui sopra che ti sei beccato, diciamo, con la lettura di Durante, stavolta ti armi di impegno convinto; maniche arrotolate, occhiali e piglio da duro, sfoderi una pazienza da letterato che neanche su un incunabolo del ‘500 e ti metti lì, a conservare le parole, a centellinarle con dovizia, a vivisezionarle, roba che alla Temperance“Bones” je fai un baffo. Lettura lenta, scrupolosa, frazionata, accurata, da filologo incallito e, diciamocelo, pure un po’ geek. Mai avessi scelto strada peggiore. Arrivi ai dialoghi impreparato, in carenza di ossigeno, e quelli ti si rovesciano addosso troppo veloci, tutto d’un fiato, creando quell’effetto-sceneggiatura del “dice / non dice” che ti sfalsa la comprensione del testo e ti fa gridare allo scandalo. Sacrableu! E quindi? E quindi niente.

Il perché di questa digressione/riflessione.
Perché significa porre in qualche modo le premesse per una lettura criticache nel caso di De Carlo, a parer nostro s’intende, non può dirsi tale se non ricondotta all’estrema analisi del testo, del linguaggio e delle modalità di lettura. Perché tanta parte del “meraviglioso” o dell’ “orribile” con cui anche sul web ci si dichiara pro o contro l’ultima fatica decarliana è dovuta, a nostro avviso, proprio alle modalità di fruizione del testo. E’ facile scivolare sul De Carlo, insomma, basta poco perché si sta sempre appesi a un filo – analisi del testo a far da riflesso puro, vivido, evidente, al contenuto.
  • Detto questo, arriviamo a un breve appunto sulla presunta “originalità” del testo su cui tanto si dibatte. Il personaggio maschile di ADC difficilmente potrebbe essere “originale” in senso stretto. Questo perché De Carlo dipinge il suo tempo e ciò che, nel bene e nel male, lo rappresenta. E così ci ritroviamo tra le mani il classico quarantenne belloccio all’apparenza inconcludente, svogliato, mal assortito, dimentico delle responsabilità della vita adulta – una vaga aria presuntuoso/arrogante che salta al naso. Dall’altra, tutta la serie di figurette belle in fila, soldatini della modernità: Stefano, lui, il Sicuro, il Mai Indeciso, l’Uomo che Tutto Sa, dopobarba di marca e boxer inamidati. Peccato che sia solo scena, ma fa niente. E, detto tra noi, neppure Claire, e l’armata brancaleone delle “colleghe” comprimarie, ci fanno una bella figura. Lavoro sì, lavoro no, figli si, figli no, matrimonio sì, matrimonio no… (aho’, ‘a Ccchiara, datte ‘na mossa che stamo a fa’ notte) . Ma così è. Sia nel libro, sia ogni mattina in metropolitana.
  • Un ultima nota. La Milano di De Carlo. C’è che è sempre bella, anche nella sua bruttezza cementifera. E’ bella nel sole torrido e irrespirabile di agosto, è bella a Novembre sotto la pioggia, è bella quando nevica, è bella, di manzoniana memoria, quando il cielo è blu. E questo De Carlo secondo noi lo sa, se no non ci prenderebbe così tanto impegno nel descriverla. La liquiderebbe in due parole, via, nel cassetto, dimenticata, come tutte le cose non-interessanti. E’ che Milano ti fa fare quello che vuole lei (come De Carlo con la lettura).
Conclusione di questo post inconcludente. L’uomo ondeggia. Di qui, di là; tra paure, improvvise consapevolezze, indecisioni, timori, incertezze, città nuove in cui ricominciare, luoghi del passato da ricordare, da dimenticare, da ritrovare; alla costante ricerca di una chiave di lettura per la realtà che lo circonda (lettura veloce, lenta, frazionata, continua… istintiva, mediata… chi lo sa). D’altra parte, questo esperimento di metatesto l’ha fatto pure Viola Di Grado, no? Con tutte le differenze del caso, ovviamente. 
Via, alla fine consentiteci una citazione da classicisti – quel gran furbone di Seneca mica ci era andato tanto lontano, a rifletterci sopra.

“Durante”, di Andrea De Carlo

More about Durante

Vorremmo recuperare questa “vecchia” recensione, che avevamo conservato nel cassetto, ad uso e consumo dei due preziosissimi “insider” (ma veramente molto insider) con cui ci siamo ritrovati a parlare per caso (ma non tanto per caso, vista la giornata), di case editrici e sperimentazioni stilistiche, sul FrecciaRossa Mi-To, la mattina di venerdì 14 Maggio.
Non si tratta di un’analisi contenutistica e stilistica vera e propria, per cui consigliamo (come per tutti i nostri testi d’altra parte) una propedeutica lettura del libro, precedente alla lettura del post. Pena: l’incomprensibilità di alcuni punti (ferma restando l’ipotesi – quanto mai IPOTETICA – che i punti in questione possano, con la lettura, divenire comprensibili. Del che, dubitiamo fortemente. Ma comunque).
– Conosciamo i cognomi di tutti tranne che quelli di Pietro, Durante e delle due donne da cui Durante ha avuto figli. Curioso.
Molto focalizzato: la cascina, i campi, il verde, le strade interpoderali.
Cfr ovviamente con Guido Laremi & Mario (devo ricordarvi che stiamo parlando di “Due di Due”?): ci piace l’idea di un De Carlo “civilizzato” (De Carlo, ci perdoni), tutto grazie a un “rimescolamento di personaggi”: Durante potrebbe essere un Guido Laremi “sopravvissuto”, e Durante, in potenza, un Mario modificato dagli eventi.
Ci piacciono le sfumature senza contrasti: non società industriale & percorso prestabilito contro mondo creato e costruito a immagine e somiglianza dell’animo, ma due mondi già alternativi che si scontrano e si rivelano (anche l’alternativo dopo un po’ si trasforma in tradizione, abitudine, routine?)
Cfr l’idilliaco clima bucolico di “Due di Due” con il caldo torrido delle Marche… se cresci tu, crescono anche i luoghi, e diventano difficili, aspri, inaccessibili.
Attenzione alle non-chiusure. Durante sparisce, Pietro… chissà.
Pietro termina sempre i suoi lavori al telaio, mentre questo lavoro invece (la vita che, dice Durante, quando l’hai capita, è ora di finirla) rimane incompiuto, perché ognuno può finirlo come gli pare.
Andate a riguardare l’intervista podcast di Fahrenheit: illuminante. 
Attenzione alla fruizione attiva e immediata del libro, e alla modalità di lettura. Forse sarebbe da rileggere con calma, un volta terminato, ma ci parrebbe un tradimento nei confronti della teoria della fruizione… eppure, se sei troppo preso dalla teoria, non ne esci più… Durante docet e fa riflettere su cose in parte dimenticate, su atteggiamenti che la routine nasconde, su pensieri che bisognerebbe coltivare, tutti i giorni.