“Il figlio del Direttore”, di Piersandro Pallavicini

“Ero felice. A dieci anni desideravo la protezione dell’oscurità. Ora, a sessanta, ho preso un appartamento in Costa Azzurra inondato di sole.”

A metà strada fra il giallo sociale, la commedia degli equivoci e il romanzo generazionale, “Il figlio del Direttore” indaga, con disincanto scrupoloso e urticante sarcasmo, le pieghe della più esclusiva Late Boomers generation nostrana.

A questa enclave d’élite appartiene Michelangelo Borromeo: neosessantenne pavese, proprietario della centralissima libreria antiquaria “Da Recalcati Libri e Gusto”, single, abitudini raffinate e conto corrente di pregio. Fanatico della boutade sapida (per mezzo della quale s’arrabatta sin dall’adolescenza a mascherare una patologica timidezza), cultore degli abiti di sartoria, dei ristoranti stellati e delle macchine sportive, Michelangelo Borromeo – nomen omen a svelare una nobiltà farlocca, indizio della pesante eredità familiare toccatagli in sorte – è insomma, diciamolo, uno di quei boomer del cavolo che, pieni di soldi, seconde case e colonscopie in regime di libera professione, da giovani affollavano di villette monofamiliari la provincia lombarda e che ora troviamo ritirati, complici età e divorzi tardivi, fra le mura di sontuosi quadrilocali ztl in quel triangolo delle Bermuda casereccio rappresentato da alta Brianza-varesotto-pavese.

“Da Recalcati Libri & Gusto, oltre alle prime edizioni di Sereni, Montale, Pavese, D’Arzo, ho quindici diversi prodotti al tartufo, colature di alici, bottarghe, creme di pistacchio, nocciola, fava tonka, tè cinesi esoterici, caffè campani artigianali, per non parlare degli champagne, solo grand cru, e dei vini di Bordogna, soltanto grand cru pure loro, e su ogni barattolo, scatoletta, bottiglia ci metto dei ricarichi semplicemente criminali. Ma la radice di follia del collezionismo librario, evidentemente, corrisponde alla medesima folle radice dell’estremismo gourmet.”

Il Borromeo, insomma, ne ha così tanti che un po’ fatica a immaginarne l’uso e a parte qualche momento di inquieta solitudine, speso a immaginarsi un personale futuro distopico di malattie neurodegenerative o navigando sui siti pornografici, se la passa discretamente bene fra il negozio, la residenza pavese e l’appartamento di proprietà al Mer Azur, un condominio di lusso affacciato sul boulevard de la Garoupe, ad Antibes. Il modo in cui Pallavicini racconta la raffinata decrepitezza della Côte d’Azur fuori stagione mi porta quel piccolo e noto conforto che viene dal leggere pagine scritte bene – tra piscine svuotate, pioggia che batte le strade quasi deserte, arenili inselvatichiti, odore forte di mare e aghi di pino, café solitari frequentati unicamente da persone del luogo e da qualche sparuto turista nordeuropeo. È un paesaggio lunare di cui Michel – come il Borromeo viene chiamato qui – si nutre avidamente; uno scenario che rimanda il lettore non soltanto agli anni gloriosi di Aly Khan e Rita Hayworth ma anche, in maniera più sinistra, all’Eden-Olympia di ballardiana memoria – il finzionale, paradisiaco complesso residenziale nizzardo all’interno del quale si svolge uno dei più truci romanzi della fantascienza occidentale.

Se sotto la penna di Pallavicini (come fosse un rivoltare d’involucro) i cultori dell’antiquariato librario si trasformano da stimati intellettuali a gente in sostanza anche simpatica e piacevole ma un poco gonza – e per questo finanziariamente necessaria, in un gioco di sapiente miniaturizzazione caricaturale, così i residenti del Mer Azur, allontanati a forza dalla gloria dei tempi passati, assumono sembianze a metà strada tra i fantasmi del tempo che fu e i protagonisti di un parco dei divertimenti a tema “benvenuti sul pianeta Terra”. Da Agathe, la svagata, autoctona proprietaria di alcuni appartamenti al Mer Azur, a rigore ricchissima ma scroccatrice seriale di opulente colazioni, a Madame Kirsten Østergaard, la turista danese affittuaria di Agathe che con l’assoluta incultura per la lingua italiana, le forme sinuose e il nudismo integrale sul terrazzo per lo yoga notturno al sottofondo di campane tibetane sconvolge gli ormoni del Borromeo e gli riporta a galla un’antica parafilia assolutamente politically incorrect, fino a Gualtiero, uno zerozerosette nazionale invischiato in non si capisce che traffico notturno – Gualtiero che ovviamente non si chiama Gualtiero e che per modi e piglio assomiglia non tanto a Daniel Craig quanto alla guardia del corpo di un boss mafioso.

“Il raggio del faro sulla cima del Cap taglia il buio ogni pochi secondi, un aereo che si prepara ad atterrare a Nizza attraversa il cielo stellato. Sotto le suole, mentre stropiccio i piedi sull’asfalto crepato, scricchiolano gli aghi dei pini. In questo momento mi sento come sempre mi sono sentito in questo angolo di mondo: non felice, che è una condizione implausibile per qualunque essere umano sopra i quarant’anni, ma vagamente euforico, sollevato anche se non si sa bene da cosa, diciamo in tregua col mondo. Ed è adesso, mentre l’angoscia della morte, della catastrofe e della rovina sono lontane, è ora, mente rimiro l’oscurità del mare con i gomiti appoggiati alla balaustra, che il cellulare si mette a suonare.”

I fantasmi del Borromeo però non finiscono qui perché, come in ogni giallo che si rispetti, a un certo punto ci scappa il morto – nella persona, addirittura, di Luca “Luchino” Borromeo, altrimenti detto il Signor direttore – nonché padre di Michelangelo; quel rinomato banchiere di provincia assurto fra gli anni ’70 e ’90 alle glorie di direttore di filiali per il Banco Italico tra Vigevano, Milano, Cantù e Busto Arsizio, quel padre smargiasso e burino, razzista, omofobo e cornificatore seriale, mancato due anni prima per causa di un brutto male che al posto di redimerlo lo aveva reso ancora più iracondo, menefreghista, cafone e stronzo. Nella pace della passeggiata serale sulla spiaggia nizzarda, insomma, una sera il cellulare del Borromeo comincia a squillare; il numero di telefono da cui arriva la chiamata è quello del padre – passato a miglior vita, come si è detto, due anni prima. La linea si interrompe appena Borromeo clicca sul tasto verde. Chi sta utilizzando il telefono del morto, quindi? Chi dunque si è introdotto nella casa di famiglia? Chi è colui che si sta appropriando dell’identità del Signor direttore?

La telefonata notturna scoperchierà il vaso di Pandora e la villeggiatura fuori stagione del Borromeo si trasformerà in un rutilante viaggio nel passato perché niente, come è ovvio, è come appare; in costante equilibrio fra i colpi di scena di un noir dai tratti hard-boiled e la farsa comica, Borromeo sarà costretto a precipitare non solo nell’abisso della propria giovinezza – un luogo della memoria infido e crudele dal quale aveva avuto ben cura di tenersi lontano – ma anche nel passato dei genitori e nel ricordo di Marcella, l’amore perduto.

Il viaggio di Michelangelo Borromeo però sarà anche un po’ nostro, perché “Il figlio del Direttore” è non solo la storia della famiglia Borromeo ma anche il racconto del sentirci boomer: se difatti alla tal generazione appartengono di diritto solo i nati tra la fine della guerra e la metà dei favolosi Sessanta va però detto che noi, un poco più giovani, quell’aria lì l’abbiamo respirata quotidianamente, insieme al fumo passivo in pizzeria – e non è che certi sistemi di pensiero si possano scardinare con facilità. “Il figlio del Direttore”, poi, significherà per molti il ritorno alla provincia lombarda – regno di piccoli ricordi acuminati, dolorosissimi – e per molti altri invece un volo radente sopra una terra che, lo si voglia oppure no, ha significato moltissimo per la società e per la politica italiana.

Ah, non dimenticate la FFP2, mi raccomando; ché tra le altre cose “Il figlio del Direttore” è anche un romanzo post-pandemico – forse il primo che s’azzarda a recuperare la dimensione comica della tragedia, fra ipocondriaci atterriti, svagati cronici che del Covid quasi nemmeno si sono accorti, incoercibili no-vax equipaggiati di bottigliette di gel igienizzante incartapecorito e mascherine putrefatte.

È possibile, si domanda Michelangelo Borromeo, godersi la vita dopo che la vita è passata? Forse no, ma forse anche sì.

“L’arte del buon uccidere”, di Piersandro Pallavicini

“Allora ci troviamo e facciamo aperitivo…” geme indomito il cretino.

Scaraventatelo sotto un tram.

Prendiamo un aperitivo” gli urlerete mentre le ruote d’acciaio lo stritoleranno. “Beviamo un aperitivo. Facciamo aperitivo, bestia, mai!”

Poi tornate in voi leggendo un qualunque libro di Arbasino. (pag104)

“L’arte del buon uccidere” è un’ode accurata al principio della giusta misura.

Si tratta di ventun capitoletti – ognuno dedicato al (o alla) rompiscatole di turno e al modo più conveniente per procedere con l’eliminazione fisica del soggetto in questione – intervallati da ancor più minuscoli e graffianti “raptus”, in cui più che alla genialità della maniera si bada alla fulmineità dell’ammazzamento.

Una gioia di risate caustiche e finissime in cui ce n’è per tutti: dal vicino saputone e odiatore seriale alla coetanea ex sessantottina che ora, regina del Lamento Continuo (“LC”!), brontola senza sosta perché il capo le fa saltare la mezz’ora del pranzo (proprio a lei, che ha trent’anni in azienda), dalle telefonate chilometriche della signora extracomunitaria in corriera – col viva-voce sempre inserito a manetta – al fattorino sudamericano col quale il confronto verbale risulta impossibile per via dell’irrimediabile discordanza degli idiomi.

Attraverso queste brevi storielle P. Pallavicini rivendica l’importanza della risata, uno spazio mi vien da dire sacro in cui il comico e l’ironico – anzi l’autoironico – quando rispettosi della forma e dell’equilibrio diventano uno dei modi speciali in cui gli esseri umani si rapportano tra loro.

“D’altronde la caratteristica fondante del Rigor Mortis, oltre alla patologica incapacità di rendersi conto di quando è ora di congedarsi, è una pronunciata ipocondria e, si sa, sono i maschi, tra i due sessi, a tenere alta la bandiera dell’autodiagnosi paranoide.” (pag111)

Saltano le riflessioni sulla fluidità di genere, in un testo in cui maschi e femmine sono tali proprio per caratteristiche si direbbero cromosomiche, senza paura di elencarle. Saltano le dinamiche del politically correct verso stranieri e vecchietti. Eppure quel che fa la differenza sta proprio lì: nel momento in cui, leggendo queste pagine, non vien fatta la tentazione di pensare ad altri (“Ecco zia Domitilla! Vedi, quello stronzo del mio capo! Uh, questo è proprio tuo fratello Giancarlo…”) ma al contrario scatta dirompente il panico della feroce autocritica (“Oddio, sarò mica io, la fissata del wi-fi che brandendo il cellulare, avvolta nel caftano bianco, s’incazza a lunghe falcate sabbiose con tutti quelli che c’hanno l’hotspot attivo sotto l’ombrellone?” – Risposta: sì, è ADC: se mi incontrate così, sulle spiagge di Jesolo Beach, abbattetemi).

Questo punto, quel che distingue la crassa risata da una seria riflessione sul comico che non può mai scindersi dall’autocritica è, dicevamo, quel che fa la differenza. In un mondo in cui vince chi urla di più, chi la spara più grossa, chi si secca per primo, chi s’impermalosisce per primo (anche per procura), Piersandro Pallavicini ci mostra ancora una volta come sia possibile, attraverso il rigore della forma in cui ci si adira (che è di fatto il contrario della sudditanza), essere liberi di esprimersi anche nelle proprie idiosincrasie: avendo ben cura di evitare tutto ciò che è troppo.

“Prima di compiere il sacrosanto benché poco misericordioso atto, occorre studiare a fondo tipologia e psicologia del rompiscatole che ci tormenta, per poi procedere alla sua eliminazione con grazia e intelligenza, utilizzando il metodo più consono.” (pag8)

La pena per contrappasso inflitta alle vittime prende quindi le fattezze di un omicidio rituale. Un luogo in cui l’immaginare non si fa certo realtà dei fatti ma al contrario argine: un what if che ci spinge a pensare non tanto al cosa potrei fare a chi quanto, di converso, cosa succederebbe se quello ammazzato fossi io.

“Quelli che, invece, all’inizio dell’epidemia prendevano per i fondelli chi si preoccupava ed erano tutto un ‘mannò, è solo un’influenza un po’ più fortina’. Chiudeteli in una gabbia con una tigre. Se ne lamenteranno, spaventati. Voi ditegli così: ‘Mannò, è solo un gatto un po’ più grossino’.” (pag164)

Nota. Sono fortunata: ho amiche speciali che sanno regalarmi proprio quelle pagine che – loro lo sanno sempre – mi faranno contenta.

"Una commedia italiana", di Piersandro Pallavicini

“Mio padre è solo un perito chimico, anche se pensa di saperne più di me e dell’Ottolina messe insieme” 

racconta Carla Pampaloni Scotti, voce narrante e secondogenita dell’ottuagenario Alfredo Pampaloni.
Distinta cinquantenne, professoressa milanese (Chimica alla Statale), combatte quotidianamente contro le feroci caldane della menopausa, contro Tersilli, direttore di facoltà vetusto e misogino che da decenni non fa altro che sottrarle fondi e cercare di affossarle la carriera per puro spirito vendicativo, contro Rogoredo (“Edo”), fratello maggiore sbruffone, becero e cleptomane (residente a Londra, sposato con una donna avida e gretta, due figli gemelli molto biondi, molto british e molto maleducati, gallerista di un certo prestigio grazie alle sovvenzioni paterne), e ovviamente contro il padre, il decrepito, vedovo cùmenda milanese di cui sopra. 

Per fortuna c’è un figlio, Massimo, diciotto anni, terribilmente nerd e forse – spesso il dubbio travolge il cuore di mamma – un tantino omosessuale, e (un po’ meno per fortuna) un marito, Gianluigi (detto Gigi), ordinario di Fisica ed expatried a Pasadena per un anno sabbatico. E poi per fortuna davvero c’è la Paola Ottolina, l’amica di una vita, il “bulldog”, come affettuosamente rifersice il Dotòre, (nano da cesso l’altro epiteto più quotato), chimica anche lei, ultracinquantenne pure, in premenopausa anche, zitella e – onestamente – bruttissima.

“D’altronde – continua la professoressa Pampaloni – (mio padre) ha letto un saggio di Paolo Maffei e pensa di saper tutto di astronomia, è socio del Fai e dunque padroneggia l’intera storia dell’arte, e stato abbonato sette anni a ^Selezione^ e perciò è un esperto anche di letteratura. A Solària lo chiamano ^il dotòre^ dal ’67, quando era arrivato in cabriolet, giacca bianca e fularino, e aveva sfoderato il libretto degli assegni per comperare il terreno su cui avrebbe costruito la villa” (pag.25)

Questo è Alfredo Pampaloni, 

“che vestito come il suo amico Gunter Sachs – camicia azzurra slacciata fino al terzo bottone, giacca bianca di lino, pantaloni anche loro bianchi, e mocassini scamosciati, senza calze – brandisce una di quelle bottiglie sue, costosissime, di Muller-Thurgau o Traiminer o vattelapesca, acquistata a Milano nell’enoteca di viale Zara. Come fosse a Cortina o Saint Moritz, dedica un brindisi alla valle con i gesti molli e snob del capitano d’industria” (pag.20)

Un latin lover de no’ artri, smargiasso, maleducato, sgradevole negli scherzi e sessista nei modi, fondatore della Pampaloni Spa, azienda leader nel settore caseario (ndt: produzione di formaggini molli spalmabili):

“E non era nemmeno una società per azioni. ^Spa^ l’aveva aggiunto lui nella ragione sociale per darsi delle arie. 

– Spa come lo spavento che facevamo alla concorrenza – ama ancora raccontare, mondanamente, il Gunter Sachs della Maggiolina, e secondo lui questo è uno dei suoi miglior scherzi da prete” (pag.22)

Alfredo Pampaloni che nell’estate del 2012 convoca tutta la famiglia nella villa di Solària, Dolomiti inoltrate, per delle misteriose e assai impreviste dichiarazioni. Comincia da qui il racconto di Carla, che tra flashback & forward ci narra cinquant’anni di vita italiana restituendo al nostro ricordo un immortale scampolo di storia contemporanea, quello dei Gloriosi Anni Sessanta nostrani; la grande tradizione industriale del Nord, la cultura intellettuale e universitaria, le storiche firme del giornalismo, finanche l’imperitura industria cinematografica di Cinecittà senza tuttavia mai mancare di spirito critico, costruito attraverso un’obiettività colta e scevra da inutili pietismi che con garbo, eleganza e un pizzico di sarcasmo ne denuncia, di questa Italietta provinciale, i vizi e i difetti tra corruzione pubblica, mazzette e frodi fiscali, nepotismo, raccomandazioni e discriminazione femminile. Uno spettacolo di varietà su cui regna, protagonista indiscusso, lui, e chi altro se non il Dotòre Alfredo Pampaloni.
Spiace dire, non ce ne vogliano i foresti: di “Una commedia italiana” si ammira, prima di tutto, la perfetta constestualizzazione strettamente provinciale. Programmaticamente riferita giusto al principio dell’opera, e per questo degna di essere rispettata:

“Non ho mai capito se in questi casi sia più adatto dire esticazzi o me cojoni. Sono espressioni romanesche, non ho esperienza. Noi siamo di Milano” (pag.14)

Una Milano affascinante, bellissima nei suoi quartieri periferici, da Greco alla Bovisa. La Milano del cabaret, della Martesana, delle osterie che se non sai dove cercarle è inutile che ti ci provi, dei cinemini d’essai nascosti tra i capannoni dismessi adiacenti la Stazione Centrale; la Milano con le sue architetture d’avanguardia (come le case a fungo del villaggio dei giornalisti alla Maggiolina), i circoli di quartiere coi bianchini e il campo di bocce, le cascine mangiate dal cemento dei casermoni popolari costruiti per gli operai delle Falk a Sesto San Giovanni. 
Onestamente difficile apprezzare l’opera per intero, in tutte le sue sfumature, se digiuni di certe realtà: ma bene così, per una volta abbiamo tra le mani una narrazione di fantasia che non fa della globalizzazione letteraria la propria – facile – mano vincente, specie per quanto riguarda la parte più gialla della trama che si infittisce in un crescendo di mistero, dramma e delitto tipicamente all’italiana tra inconfessati segreti di famiglia, casseforti misteriose, investimenti plurimilionari e, perché farselo mancare, anche un pizzico di mondanità e gossip nostrano, che male non fa mai, famelici come siamo di facile e goliardico pettegolezzo.
Eppure, grazie a questa prorompente italianità di base (verrebbe da dire nonostante, ma ci si sbaglierebbe, perché è proprio per merito del contrasto che la semplicità del messaggio viene sconfessata) “Una commedia italiana” è un’opera che, senza scivolare mai né nel moraleggiante né nel didascalico, riconosce il valore e la necessità di una apertura extraterritoriale e cosmopolita. La competenza della professoressa Pampaloni e dell’Ottolina, nutrita di cospicue esperienze estere (affrontate in parte anche per sfuggire alla misoginia e al nepotismo dei baronati universitari), la Londra del rock progressive, passione ossessivo-compulsiva della povera Paola, la fascinazione di Edo per le arti visive, il desiderio di Max di partire per la Danimarca alla volta delle Olimpiadi della matematica, tutto contribuisce a restituire l’immagine di un nuovo italiano medio che, indipendentemente dal ceto sociale, attraverso la propria esperienza personale e professionale deve avere la forza e il coraggio di emergere seguendo le proprie passioni. 
E se la passione viene coltivata fino allo stremo, fino a quando il nostro corpo non reclamerà il riposo eterno, e se non è altro che il sogno di una vita, una produzione cinematografica intramontabile, dal cast stellare: “Calindri, Tognazzi, Vianello, Dorelli, la Valeri, la Valori, Tina Pica” (pag.291) allora questa è un’altra storia, e non ve la raccontiamo. Tanto, 
“L’importante è che la morte ci trovi vivi” , e last but not least

“Abbiamo cinquant’anni, chi ha la forza di odiare davvero qualcuno?” (pag.21)

Soundtrack: Spotify, Skating Away On The Thin Ice Of The New Day, Jethro Tull, WarChild, 1974.

Buona lettura 🙂

"Romanzo per signora", di Piersandro Pallavicini

More about Romanzo per signora “Il mondo è bello, non sentite come frizza l’aria? Non vedete com’è lucente il cielo? Nice, Cote D’Azur. Ridiamo, scherziamo, siamo italiani, vigevanesi, rotariani, abbiamo figli, conti in banca e io ci penso, giuro che mi concentro, eppure com’è che non mi si riempie, questo spazio vuoto e gelido che mi si è aperto al posto del cuore?” (pag 94)

Cesare Corsico-Piccolini, distinto ex direttore editoriale di un’importante casa editrice milanese, e la moglie Franca. Il Luciano Buttafava, patron di saloni automobilistici, con la consorte Adriana. L’Attilio Persegàti (detto Enzo per la sua somiglianza con Jannacci), fondatore di una azienda leader nel settore delle calzature di lusso, neovedovo.
Tenete a mente questi nomi, non vi lasceranno più.

Cinque amici over 70, Vigevanesi, Rotariani de’ no’ artri.
La borghesia lomellinese, armata fino ai denti, all’assalto della Nizza più kitsch per una settimana di vacanza in bassa stagione.
Acciacchi vari, ipocondrie multiple, scheletri nell’armadio, portafogli a fisarmonica, maglioncini di cachemire e jaguard d’ordinanza per veri “cumenda” affiancati dalle rispettive controparti femminili, signore griffate e ingioiellate, vagamente isteriche (ndr, alla Franca, quando s’indispettisce, le escono fuori dei terribili baffi da suora, e l’Adriana appare, nei medesimi frangenti, tale quale a un “pechinese elettrico che hanno attaccato per sbaglio alla duecentoventi invece di mettergli le solite pile” – pag 182), adeguatamente nutrite di ansiolitici ove l’occasione lo richieda.

Ecco a voi la cronistoria di una vacanza che di rilassante avrà poco o niente, come prevedibile. Altro che cene a base di pesce e tranquille passeggiate sul lungomare. Qui si narrerà, con dovizia di particolari, di liti coniugali presenti e passate, misteriose sparizioni (per un amico che si vaporizza nel nulla un altro forse riappare, emergendo, come un fantasma, dalle nebbie di un passato remoto oramai così difficile da ripescare) e scioccanti rivelazioni, risse, scene di drammatica isteria collettiva, atti illeciti; il tutto raccontato con maestria, ritmo incalzante, divertente, ironico.

Lo sguardo critico (a tratti cinico, mai cattivo) di Cesare, affetto da sclerosi multipla, mitigato da quello fine e traslucido del lieve Persegàti, che si esprime soltanto in dialetto; la tranquillità stoica, e in parte chimica, della timorata e casta Franca cui fanno da contrappunto le epiche scenate dell’Adriana nei confronti del marito Luciano, espressione più classica e costruita (eppure così reale) del commendatore di provincia, chiassoso e volgare, tronfio dei suoi successi commerciali, sciocco e credulone.

Romanzo dalle linee narrative multiple e fluide, si rimescola su così tanti e vari livelli di coscienza che non provare a scoprirli tutti sarebbe un sacrilegio.

Un esempio già il titolo, ingannatore e fuorviante.

Se da una parte esso rimanda chiaramente ad Henry James, dall’altra sembra irridere (riprendendo scherzosamente la velata misoginia di Cesare, io narrante, nonché il vago senso di omofobia che permea le riflessioni dei cinque protagonisti a riguardo) di tutta quella certa letteratura rosa di cui sono fitte le classifiche di vendita attuali, al contempo strizzando l’occhio alle statistiche che vedono l’area dei “lettori forti” dominata da una netta percentuale femminile.

Un ammiccamento sottile e sarcastico, camuffato da indicazione di genere e target, perché al di là dalla tragi-comicità della gita Nizzarda, di temi scottanti, trattati, ce ne sono eccome (altro che Romanzo per signora, quindi): dalla malattia debilitante, sia nel fisico sia nella psiche, che dall’interno scardina pezzo per pezzo ogni punto di riferimento (le vertigini, i tremori, le difficoltà di deambulazione / i ricordi offuscati, le parole che non si riescono più a pronunciare, perse nel buio di una memoria farlocca) alla querelle sulle terapie mediche alternative (una su tutte, il cannabiolo) che sfocia quasi inevitabilmente nel dibattito sull’eutanasia e sulle cliniche della dolce morte.

Dall’omosessualità, celebrata, nascosta, o solo presunta al ruolo della donna, che, agli occhi di Cesare deve rispondere perfettamente ai cliché più tipici degli anni ‘50 e ’60: relegata in un mondo a parte, famigliare, dedita alla cura dei figli e della casa, poche parole, pochi svaghi (unico concesso, la religione) e tanto amido per i colletti delle camicie, che occorrono perfettamente stirate.

Per non parlare dei figli, grotteschi ereditieri buoni solo a trattare ogni over 70 che capiti loro a tiro alla stregua di un preadolescente tontolone e a dilapidare il patrimonio di famiglia che i rispettivi genitori hanno costruito nel corso degli anni, con indubbio talento, rinunce e gran fatica di lavoratori indefessi.

Eppure, non è finita qui; eh sì, perché ci manca ancora lo scrittore Leo Meyer; riconoscibile alter ego di Pier Vittorio Tondelli, è la nemesi di Cesare: l’amico di una vita, lanciato dallo stesso Cesare in vetta alle classifiche editoriali e poi improvvisamente scomparso nel nulla a causa di un brutto (e banale, come spesso accade) fraintendimento professionale. Leo Meyer, l’autore di un clamoroso “romanzo generazionale”; l’icona gay e il rappresentante, pubblicamente celebrato, di una intera generazione.

La finzione narrativa di Leo Meyer (il cui ruolo nell’economia del romanzo non è possibile anticipare in questa sede) ci aiuta a ripercorrere, insieme a Cesare e a PSpallavicini, la storia dell’editoria italiana degli ultimi vent’anni, dal boom dei nuovi autori negli anni ‘80 al presente sconclusionato, caotico e oppresso da un marketing sempre più aggressivo e asfissiante, passando per gli anni ‘90 così fecondi di fermento e passioni.

Attraverso i ricordi di Cesare – un insider d’eccezione – ci troviamo ad affrontare, basiti e ammirati, quasi un lussuoso corso monografico di storia critica dell’editoria italiana, completo di apparato critico e citazioni più o meno scoperte (si va dal dimenticato Fredricc Prokosch a Piero Chiara, da PG Wodehouse a Houllebecq), tra opere “navigabili”, martlàà a travèrs e funghi trifoli (pag 41-42).

Parecchi i passi degni di citazione – passi che in parte abbiamo riportato su Twitter. I più esilaranti, o riflessivi, sarcastici e amari appartengono alla voce narrante di Cesare Corsico-Piccolini. Ce ne sono due, brevi, che vale la pena riprendere:

Un appello. Non sorridete a un uomo soltanto perché ha i capelli bianchi ed è ben vestito. Mai. Nemmeno se vi sembra decrepito, mummificato. Nemmeno se le sue gambe traballano. Lasciatelo in pace, grazie” (pag 146)

E in questi due, cinque, dieci anni che mi restano dovrei sprecar tempo a preoccuparmi di cosa la gente pensa di me? A preoccuparmi se faccio delle figure da vecchio rincoglionito? Ma lo sono, per la malora, lo sono!” (pag 69)

Sgradevoli questi vecchietti, eh? Con loro, come la fai la sbagli. Fastidiosi, aggressivi, irritanti nelle loro manie e nei loro tic nevrotici. Eppure, malgrado le malattie degenerative e la senescenza incipiente, così vivi. Paiono mostrare uno stoico distacco di fronte alle vicende umane: l’amicizia, l’amore verso i figli, la morte, ma poi sotto sotto si amano, più spesso si odiano, e ardono di passione, rabbia e ira, sebbene vittime di un decadimento fisico e psichico inarrestabile che alla retorica non fa sconto alcuno.

Possibile che in un momento di crisi come quello che stiamo affrontando, un buon Romanzo per signora sia l’unica, vera ancora di salvezza? Come dire, l’autoironia di chi è in grado di godersi il buon vivere, che per certi versi manca alle giovani generazioni: il gusto per la vita in sé, che sta tutto non nella ricerca affannosa di uno “stare meglio” non ben identificato, ma nell’affrontare con ottimismo e un pizzico d’incoscienza quello che essa, nel bene e nel male, ci offre.

Nota: Un ringraziamento particolare all’autore, per la gentilezza dei suoi Twitt.
Uno spettatore cortese e attento che mi ha accompagnato nella lettura dell’opera e nella sua micro-condivisione su Twitter. Vi invito a consultare la bella pagina FB dedicata al romanzo, che mi permetto di riportare qui sotto.
http://www.facebook.com/pages/Romanzo-per-signora/185039401580784

Buona lettura.