"Il cardellino", di Donna Tartt

La lettura de “Il Cardellino” è questione per cuori impavidi.

Prima di tutto per la sostanza formale e strutturale del testo. 
Punto uno: le dimensioni. In edizione cartacea fanno 892 (ottocentonovantadue) pagine scritte fitte. Il tutto suddiviso in parti (5 – i cui titoli devono essere mandati a memoria), un numero che pare illimitato di capitoli, per altro in ordine progressivo, e poi via di sottocapitoli, come se non ne avessimo già abbastanza.
Punto due: una struttura in flashback che occupa i nove decimi dell’opera. Ciò significa convivere con quel tipico, leggero ma persistente affanno da lettura compulsiva per 700 pagine almeno. Non quisquilie, anche perché “The Goldfinch”, se piace, crea assuefazione: prepararsi a fare le tre di notte e anche oltre.
Tutto merito di una trama ricca di momenti di suspance creati ad arte – non tanto incardinati ad un singolo atto pratico che si risolva in un unico, dirompente episodio, quanto più a vaghi, piccoli indizidisseminati qua e là, mine vaganti, inesplose, addormentate sotto qualche centimetro di terra, che deflagrano all’improvviso (a distanza di centinaia di pagine dalla loro sepoltura) ricolme di una violenza inaudita generando tzunami oceanici, cerchi concentrici di conseguenze imprevedibili – e di una costruzione prolissa fatta di lunghe digressioni labirintiche, l’una dentro l’altra come scatole cinesi che occorre per forza aprire.

Incontriamo il protagonista (Theo Decker – 30 anni circa, americano, New York la città da cui proviene) ad Amsterdam: palesemente strafatto e in preda a un forte delirio di febbre, da giorni è costretto all’immobilità nella stanza di un hotel della città vecchia. Non può uscire, indossa vestiti sporchi e inadatti alla stagione invernale (mancano pochi giorni al Natale) e a quanto pare, vista l’ossessione con cui controlla le cronache locali al telegiornale e sui quotidiani, l’ha combinata proprio bella. Il lettore impiegherà altre 800 pagine per venire a capo dell’enigma e recuperare, riannodandone faticosamente i fili, uno per uno, lentamente, le vicende che hanno portato questo giovane uomo fino a quell’albergo lussuoso e decadente affacciato su uno dei mille canali che trafiggono il centro di Amsterdam:

“Fuori, una pioggerella ghiacciata picchiettava contro il vetro della finestra e gocciolava sopra il canale; e malgrado la ricchezza dei broccati e la soffice carezza dei tappeti, la luce portava con sé una gelida eco di quella del ’43, un sentore di privazione e austerità, tè annacquato senza zucchero e a letto senza cena” (pag.14)


Fatti che Theo stesso tenterà di raccontar(ci) in prima persona, a cominciare da quella mattina in cui, per sua stessa ammissione: 

“Fu come perdere l’unico punto di riferimento in grado di guidarmi verso un luogo più felice, verso un’esistenza più ricca di legami e più congeniale” (pag.16) 

Theo si riferisce alla morte della madre avvenuta a New York 14 anni prima, in circostanze improvvise e fortemente drammatiche. Morte di cui Theo, per vari motivi, si sente responsabile. 
Quel giorno comincia per il ragazzino appena tredicenne un calvario fatto di affidi precari, traslochi improvvisi e sradicamenti altrettanto repentini: dalla casa dell’amico Andy Barbour, facoltosa famiglia dell’Upper East Side, presso cui trova conforto nonostante l’estrema formalità cui docilmente si sottomette – e che nasconde l’equilibrio instabile in cui versa ognuno dei sei membri del nucleo familiare – e i sentimenti di inadeguatezza che lo attanagliano:

“Quando mi accomodai ai margini del gruppo – setto o otto centimetri più in basso del resto dei commensali, su una seggiolina di bambù apparentemente fragile, diversa dalle altre – lo sguardo di Platt incrociò il mio senza troppo interesse e passò oltre” (pag.141)

fino a Las Vegas, la città in cui risiede il padre di Theo, un ex attore holliwoodiano con il vizio dell’alcool, fuggito da casa da quasi un anno dopo aver lasciato la famiglia in balia dei creditori:

“A New York ogni cosa mi ricordava la mamma – ogni taxi, ogni angolo di strada, ogni nuvola che compriva il sole – ma lì fuori, in quel rovente vuoto minerale, era come se lei non fosse mai esistita (…). Era come se ogni traccia di lei fosse stata bruciata dal nulla del deserto” (pag.258)

“La piscina era vuota, con due dita di sabbia sul fondo, senza nemmeno un giardinetto o un cactus. Tutte le superfici – elettrodomestici, banconi, pavimento della cucina – erano coperte da un sottile strato di sabbia” (pag.281) 

“Non mi ero ancora reso conto di quanto fosse inquietante la periferia di Canyon Shadows: una città giocattolo, che sfumava nel deserto sotto cieli minacciosi. La maggior parte delle case sembrava non essere mai stata abitata” (pag.280)


Le memorie ballardiane di questa città perduta si mescolano con la penombra e la decadenza di una New York misteriosa e crepuscolare: quella del mondo antiquario che Theo, alla ricerca della sua personale salvezza, inizia a frequentare poco prima della sua partenza per LA, e poi al suo ritorno, dopo la morte del padre.

“Una giungla di dorature risplendeva nell’ambiente rischiarato dalla luce che filtrava dai vetri sporchi della finestra: putti dorati, cassettoni e candelabri in oro e – a coprire l’odore del legnno antico – un tanfo di trementina, pittura a olio e vernice” (pag.150)


Theo percorre senza paura la propria infanzia, poi la giovinezza e la maturità, con un’urgenza drammatica e necessaria, tra stream of consciousness di matrice alcolica, pericolose derive solipsistiche e sprazzi di lucidità spaventosa e assoluta. 

L’amore non corrisposto, la passione salvifica per la letteratura, la musica e il cinema (numerosissimi i testi citati, da “Disperazione” di Nabokov a “Ladri di biciclette”) e per l’arte (alcune pagine monografiche sono un modello di competenza e rigore); il senso di colpa che attanaglia l’anima del sopravvissuto e le manie ossessivo-compulsive che ne derivano – la componente post-traumatica è analizzata con perizia, e come non potrebbe esserlo:

“Sapevo che la sua morte non era colpa mia, ma a un livello viscerale, irrazionale e inscalfibile, ero convinto che lo fosse” pag453)


la ricerca di una famiglia elettiva, il valore dell’amicizia (Pippa, Andy, e per ultimo Boris); l’orrore della tossicodipendenza e dell’alcolismo e infine il dramma dell’illegalità.

Sono le atmosfere, più che la trama (che risente a volte di qualche coup-de-théâtre di troppo, è stato notato dai critici), a incatenare al testo il lettore in un susseguirsi di similitudini e assonanze oniriche:

“Un pallore che mi fece venire in mente i martiri gesuiti rappresentati negli affreschi delle chiese che avevo visto durante la gita a Montréal: europei robusti e valenti, bianchi come la morte, torturati e bruciati nei territori degli Uroni” (pag.152)  

“Una candela si scioglieva in un bicchiere rosso tra ciondoli e rosari, spartiti musicali, fiori di carta velina e vecchi biglietti di San Valentino (pag.170) 

“Più su, il tramonto splendeva, sgargiante e spietato, e le nuvole rosso sangue sembravano l’apocalittica conseguenza di qualche catastrofe, detonazioni su atolli nel Pacifico, e la fauna selvaltica che fuggiva su uno sfondo di fiamme” (pag.311)


Quel che vale la lettura è proprio il fascino del contenente che, talvolta e inaspettatamente, si apre a mostrare il contenuto: una riflessione aspra sul senso della vita in sé. Su ciò che comunemente chiamiamo “famiglia” e “casa”: “(…) Qualche volta ci svegliavamo abbracciati come naufraghi o bambini piccoli” (pag.347)Su ciò che intendiamo quando parliamo di “felicità”: 

“Per quanto mi rendessi conto di essere stato fortunato, non riuscivo a esser felice o riconoscente per la mia buona stella. Era come se il mio spirito avesse subito una trasformazione chimica (pag.473)  

“Immobile in quell’incerto pomeriggio di primavera, mentre i bambini appena usciti da scuola mi correvano intorno, mi sentivo tradito e confuso come di fronte a uno scherzo di pessimo gusto” (pag.500-01)


di “ricordi” e di “passato”: Nel sentire quel tono di voce (…) fui travolto da una profonda tristezza, e quando ci guardammo fu come se in quel preciso istante tutto il passato venisse ridefinito e messo a fuoco, limpido come il cristallo, una immobile complessità fatta di piovosi pomeriggi primaverili, una sedia scura nel corridoio, il tocco quasi impalpabile della sua mano sui miei capelli” (pag.513) e di “amore”:

“Per anni era stata la prima cosa a cui pensavo appena sveglio, l’ultima quando andavo a dormire, e durante il giorno ci pensavo di continuo, in modo intrusivo, ossessivo e doloroso” (pag.534) 

“Lei era il mio regno scomparso, la parte illesa di me che avevo perso insieme a mia madre. (…) Paesi che non avevo mai visto” (pag.535).


Donna Tartt ci strizza l’occhio. Scivola leggera, disinteressata, sulla specificità della trama, sulla realtà delle cose, sulla concretezza degli avvenimenti e sui trucchetti cinematografici di cui è così parca (ma che sa utilizzare benissimo). Solo una questione rimbalza ossessiva: il perché dell’esistenza e di un suo, ipotetico, auto-determinismo
E’ a questa domanda che cerca di rispondere Theo Decker fin da quel giorno in cui, tredicenne, visitando il MET con sua madre, lega indissolubilmente la sua vita non solo alla versione più truculenta della Morte ma anche a un uccellino minuscolo, vivo e palpitante di sentimento, dipinto da uno dei più promettenti allievi di Rembrandt: il capolavoro di Carel Fabritius (1622-54) salvatosi miracolosamente all’esplosione di un magazzino di polvere da sparo che distrusse gran parte della città di Delft e in cui perì anche il suo autore, assieme a quasi tutte le sue opere: “Una creatura fatta di luce, che solo nella luce poteva vivere” (pag.581).

“Vecchiaia, malattia, morte. Nessuno aveva scampo. Anche i più belli non erano che morbidi frutti sul punto di marcire. Eppure, per qualche strana ragione, la gente continuava a scopare, a riprodursi e a sfornare altro cibo per vermi, mettendo al mondo altri esseri umani destinati alla stessa sofferenza, come se questo fosse uno strumento di redenzione, un’azione giusta o, persino, degna di ammirazione: trascinavano creature innocenti in un gioco senza vincitori. Neonati che si dimenavano, mamme dolci e compiaciute, drogate di ormoni, Ma non è adorabile? Ooohh. Bambini che schiamazzavano e correvano al parco, totalmente ignari dell’inferno che li aspettava: lavori monotoni e mutui esorbitanti e matrimoni sbagliati, calvizie, protesi all’anca, solitarie tazze di caffè in una casa vuota e una sacca per colostomia in ospedale. La maggior parte delle persone sembravano soddisfatte della sottile patina ornamentale e del sapiente gioco di luci che, di tanto in tanto, facevano apparire più misteriosa o meno ripugnante la sostanziale atrocità della condizione umana” (pag.552).


E’ nell’epilogo che si comprenderà appieno il senso della personale discesa agli inferi di Theo Decker, un viaggio necessario e irrimediabile: quello di tutta l’umanità.

Buona lettura 🙂

Nota: le citazioni sono tratte dall’edizione italiana (Rizzoli 2014), in traduzione di Mirko Zilahi de’ Gyurgyokai