"Open", di Andre Agassi e JR Moehringer (trad.Giuliana Lupi)

A distanza di quattro anni dall’uscita italiana, “Open” sta ancora lì, sugli scaffali delle nostre librerie. 

Einaudi parla di un totale di 15.000 copie vendute nel il primo anno di pubblicazione, risultato più che soddisfacente per una biografia sportiva; totale che però poi schizza a quota 110.000 nel 2012*. A oggi, l’autobiografia di Andrè Agassi di copie ne ha vendute, sul mercato italiano, circa 700.000**.
Il perché di tale successo è ormai noto: ferma restando l’indiscussa validità del testo, che senza temere l’iperbole occorre definire rivoluzionario per il genere a cui appartiene – poi ne parleremo – tanto hanno fatto il passaparola tra i lettori e soprattutto le recensioni giunte da ogni dove: da Baricco, che aprì proprio con “Open” la rubrica Una certa idea di mondo su Repubblica, fino a Valentino Rossi passando per Pipernoche ne citò addirittura un passo nel suo “”Inseparabili” con cui poi vinse lo Strega. 

Andre Agassi ospite di Fabio Fazio, novembre 2013. Qui il video dell’intervista

Per cercare di sbrogliare la matassa si potrebbe cominciare col dire che “Open”, di Andre Agassi, non l’ha scritto Andre Agassi.

Sì, dunque.
Succede che durante gli Open (ecco, appunto) del 2006, a un passo dal ritiro ufficiale, il pluripremiato tennista di cui sopra trascorre il poco tempo libero disponibile leggendo “The Tender Bar”, di JR Moehringer”.

Columnistper il LA Times e scrittore di successo, JR Moehringer (NewYork 1964) nel 2000 vince il Premio Pulitzer per meriti giornalistici e nel 2005 pubblica “Il bar delle grandi speranze”,opera autobiografica nella quale il giornalista racconta la sua difficile infanzia all’interno di una famiglia disfunzionale: “The Tender Bar” viene nominato “miglior libro dell’anno” da New York Times, Esquire, Los Angeles Times Book Review, Entertainment Weekly, USA Todaye New York Magazine.

Agassi rimane affascinato dalla storia di questo ragazzino abbandonato dal padre e cresciuto dalla madre single nel microcosmo di un quartiere di Dickensiana memoria (specie appunto, quello di un bar che JR comincia a frequentare dall’età di otto anni) ricco della più varia umanità. 
Quindi conclude libro, torneo e carriera agonistica, si mette in contatto con l’autore e senza mezzi termini gli propone una collaborazione per la stesura della propria biografia. Perché anche la storia di Andre Agassi è nota, ma soltanto a pochi, e il tennista ha deciso: è giunto il momento di raccontarla al mondo intero.
Vincitore di sessanta titoli ATP e di otto Slam; uno degli unici sette giocatori al mondo ad aver conseguito tutti e quattro i titoli dello Slam più altre vittorie da record tra cui medaglia d’oro al singolare olimpico, torneo ATP World Championship e Coppa Davis; “il salvatore del tennis americano”, come avevano gusto di chiamarlo i cronisti dell’epoca; uno dei primi tennisti ad abbandonare il classico serve & volley preferendo alla presenza a rete l’attacco dal fondo e la tecnica della risposta d’anticipo. Nonché fidanzato e poi consorte della tennista più premiata di tutti i tempi, Steffi Graf, e fondatore della AgassiPrep, una delle migliori “free public charter school” nella storia dell’educazione pre-universitaria americana.
Questo è Andre Agassi.
Ma anche un personaggio bizzarro(a partire dall’acconciatura sfoderata nei primi anni di carriera; un toupet! come rivelerà proprio nell’autobiografia), turbolento, attaccabrighe, vittima di clamorose e inspiegabili defaillance sul campo e altrettante nella vita privata, dal primo fallimentare matrimonio con l’attrice Brooke Shields alle scorribande alcoliche con abuso di sostanze psicotrope, fino alla decisiva affermazione professionale e alla redenzione personale.

Credits: NYtimes.com

Agassi ha intùito e vede lontano affidando le sue memorie a Moehringer che – da bravo e talentuoso giornalista qual è – non si fa scrupolo e crea un’opera che sa di capolavoro letterario. Una (auto)biografia che strizza l’occhio al GRA, per com’è messa, e che Moehringer riesce a interpretare al meglio grazie alle indiscutibili analogie che permeano entrambi i vissuti, quello del protagonista e quello del ghostwriter.

Ne viene fuori un turn-pages mozzafiato a metà strada tra il romanzo di suspance, la cronaca sportiva e la più stretta tradizione del romanzo di formazione americano.
Un’opera che pur liberandosi – date le sue caratteristiche prettamente narrative – dai cliché tipici del genere, quali la scrittura stereotipata e la dipendenza terminologica dall’attività sportiva cui si riferisce, non offende i lettori competenti, che trovano nella narrazione in prima persona – ad opera dello stesso Agassi – la preziosità del commento tecnico del vero insider (gustosissime digressioni sui compagni di sventura, da Connors a Courier passando per Becker e Sampras, sono incluse). 
Un’opera che sebbene focalizzata di necessità sulla carriera professionale del tennista non allontana il pubblico generalista, grazie all’universalità dei temi trattati, all’estrema sincerità con cui Agassi si racconta a Moehringer e all’empatia che il campione finisce per suscitare nei lettori, quelli americani in primis, affezionati alle specificità tipiche del romanzo di formazione tra cui il tema cardine della caduta e del ritorno a un successo maturo e consapevole.
Verrebbe insomma da catalogarlo male, lo sforzo Agassi-Moehringer; liquidarlo come l’ennesimo tentativo di autocelebrazione di quell’istinto tutto americano del selfmade-man che affronta sventure di ogni tipo e poi si rialza, drammaticamente ricoperto di ferite ma pronto come non mai al rushfinale. Non fosse che è tutto vero.
A partire dal rapporto conflittuale di Andre Agassi col padre, un ex pugile armeno nato in Iran, appassionato di tennis, uomo violento e autoritario che obbliga Andre e i suoi fratelli a estenuanti allenamenti convinto che almeno uno dei suoi figli diventerà il numero uno al mondo.

Papà dice che se colpisco 2500 palle al giorno, ne colpirò 17.500 alla settimana e quasi un milione in un anno. Crede nella matematica. I numeri, dice, non mentono. Un bambino che colpisce un milione di palle all’anno sarà imbattibile” (pag.37)

Andre – indubbiamente dotato di doti tecniche fuori dal comune – cresce privato dell’infanzia e del diritto allo studio, attività che il padre considera d’intralcio alla carriera sportiva, ed è costretto a passare ogni momento libero nel cortile dietro casa, vittima del “drago”: una macchina lanciapalle che il padre stesso ha modificato per valorizzarne potenza e aggressività. Uno scenario apocalittico, degno dei può visionari maestri della letteratura americana:

“La nostra casa è una bicocca troppo cresciuta costruita negli anni Settanta, stuccata di bianco con bordi scuri intorno agli spigoli screpolati. Ci sono sbarre alle finestre. Il tetto, sotto ai falchi morti, è rivestito di assicelle di legno, molte delle quali allentate o mancanti. (…). La casa è circondata da ogni lato dal deserto, che per me è sinonimo di morte. Punteggiato di arbusti spinosi, rotoli d’erba trasportati dal vento e serpenti a sonagli raggomitolati, il deserto intorno alla nostra casa non sembra avere altra ragione di esistere che quella di offrire alla gente un posto dove scaricare la roba che non gli serve più. Las Vegas – con la sua Strip, i casinò, gli hotel – si staglia in lontananza come un luccicante miraggio. Mio padre va e viene ogni giorno da quel miraggio – è direttore di sala di uno dei casinò – ma rifiuta di trasferirsi più vicino. Siamo venuti qui, in mezzo al nulla, in questa desolazione, perché soltanto qui poteva permettersi una casa con un cortile abbastanza grande per il suo campo da tennis ideale” (pagg. 40-41)(***)

“Nessuno mi ha mai domandato se volessi giocare a tennis e men che mai cosa farne della mia vita. Mia madre (…) dice che papà aveva già deciso molto prima che nascessi che sarei stato un tennista di professione” (pag.41). “Non so quali avrebbero potuto essere le alternative, ma il punto è proprio questo – non lo saprò mai” (pag.129)

Non meravigliatevi quindi, dice Agassi, del fatto che questo enfant prodige sia in realtà un ragazzetto insicuro, poco istruito, turbolento e fuori dagli schemi:

“Dicono che mi voglio distinguere. In realtà – come col taglio da moicano – sto cercando di nascondermi. Dicono che cerco di cambiare il tennis. In realtà sto cercando di evitare che il tennis cambi me. Mi definiscono un ribelle, ma non ci tengo a essere un ribelle” (pag.149)

Studi interrotti a metà delle superiori, problemi di autostima, discontinuità nelle prestazioni, incapacità di concentrazione, disordini alimentari, manie ossessive, amicizie sbagliate completano il quadro d’insieme, sconosciuto ai più, fino alla caduta agli inferi del 1997, a 27 anni – quella sì ben nota a tutti, perché culminata nella retrocessione in classifica (Agassi scende addirittura dal primo al 141esimo posto ed è costretto a ricominciare dai tornei Challenger, riservati ai tennisti meno qualificati), nell’ammonizione per utilizzo di stupefacenti, nel divorzio da Brooke Shields, sposata due anni prima.

Agassi non tace nulla, nell’intento – riuscito, grazie alla mediazione di Moehringer – non tanto di cucirsi addosso una figura bohémien di artista maledetto quanto di togliersi per sempre il peso della menzogna dalla coscienza, rivelando al mondo i retroscena di un personaggio-Agassi i cui atteggiamenti venivano dai più – sostenitori e detrattori – di volta in volta mal interpretati, mistificati, oppure duramente criticati; mettendo per iscritto, finalmente, le gioie e i dolori di un cammino personale, e solo poi professionale, affrontato con fatica e indiscutibile impegno.

Che dire, Un po’ ci affascina, questa cosa dell’essere svogliati di fronte a un nostro (presunto) talento che poi, non si sa come, riesce a venir fuori lo stesso a dispetto di ogni nostro sforzo per sopprimerlo. Vorremmo esserne capaci anche noi. Vorremmo pure noi esser così bravi in qualcosa, per natura; così bravi da steccare una palla apposta, a sette anni, per il solo piacere di far torto a chi scommette su di noi; così bravi da vincere un torneo juniores travolgendo futuri numeri uno del tennis mondiale senza quasi rendercene conto, così bravi ad attirarci le simpatie di un pubblico sconfinato. Così bravi a ricoprire il ruolo del bambino prodigio, così bravi da poterci permettere il lusso della trasgressione e della maleducazione, tanto nessuno può fare a meno di noi.

Naturalmente questa è la parte della storia che massaggia il nostro ego e ci stimola a quel guilty pleasure, come si dice, che viene dallo sbirciare le vite degli altri, quelli famosi, sperando sotto sotto che un po’ di quella lucetta un giorno brilli anche per noi. La questione che c’è anche dell’altro, quella viene dopo. Ed è una parte fondamentale – e non scontata – del lavoro costruito, mattone dopo mattone, dal doppio Agassi-Moehringer. 
Lo scrittore, col pregio di essere riuscito a trasformare in parola scritta tutte le suggestioni ricevute dall’altro, ossia l’atleta che forse più di ogni suo contemporaneo ha meritato, per virtù e carattere, il posto d’onore nella Hall of Fame. Suggestioni senza le quali, malgrado le indiscusse capacità dell’autore, la stesura di “Open” non sarebbe stata possibile. 

“Odio il tennis più che mai – ma odio ancora di più me stesso. Mi dico: e allora, a chi importa se odi il tennis? Tutta quella gente là fuori, tutti i milioni di persone che odiano ciò che fanno per vivere, lo fanno comunque. Forse il punto è proprio fare ciò che odi, farlo bene e con allegria. Odi il tennis, quindi. Odialo quanto ti pare, ma devi pur sempre rispettarlo – e rispettare te stesso” (pag.325)

La rivoluzione di “Open” e la sua differenza con quanto pubblicato prima e quanto sarà pubblicato poi, visto che con “Open” d’ora innanzi tutte le autobiografie sportive dovranno misurarsi, sta tutta qui.

Buona lettura

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*fonte: il Post Libri 
**fonte: l’Editore
*** In proposito, nella sconfinata bibliografia su “Open” che ormai si può trovare quasi tutta on line, il saggio di Francesco Longo merita una menzione particolare. Lo trovate su Minima&Moralia