"Dovunque, eternamente", di Simona Rondolini

Spaventa, la calibrata lungimiranza di questo testo, finalista della XXVI edizione del Premo Calvino e menzione speciale della Giuria:

“Per l’originalità della struttura, per la competenza con cui affronta complessi temi musicali, psicanalitici e animalistici, per il pregio di dar voce a un sentimento lacerato dalla vita, per l’eccellenza della scrittura”

In terza persona è narrata la vicenda di Laura, unica figlia – prima studentessa universitaria, poi adulta – di Luigi e Olga Paliani: lui, famoso direttore d’orchestra; lei, celebre cantante lirica. 

“È una famiglia inusuale e complicata quella di Laura: si parla poco, e la musica, sempre al centro di tutto, sostituisce le parole, avvicina e allontana i tre. Specialmente Luigi, che dal confronto con l’arte dell’amato Mahler esce ogni volta spossato fisicamente e psicologicamente” (*)

Proprio al termine di un ciclo di concerti mahleriani il grande direttore cade vittima di uno stato di profonda depressione. La famiglia si disgrega di fronte al dramma: vengono interpellati i medici migliori, somministrate le medicine più all’avanguardia, annullati i concerti e le apparizioni in pubblico della coppia, modificati i ritmi e le abitudini familiari, ma il gorgo inesorabile del disagio psicologico inghiotte Luigi – e di riflesso, infine, anche sua moglie e sua figlia.

“Laura, in seguito a profondi contrasti con la madre, decide di lasciare casa, far perdere le sue tracce e iniziare una nuova vita in un’altra città (…). Poi un giorno un telegramma la raggiunge costringendola a fare i conti con tutto ciò che si è lasciata alle spalle” (*)

L’autrice affronta l’argomento della malattia mentale in tutta la sua crudezza e scabrosità, avendo ben cura di evitare l’autocompiacimento nel dipingere non solo i fenomeni ciclicamente depressivi del direttore d’orchestra Luigi Paliani ma anche e soprattutto il doloroso cammino auto-analitico della protagonista, di cui non ci troviamo mai, nemmeno per un attimo, ad invidiare lo status di ragazza interrotta
Sia perché Simona Rondolini non si mostra mai condiscendente verso alcuno degli aspetti più critici del percorso di crescita di Laura Paliani, piuttosto osservandone il succedersi con piglio decisamente esegetico, sia perché, di conseguenza alla praticità verso il disagio psicologico la cui scienza l’autrice padroneggia in maniera ineccepibile, la malattia mentale viene descritta per com’è, senza orpelli: subdola, serpeggiante, discontinua, e spesso nascosta alla vista – sia esterna (non vale insomma il vestirsi di nero o una vita bohémien, per evidenziarla e rappresentarla), sia interna, personale, fatta com’è spesso di eventi minimi, quasi irrisori che sovente non vogliono essere (o non riescono a essere) considerati pregnanti né da chi di disagio mentale soffre, né da coloro che lo compartecipano.
Per paradosso, questa studiata oggettività clinica nella descrizione, che pare così facile alla penna ma non lo è, a partire dalle scelte stilistiche e lessicali sempre accurate, mai né esageratamente minimaliste né stucchevolmente ridondanti, porta il lettore (ma anche l’autrice) ad una naturale empatia nei confronti dei personaggi principali verso i quali viene facile rapportarsi in un sentimento sempre com-passionevole e mai di giudizio critico.
Una famiglia particolare in cui i semi del disagio nascono presto e lentamente crescono nascosti nell’ombra, impercettibili ma costanti come solo lo sanno essere le creature vegetali nel loro sviluppo lento di mesi e di anni. Piccole schegge di vetri rotti che nessuno dei tre protagonisti è capace né di osservare né di comprendere in tutta la gravità che meriterebbero, in una serie ininterrotta di proiezioni del se stesso nell’altro, che lungi dal mostrare la verità dei fatti, la ingarbuglia ancora di più creando una mescolanza implosiva e letale di autogiustificazioni, di minimizzazioni o al contrario di amplificazione e drammatizzazione. 

“C’erano voluti tutti quei chilometri di distanza ma purtroppo è così che succede: fin quando ci stai dentro, a qualunque realtà ci si abitua e si finisce per trovarla normale” (p256)

“Dovunque, eternamente” è un’opera profondamente drammatica sia per la vicenda narrata, che pur di fantasia non manca certo di verosimiglianza, sia per il messaggio che veicola: l’assoluta impossibilità di una realtà oggettiva, di un unico punto di vista, di un criterio logico di scelta e discriminazione consapevole che possa portare al raggiungimento di un fine ultimo e perfetto, la piena realizzazione del sé. Ne è paradigma l’arte musicale di Mahler, materia che Simona Rondolini tratta con sensibile professionalità e che diviene parte necessaria nell’economia strutturale del romanzo – sia quando presente, sia ancora di più quando assente.


Ciò che rende il romanzo altamente commovente, non votato al pessimismo più nero ma ricco di speranza, è la risposta alla domanda principe che Luigi Paliani per primo, e poi Olga e Laura continuano a porsi – assieme all’autrice e al lettore – per tutta la lunghezza dell’opera (e anche oltre):

“Quel dovunque, eternamente non risolveva nulla. Finché durava la musica ci credeva, ma poi l’ewig rimaneva a fluttuare nell’aria, non più reale e neanche scomparso del tutto, oscillante fra se stesso e il proprio contrario: eternamente, mai più, eternamente, mai più” (p142) 

“Ce l’aveva a morte con tutti loro. Ce l’aveva con Mahler che aveva stregato anche lei, corpo e anima, con quell’ansia affamata di bellezza e quella sensualità tormentosa; e adesso che era incapace di sottrarsi, pretendeva di venderle sottobanco questo dovunque, eternamente come soluzione buona per tutti i conflitti, dopo che non aveva fatto altro che mostrarne l’insanabilità. Lei non la voleva, quella pacificata rassegnazione, se doveva morire per averla. Che se ne faceva? Lei voleva l’eternità subito, lì e allora, non in quella patria lontana di cui non voleva sapere niente. Non voleva sentirsi dire che fa male ma tutte le cose belle finiscono. (…) Il passato, il presente e il futuro li voleva sempre con sé, tutti insieme, non voleva rimpiangere né aspettare. E voleva con sé, per sempre, tutte le persone che aveva amato e che amava” (p143)

Se perseverare fino all’autodistruzione nella ricerca di una perfezione sconfinata nel tempo e nello spazio o accettare umilmente l’ideale adattato di una vita di necessità limitata dalla stessa condizione umana, questa è una scelta che spetta ad ogni individuo: un cammino profondamente intimo, da compiersi spesso in solitudine ma la cui destinazione finale deve essere condivisa con chi ci è più caro.

“Se per ottenere questo doveva annullare se stesso, ridursi a una forma tanto più permeabile quanto più indistinta, allora l’avrebbe fatto, qualunque presso ci fosse da pagare” (p84)

“Dopo un po’ smetti pure di roderti il fegato perché ti sono capitate delle brutte carte, e cominci a capire che è proprio il mazzo che è truccato. (…) Ogni tanto ti capita perfino di pensare che non in fondo non è tanto male, ma devi saperci fare” (p201-202)

Buona lettura 🙂