"L’uccello dipinto", di Jerzy Kosinski

“Vado a dormire un po’ più a lungo del solito. Chiamatela pure Eternità”

Così lascia scritto su un biglietto Jerzy Kosinski – all’anagrafe Josef Lewinkopf, nato a Lodz (Polonia) il 14 giugno 1933 – prima di suicidarsi nel suo appartamento di Manhattan, all’età di 58 anni. 

Emigrato negli States da più di un trentennio, ricercato professore universitario (dottorato alla Columbia, cattedra di lingua e letteratura americana a Yale, Princetown, Davenport e Wesleyan), Kosinski era apprezzato autore di saggi e di varie pubblicazioni – nonché marito di una ricchissima vedova facente parte dell’upperclass industriale pre e postbellica e poi, in seconde nozze, di Katherina “Kiki” von Fraunhofer, erede dell’omonima aristocratica famiglia bavarese, con la quale trascorse vent’anni di vita mondana e spregiudicata tra amicizie altolocate, show televisivi e riconoscimenti pubblici.

Eppure, nonostante la celebrità e i luccichii, tante sono le ombre nella vita di Kosinski. Ha disturbi ossessivi, soffre di disagi psichici; su di lui girano parecchie voci (c’è chi lo vuole addirittura implicato con la CIA) e nel 1982 viene messa in dubbio, dalle pagine di una rivista, l’autenticità di alcuni suoi scritti compreso quella de “L’uccello dipinto”, la sua opera più famosa, data alle stampe nel 1965. Questa vicenda lo segnerà per sempre e sarà alla base della depressione che lo condurrà al suicidio. 
Resta fitta di nodi irrisolti, infatti, anche la sua biografia. A parte il rocambolesco arrivo negli Stati Uniti, organizzato attraverso la falsificazione sistematica di documenti e lettere di raccomandazione a firma di professori universitari inesistenti che Kosinski per anni presentò al Partito, per convincerlo della bontà delle intenzioni e della fedeltà al regime, ciò che ha sempre sollevato questioni è il suo trascorso di infanzia e prima adolescenza. 
La famiglia ebrea Lewinkopf, benestante e istruita, alla vigilia dell’occupazione nazista si trasferisce lontano dalla città e cambia cognome. A Josef viene fornito un nuovo certificato di battesimo, ma poi tutto si confonde. Come l’autore più volte ha sostenuto, ma anche smentito, parrebbe che i genitori ad un certo punto, temendo i campi di sterminio, lo avessero affidato a dei contadini.

“Steps” (“Passi”), pubblicato da @ElliotEdizioni nella collana Raggi (Settembre 2013),
in traduzione di Vincenzo Mantovani – che cura anche “The Painted Bird” nell’ed. qui proposta.
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L’opera, accolta freddamente dalla critica soprattutto a causa 
della spietatezza e dell’estremo erotismo contenuto in alcuni passi, esce nel 1968 e vince il National Book Award
divenendo presto un classico della letteratura contemporanea USA

Il problema è che di tutto questo Kosinski scrive ne “L’uccello dipinto”, raccontando appunto le vicende di un ragazzino poco più che seienne costretto dalle circostanze a vagabondare, solo e sperduto, nelle più profonde campagne rurali della Polonia invasa dai nazisti, messa a ferro e fuoco dai partigiani e infine conquistata dall’esercito sovietico.
Senza nome, il bambino viene indicato soltanto come “The Gipsy”, lo zingaro, o “il nero” – a far riferimento i capelli scuri e l’incarnato che ne tradiscono la provenienza etnica rispetto al biondo teutonico e che ne certificano lo status di paria e ricercato, nonché portatore di sventure e malattie nell’immaginario superstizioso e arcaico dei poverissimi villaggi contadini che si trova ad attraversare.
Esposto a qualsiasi forma di brutalità, il bambino della storia è oggetto di pestaggi e privazioni, sottomesso alla fame, al freddo, ai malanni e al lavoro dei campi; è testimone di stupri e violenze e proprio a causa di tutti questi traumi a un certo punto perde anche l’uso della parola. Recuperato a fine conflitto da un contingente dell’armata rossa, viene mandato in un orfanotrofio attraverso cui poi riesce a ricongiungersi ai genitori, in maniera completamente fortuita. Un ricongiungimento che tuttavia riesce tardivo e per certi versi ormai inutile, sicuramente non risolutivo.

Naturalmente l’opera ha un ritorno deflagrante. In patria il volume viene proibito (fino al 1984) e tacciato di antinazionalismo a causa dei toni utilizzati nel descrivere le condizioni della Polonia rurale: effettivamente Kosinski non si avvale di tinte neutre per dipingere una dimensione sociale le cui più evidenti caratteristiche sono, agli occhi dell’autore, la violenza che permea ogni aspetto della vita familiare e sociale, la mentalità primitiva e superstiziosa ai limiti della paranoia (fino ad arrivare perfino all’omicidio rituale), la povertà estrema, l’assenza di qualsiasi organismo statale o religioso a far da collante sociale, la sistematica risoluzione dei conflitti attraverso la sottomissione dei più deboli. In patria i sostenitori di Kosinski – colpevole due volte, perché scrivendo in inglese rinnega sia nazione sia lingua madre – vengono minacciati e costretti a sottoscrivere pubbliche dichiarazioni di condanna nei confronti dell’autore mentre i pochi che riescono a recuperare qualche copia clandestina non esitano a evidenziare il carattere edulcorato del testo, le esperienze raccontate all’interno del quale non sarebbero talvolta neppure minimamente paragonabili al reale inferno degli anni ’42-45.

Vien fuori però che “L’uccello dipinto” non se la passa bene neanche negli States. Il testo scandalizza per la sua crudezza, giudicata eccessiva e a tratti voyeuristica. La brutalità di certe scene destabilizza un pubblico che, se pure ormai abbastanza disincantato, non è ancora pronto per opere di questo tenore.
Per altro gli americani, così ligi alle classificazioni, faticano a inquadrare l’opera che per stessa ammissione dello scrittore non è soltanto una narrazione autobiografica (mai Kosinski ha ceduto ai giornalisti che gli domandavano quanto di personale ci fosse nelle vicende del piccolo orfano), ma non è neppure un romanzo, avvicinandosi più a un documentario non-fiction dato il carattere indiscutibilmente oggettivo di alcune fonti utilizzate. Proprio in questa criticità affonda ancora gli artigli la rivista Village Voice quando ben 17 anni più tardi accusa Kosinski di aver spacciato per realmente accaduti i fatti narrati ne “L’uccello dipinto” quando invece doveva apparire ben chiaro (in accordo con la propaganda polacca, e fu proprio questo punto a distruggere Kosinski) che non fossero altro se non il frutto dell’immaginazione dell’autore.

Presenza comprovata o meno di un certo realismo magico, quel che stupisce è la freschezza dello sguardo, un osservare di bambino che, come tutti gli sguardi infantili, è sempre ricco di meraviglia qualsiasi siano le circostanze; una curiosità immediata e atemporale, fissa nell’immediato presente, del tutto priva di retropensiero sul prima e sul poi. A far da contrappunto alla crudezza degli episodi, la voce poetica dell’innocenza e dello stupore, specie per quanto riguarda l’osservazione della natura e delle stagioni:

“D’inverno, quando infuriava la tormenta e il villaggio giaceva nel forte abbraccio di nevi insormontabili, stavamo insieme nella capanna riscaldata e Olga mi parlava di tutti i figli di Dio e di tutti gli spiriti di Satana” (pp65-66)

“Nello scricchiolio dei fitti rami di faggio,nel fruscio dei salici che tuffavano le foglie nell’acqua, sentivo le parole delle mitiche creature di cui Olga mi aveva parlato” (p80) 

“La sinfonia della foresta era interrotta solo dallo sbuffare di una locomotiva, dallo strepito dei vagoni, dallo stridore dei freni. La gente s’immobilizzava, guardando verso i binari. Gli uccelli tacevano, la civetta si ritirava nel suo buco avvolgendosi dignitosamente nel suo mantello grigio. La lepre si alzava sulle zampe posteriori, drizzando le lunghe orecchie, e poi, rassicurata, riprendeva i suoi balzi” (p162) 

quasi che l’interpretazione magica della natura e del creato possa in qualche modo esorcizzare il dramma di un presente insostenibile, il cui orrore si rivela a tratti:

“Mi sembrava di cadere in un pozzo profondo dalle pareti umide e lisce coperte di muschio spugnoso. In fondo al pozzo, invece dell’acqua, c’era il mio letto caldo e sicuro dove potevo dormire tranquillamente e dimenticare ogni cosa” (p142)

Una magia che presto ha fine, un momento, nel racconto, in cui il protagonista, di quel bambino che era stato, perde le fattezze; la fiamma della speranza, la luce dei ricordi passati, va a spegnersi, paragrafo per paragrafo, allo stesso modo della voce.

“Fu allora che compresi quanto fosse misericordiosa la volpe quando uccideva le oche spezzandogli il collo con un morso” (p183)

“Dio non aveva motivo d’infliggermi un così terribile castigo. Probabilmente ero incorso nell’ira di qualche altra forza, che stendeva i suoi tentacoli sopra coloro che Dio aveva abbandonato per una ragione o per l’altra” (p212)

“(…) l’ordine del mondo non aveva nulla a che fare con Dio, e Dio non aveva nulla a che fare col mondo. La ragione era semplicissima. Dio non esisteva” (p267) 

“Cercai di immaginare cos’aveva pensato prima di morire. Quando era stato buttato giù dal treno, i genitori o gli amici gli avevano indubbiamente assicurato che avrebbe trovato persone disposte ad aiutarlo, persone che lo avrebbero salvato da un’orribile morte in un grande forno. Forse si era sentito ingannato, tradito. Avrebbe preferito restare aggrappato ai corpi caldi del padre e della madre nel vagone affollato, sentire la pressione e gli odori aspri e roventi, la presenza di altra gente, sapere che non era solo, sentirsi dire da tutti che il viaggio era soltanto un malinteso” (p161)

“Disteso sulla schiena, guardavo le nuvole. Mi galleggiavano sopra la testa in un modo che anche a me sembrava di galleggiare. Se era vero che madri e figli potevano diventare proprietà di tutti, allora ogni figlio avrebbe avuto molti padri e molte madri, e innumerevoli fratelli e sorelle. Mi pareva troppo bello per poterlo sperare” (p250) 

Buona lettura.