“La sindrome di Ræbenson”, di Giuseppe Quaranta

Durante una cena a casa di amici, nel chiarore lunare che rischiara le cupole della città eterna mentre l’odore dell’antizanzare si sparge in terrazza, il quarantenne psichiatra Antonio Deltito è preso da un grande spavento: all’improvviso si rende conto di non rammentare la presenza stessa del collega Berra, congedatosi in anticipo dalla tavolata perché vittima di uno sfogo di pianto dovuto al divorzio appena ratificato. La figura stazzonata del Berra, sul quale gli amici stanno spettegolando, gli si è come cancellata dal ricordo. A questa repentina amnesia seguono confusione mentale e tremori; nella notte si aggiunge l’emicrania, che necessita del pronto soccorso. Attacco di panico, sentenziano i medici. Eppure, all’atterrito Deltito sorge il sospetto – dopotutto è medico – che la questione non sia derubricabile a certe forme cliniche. La serie di analisi a cui ossessivamente comincia a sottoporsi non rivela tuttavia alcuna patologia fisica, eccetto una lieve disfunzione alla vista e uno stato generale di stress acuito dalle pratiche compulsive che Deltito mette in atto al fine di prevenire nuovi attacchi.

“Ebbe la sensazione che qualcosa di molto importante fosse successo nella sua vita senza che lui ne avesse più memoria, e che le pareti la stessero per sussurrare. (…) Ricordare qualcosa che forse non aveva mai vissuto: era mai stato formulato un paradosso più assurdo di quello?”

Come stabilire, con quali strumenti misurare la circonferenza della propria sanità mentale?” chiede Deltito al migliore amico, compagno di studi universitari, anch’egli psichiatra di reparto – ovvero il narratore senza nome che per quasi trent’anni continuerà a indagare l’insieme di sintomi che a cadenza via via più stretta e invalidante affliggeranno il collega per tutto il resto della vita e sino alla morte, che per Deltito arriverà nella forma del suicidio. Sintomi riconducibili alla misteriosa Sindrome di Ræbenson di cui Deltito stesso, in conclamata autodiagnosi, a un certo punto dichiara di essere sicura vittima.

“Io ho sempre avuto l’impressione, in quei momenti di sconvolgimento dei sensi, che qualcosa di fortemente malvagio lo stesse attraversando, come una spada.”

La caratteristica principale di questa fantomatica affezione è la perdita del ricordo, la cui consapevolezza arriva naturalmente a cose fatte. Immaginiamo cosa significhi renderci conto di aver dimenticato intere fette della nostra vita, dall’amico d’infanzia a un importante traguardo professionale, fino alla cancellazione totale degli anni trascorsi insieme a un’amatissima fidanzata. Queste prese di coscienza portano Deltito a un progressivo sgretolamento mentale e fisico ([come se] “lo scompiglio creato da un disordine mentale fosse solo il capriccio di un bambino che mette a soqquadro una stanza, e non un terremoto che lascia crepe nei muri, pavimenti vacillanti e detriti”) sia per la violenza dirompente degli attacchi sia perché nessun piano terapeutico, dalle medicine all’elettroshock, pare in grado di risolvere la questione. Amnesia dissociativa, “brain fog, stato di assenza”, demenza precoce, epilessia, disturbo dell’attenzione con iperattività: per il Deltito vengono tirate in causa le ipotesi più pertinenti, anche sulla base di alcuni episodi giovanili riconducibili a disturbi di questo genere e per una certa allure svagata di cui Deltito non ha mai fatto mistero. L’eziologia della sindrome di fatto però resiste: pare che la malattia ne escogiti sempre una nuova per scappar via dalla propria definizione. Deltito perde il lavoro, i contatti con il mondo professionale, gli amici; anche la relazione con la compagna Delia comincia a scricchiolare: la fragilità mentale – a cui Quaranta non si permette di concedere il guilty pleasure d’una stranezza affascinante – distrugge non solo chi ne soffre ma anche chi le gravita intorno. (1)

“Tutti concepiscono a un certo punto dei loro giorni che se c’è qualcosa che rende vivi è sentire di avere dei ricordi che sono propri e di nessun altro. Pensiamo che il tempo passerà e lo farà all’infinito, ma nulla toccherà quei ricordi, niente li violerà. Noi resteremo una traccia, per quanto flebile, irripetibile.”

Durante gli attacchi, Deltito sperimenta gravissime manifestazioni dissociative, il cui carattere depersonalizzante (l’uscire da sé) diventa, nell’economia del romanzo, il filo rosso a legare i temi sui quali Quaranta intende ragionare. “La sindrome di Raebenson” infatti gioca su due livelli paralleli, lavorati separatamente sia sulla trama sia nella forma. Da una parte, si tratta di un romanzo di ricerca all’interno del quale il protagonista, il narratore senza nome, racconta della propria vita professionale spesa – fra visite, convegni, papers, conferenze tra colleghi – a documentare lo stato clinico dell’amico e nell’analisi della sindrome; dall’altra, ci troviamo di fronte a una narrazione a scatole cinesi in cui il protagonista stesso si trova a indagare una serie di flashback temporali relativi alla vita e alle memorie non solo dell’amico ma anche di tutti coloro – familiari, colleghi, amici, compagne – che della vita di Deltito hanno fatto parte.

“E io stia sicuro che, se avessi il minimo dubbio di scrivere a un fantasma, userei tutte le accortezze del caso. Le ombre che ci hanno preceduto meritano che si usi con loro il massimo rispetto.”

“La realtà aveva un frastuono che la notte e i sogni mal sopportavano.”

Al primo livello si accompagna uno stile narrativo pulito, che accarezzando con un’ironia misurata, mai fuori luogo, la forma del saggio accademico lascia trasparire competenza professionale e conoscenza del contesto, pur senza scivolare nei tecnicismi. Qui si innesta la riflessione che mi pare più significativa per Quaranta: mettere a tema l’incapacità di accedere alla piena conoscenza di un fenomeno, nel caso in cui il sistema di indagine dipenda esclusivamente da un metodo a classificazione.

L’analisi sulla sindrome di Deltito ne è esempio paradigmatico – e provocatorio: in psichiatria il tema della diagnosi, difatti, è di grande rilevanza e complessità, poiché dipende per tanta percentuale da ciò che il paziente è in grado di comunicare di sé e del suo disturbo; è concreta la possibilità che la diagnosi, pur corretta e utile a dare un nome al proprio disagio, sia di fatto insufficiente (perché limitata ai sintomi classificati) a rendere totale evidenza della dolorosa fragilità esperita da molti pazienti, come concreto il rischio che per varie motivazioni lo specialista operi pericolose inversioni di metodo.

Ad ampliare il senso di straniamento c’è il divertissement di Quaranta, che a suffragio delle tesi esposte dal narratore senza nome produce una serie di documenti bio-iconografici in una voluta e caleidoscopica mescolanza fra testi, scatti fotografici realmente esistenti ma re-interpretati (quanto è facile talvolta far dire a uno scritto unicamente quello che si vuole che dica!), scampoli di conversazioni estrapolate e manipolate.

“La realtà aveva un frastuono che la notte e i sogni mal sopportavano.”

Al secondo livello corre parallelo il viaggio di tenebra conradiana che il narratore senza nome compie all’interno della memoria dell’amico. Nutrendosi di ricchi riferimenti letterari l’autore costruisce una propria cornice di conforto formale, a metà strada fra romanzo gotico, thriller psicologico e realismo magico (suggestive le pagine sul viaggio a Taranto, per esempio) all’interno della quale il narratore senza nome si muove fisicamente alla ricerca delle origini della sindrome, per le parti che appaiono legate a questioni genetiche. In una serie sempre più articolata di matrioske, i capitoli scivolano l’uno dentro l’altro nel recupero delle testimonianze familiari, fra racconti di prima mano e aneddoti di bisnonni centenari, anomalie scheletriche, gravidanze gemellari, sparizioni improvvise, gesti anticonservativi e terrori di complotto.

“Ho avuto come la sensazione di essere un aereo che decolla e rimane a pochi metri dal suolo. Ho iniziato a immaginare i rettangoli degli appezzamenti di terreno che si vedono dagli oblò, solo che tutto rimaneva così poco distante. Non c’era decollo, non c’era volo. A un certo punto, anziché vedere attorno a me i colori brillare nel pulviscolo, o le immagini impreziosirsi di riflessi argentei, ho cominciato a percepire in maniera più densa, non so come esprimerla, l’oscurità della notte dietro le cortine. Mi è sembrato di vedere, se non suona troppo paradossale come espressione, l’oscurità, quel buio visibile (a darkness visible) di cui ha parlato Milton. E’ stato come concepire il vuoto.”

“Cos’è, dunque, mi sono chiesto, la sindrome di Ræbenson, è davvero un’epifania demoniaca? Una torre oscura e una prigione del dolore senza fine? O è, piuttosto, la maschera per celare una menzogna, un sistema per occultare una verità ai limiti del terrore?”

La sindrome di Raebenson possiede infatti altre due caratteristiche: sembra donare a chi ne soffre una longevità inconsueta – tanto da sfiorare l’immortalità (2), nonostante le terribili sofferenze fisiche che questo progressivo decadimento produce, e pare oggetto di studio di una setta di scienziati maledetti, i Ræbensonologi, che impiegano ogni sforzo nel tentativo di rintracciare e studiare chi è affetto dal male e che, per qualche oscuro motivo che qui non si può anticipare, non hanno intenzione di rendere pubblici i risultati delle ricerche. E’ Deltito stesso a rivelare all’amico – confessione che al principio viene derubricata a delirio maniacale, come ovvio – di sentirsi braccato da alcuni di questi studiosi.

Nel momento in cui il narratore senza nome riuscirà nel compito di assegnare alla sindrome di Raebenson una propria definizione, e quindi a renderla reale, inserendola all’interno del DSM-7 – aggiornata e distopica versione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders – ecco allora l’umanità si troverà nella condizione di avere a che fare con un sé inedito – forse davvero altro.

“La maschera che indossiamo è la scelta della nostra rappresentazione agli occhi del mondo. Forse la vecchiaia, con il suo corteo di corruzione, non è altro che questo lento calare del velo, dell’immagine fittizia che siamo soliti portare.”

Note a margine: (1) all’inizio del libro pensavo che la sindrome fosse un tentativo a giustificazione di certe fragilità mentali ancora insolute o dal quadro complesso – come un pensiero consolatorio; solo poi ho capito che di mezzo c’era l’idea dell’accettare l’inspiegabile, dello sforzo per arrivare a toccare certi punti che però restano comunque sospesi, per quanta fatica e struggimento si impieghino; una lotta titanica d’equilibrio fra l’assumersi l’obiettivo di tirar fuori senso, soluzioni e cure ed educarsi all’osservare, come un tirarsi indietro, prender distanza – senza abbandonare. (2) Credo che la riflessione dell’autore non sia tanto sul modo in cui parlare di salute mentale (al limite, sulla sua definizione) quanto su temi filosofici dell’identità, a cui si aggiungono i pensieri  sull’invecchiamento. E’ questo in realtà secondo me il tema che forse ha più affascinato l’autore, su cui rivela tratti di una particolare tenerezza e compassione: cosa accade quando l’essere umano smette di crescere e comincia a modificarsi, una trasformazione che agli occhi appare come un ripiegamento (tornare bambino, retrocedere in sé, chiudersi al mondo tramite la sospensione dei sensi e l’immobilità fisica) ma che, in un’ipotesi suggestiva quanto misteriosa, potrebbe definirsi come la preparazione a un salto ulteriore, che esiste già ma che ancora non siamo in grado né di vedere né di spiegarci. Ps. “La sindrome di Raebenson” va letto con impegno, di notte, tutto in fila.

“L’immortalità, ma chi potrebbe mai volerla? Il solo pensiero di non morire in tutto e per tutto, corpo e anima, mi farebbe impazzire. Che io continui a essere qui mentre tutto il resto passa. È una cosa che proprio mi annienta.”

“Java Road” – “Il regno di vetro”, di Lawrence Osborne (trad. Mariagrazia Gini)

Nota: longform – tempo di lettura 10min

A ogni nuova uscita mi domando cosa significhi leggere Osborne, di cui, va detto, sono grande appassionata. Credo sia perché è così irritante che a volte faccio fatica a sostenerlo, per quel suo modo che ha di prenderci tutti in giro: sicché per me è una questione di puntiglio, oltre che di fascino.

“La storia da raccontare non era lunga ma ero certo che vi potessero cogliere un nonsoché di esotico. E la loro distanza dai fatti la rendeva adeguatamente pornografica.”

Nato nel 1958 in Inghilterra, Lawrence Osborne studia al Fitzwilliam College di Cambridge e poi ad Harvard. Comincia con il mestiere di giornalista-viaggiatore subito dopo il diploma: percorre tutta l’Europa (per l’Italia passa più volte: in Toscana vivevano dei parenti acquisiti dai quali andava per l’estate), si sposta nella penisola balcanica, poi Nord Africa ed Estremo Oriente. Per molti anni risiede a New York, luogo in cui la sua carriera di columnist e reporter spicca il volo. Nel dettaglio, Osborne è autore di long-form journalism: per anni ha scritto su diverse testate, tra cui The New York Times Magazine, The New Yorker e Condé Nast Traveller; su Gourmet e Men’s Vogue ha curato, inoltre, valide e seguitissime rubriche di enogastronomia. Dal 2011 risiede a Bangkok. Al romanzo (“breve”, come tiene spesso a sottolineare) arriva quasi per caso, al successo pure: consapevole della sua abilità come narratore ma abbastanza incredulo, almeno all’inizio, di fronte all’impatto dei suoi testi narrativi.

La sua storia professionale, come si vede, è già di per sé intrigante; lontano dallo stereotipo dello scrittore escapista, Osborne deve parte della propria fortuna a questo punto di rottura con la tradizione: se l’America difatti lo riconosce erede della spy story internazionale (viene spesso avvicinato a Graham Greene e Patricia Highsmith), l’Europa d’altra parte lo elegge a esponente di quell’odi et amo usualmente dedicato agli autori che, appunto, si discostano dal venerato cliché di cui sopra. A ciò si aggiunga, carico da novanta, la spinosa questione del romanzo esotico.

“Era scesa una tregua, come se gli studenti, con le loro ultime volontà e i testamenti cuciti nelle giacche, avessero deciso di fermarsi qualche giorno per recuperare, e dunque le strade erano tornate a essere luoghi di tranquillità consumistica. Oppure, nel caso di Java Road, una distesa di pompe funebri piene di drappi scuri e insegne in bianco e nero, infestate dagli spettri dei magnati dello zucchero che si erano arricchiti con il commercio da Giava e i cui imponenti uffici un tempo troneggiavano proprio qui, come simboli della magnanimità coloniale.”

Pare incredibile data la varietà delle trame, eppure c’è caso che i Leitmotiv osborniani sempre a uno si riducano: l’enigma della stanza chiusa, ove per stanza chiusa si intende un ambiente altro all’interno del quale l’autore ha piacere di collocare le statuine dei suoi personaggi e stare a vedere cosa succede. In sostanza si tratta di protagonisti che per i più svariati motivi – e qui sta il nodo: la capacità di scovare varianti – vengono removed (così le recensioni oltreoceano) dall’ambiente geografico, sociale e politico di appartenenza per nascita e transplanted, ossia trapiantati, all’interno di contesti del tutto alieni all’esperienza. Questo “divorzio dall’abituale” crea nel protagonista una sorta di depersonalizzazione che trova concretezza di simbolo in alcuni punti fermi: solitudine, esclusione sociale, alterata percezione del tempo cronologico, incapacità di comprendere la dimensione politica, difficoltà di adattamento alle condizioni climatiche, resi tangibili attraverso la tecnica del romanzo d’atmosfera. Approccio narrativo che in questo caso si identifica, tornando al punto sopra, nell’ambientazione esotica: dalla Grecia a Macao, da Bangkok 2014, nella stagione del colpo di stato (“Il regno di vetro”) alla Hong Kong dei tumulti studenteschi al momento del ritorno alla Cina (“Java Road”) Osborne non smette di solleticare il lettore col guilty pleasure del mondo allo specchio, raccontando una realtà parallela che da sempre è oggetto di fascinazione e sempre lo sarà. Con un dettaglio: l’autore conosce per davvero i luoghi descritti, perché lì ha vissuto e lavorato; ne comprende le dinamiche sociali, ne ha scovato pregi, difetti, crepe e sintonie, ne ha approfondito la dimensione politica, economica, fisica.

“La vita del giornalista sfigato è pittoresca fin verso i quarant’anni. Dopo, si fa vivo lo squallore.”

“Ci avevano surclassati. Noi ci trascinavamo come un branco di elefanti semidormienti al seguito di notizie divulgate altrove al triplo della velocità. Servivamo ormai solo a dare un senso di legittimità a informazioni che credevamo degne di essere sancite dalla stampa, fosse anche solo digitale. Ma era diventata una specie di truffa. Noi mentivamo come tutti gli altri, pur essendo assolutamente certi di non mentire, e disprezzando chi, secondo noi, mentiva.”

L’abilità di Osborne, di fatto, è la capacità di inserire il resoconto di viaggio(1) all’interno della struttura narrativa di finzione, ove – per sua stessa ammissione – le vicende sono immaginate (…ci sarà da credergli?) ma i personaggi ni. Peter Kemp del Sunday Times definisce questo sistema di scrittura “atmospheric reportage of a place and time” identificando così uno sguardoche tramite l’osservazione di dettagli concreti riesce a dare l’idea del tempo storico che scorre attraverso un luogo specifico. Una dimensione spaziotemporale da cui Osborne taglia fuori il lettore, così di netto – ecco da dove viene l’irritazione! – rendendolo di fatto fruitore passivo riguardo a situazioni rispetto alle quali, va detto, in pochi al momento possono dirsi più consapevoli di lui. Conoscenza di luoghi e di temi attraverso cui, per altro, riesce a evitare il rischio di “latent orientalism”.

“Il tutto non avrebbe spostato di una virgola la mia marginalità.”

I personaggi messi in scena da Osborne, solitamente americani o inglesi (“maladjusted white protagonists”), sono i più vari. Ne “Il regno di vetro” c’è Sara, una giovane assistente personale in fuga dagli Stati Uniti; con sé porta una valigia di banconote, frutto di un raggiro ai danni dell’anziana celebrità per la quale prestava servizio. Convinta che il sistema migliore per farla franca sia far perdere le proprie tracce, si rifugia a Bangkok, affittando sotto falso nome (e tinta ai capelli compresa) un appartamento di pregio all’interno del Kingdom, un complesso residenziale abitato principalmente da farang – così vengono chiamati dalla popolazione locale gli stranieri ricchi e viziati. Fra prostitute euroasiatiche di alto lignaggio, inglesi espatriati dediti ad affari loschissimi, domestici silenziosi e prezzolati alla bisogna, Sara scoprirà ben presto, mentre i tumulti del colpo di stato si avvicinano pericolosamente alla recinzione del Kingdom, che nessuno è come appare e che disturbare il sonno degli animali preistorici addormentati nel fondo di certe piscine può risultare fatale, come ben ci insegna J.C. Ballard (3).

“«Siamo arrivati da laggiù, noi come tutti. Mio padre era un contrabbandiere. Non è passato poi così tanto tempo. Eravamo amici dei britannici, però. Lei è uno di quegli expat con la nostalgia di casa o uno di quelli che non torneranno mai?». «Sono un emigrato, quindi del secondo tipo». «Allora lo siamo tutti e due, per così dire. Migranti. Lei mi sembra più un esule. Di quelli volontari. È un destino fortunato, in qualche modo. Io dico sempre che poteva andar peggio. Potevamo non farcela».

In “Java Road”, invece, il protagonista è annoverato fra i “professional observers” – ossia personaggi dalla connotazione lavorativa ben specifica, che dà loro modo di osservare la realtà da vari punti di vista, interagendo con individui di circuiti sociali particolari. Alla vigilia della restituzione di Hong Kong alla Cina, le strade della metropoli sino-britannica sono invase dagli studenti universitari. Mentre la polizia utilizza lacrimogeni e manganelli per sedare la rivolta, Adrian Gyle, giornalista inglese di mezza età, expatried a Hong Kong da almeno vent’anni, talento in declino ma agganci formidabili nell’alta società, viene in contatto con Rebecca To, brillante studentessa e attivista nonché amante di Jimmy Tang, rampollo di una delle famiglie più influenti e ricche della capitale, amico intimo di Gyle dai tempi dell’università. Gyle, ben integrato nel microcosmo del quartiere, Java Road appunto, ma sempre prigioniero della propria intrinseca natura di gwai, (“fantasma bianco”, nomignolo lievemente dispregiativo con cui la gente del luogo chiama gli occidentali), si addentrerà nei meandri di una metropoli sull’orlo del declino, fra corruzione politica, “laissez-faire economics” e fanatismo imperiale, atmosfere da bar anni ’40, delitti irrisolti e il più classico dei triangoli d’amore non corrisposto. Chi è, davvero, Jimmy Tang? Cosa sarebbe disposto a fare, nel momento della caduta e del tracollo, per preservare l’unico bene che ancora gli appartiene e di cui può servirsi, ossia la reputazione?

“Intorno a me e dentro di me prese a crescere la confusione. Fu uno sconcerto amplificato dalla dissoluzione della città. Si può dire che l’intera società era diventata paranoica mentre oscillava su fondamenta sempre meno solide e so avviava alla disintegrazione. Per questo io e chiunque altro diventavamo paranoici. Non era eccezionale nemmeno la paranoia di Jimmy. Era la nuova realtà, e c’eravamo dentro tutti. I confini rimasti in piedi tra polizia, governo, famiglie potenti e media, eliminati nel giro di un mese. La vecchia Hong Kong delle leggi e dei giudici britannicamente imparruccati decostruita in una notte, e al suo posto era spuntato un mondo totalitario cupo e selvaggio nel quale regnavano dicerie, esagerazioni, odio, tribalismo, supposizioni.” (4)

Insomma, volevo farla breve per una volta e invece eccoci qui a parlare di Osborne in un modo in cui, secondo me, dovremmo andare avanti per ore. Leggete Osborne se volete immergervi in mondi incredibili, di una realtà concreta eppure inafferrabile, magnifica e terribile, al di là del nostro modo di sentire – e comprendere. Il meccanismo del thriller resta sempre valido, e nessun finale sarà come sarete stati in grado di immaginarlo.

Note: / (1) Sempre parlando di reportage come strumento di narrazione, bisogna osservare che in Osborne il narratore onnisciente non esiste: all’interno di una struttura a dialogo, i personaggi espongono la propria, personale visione del contesto; in tal modo il punto di vista si risolve nel parziale e l’analisi politica e sociale è sempre di parte. Sono i protagonisti stessi a fornire al lettore il quadro generale che in questo modo pur restando sempre sospeso, non oggettivato né oggettivabile, acquista valore di testimonianza del sentire locale, auto-validandosi. / (2) Di Osborne mi affascina l’abilità nel seminare easter eggs: piccoli gioielli che si riferiscono a eventi storici o citazioni letterarie rispetto ai quali il lettore si percepisce curiosamente sempre, o quasi, in difetto di conoscenza.  Di seguito giusto due esempi, recuperati in “Java Road”. 1. “Jimmy raccontò la storia terribile del medico personale di Mao (…) convocato (…) per eseguire la mummificazione della salma (…)”. Questo fatto, fondativo del pensiero transumanista russo, è ben raccontato dal divulgatore e giornalista Michel Eltchaninoff nel suo “Lenin ha camminato sulla Luna” ed. E/O. 2. “Nel 1938 alle cene altolocate del Surrey avresti sentito i medesimi argomenti sulla Germania.” È riferimento ai rapporti che il Duca di Windsor e la consorte Wallis intrattenevano con Ulrich Friedrich-Wilhelm Joachim von Ribbentrop, ministro degli Esteri tedesco, fidatissimo di Hitler. Pochissimi sono a conoscenza del fatto che nel Surrey Ribbentrop avesse preso possesso di una dimora di pregio: saranno questioni del lettore arrangiarsi a scoprirlo, pare ci suggerisca Osborne. Il dialogo sulle sorti gloriose della Germania nazista riportato da Osborne ricalca quasi perfettamente quello realmente accaduto e riportato fedelmente dai presenti, avvenuto fra il Duca, Wallis Simpson, Churchill e alcune altre personalità di spicco, proprio nel 1938, allo Château de l’Horizon, costa Azzurra (cfr “Côte d’Azur”, di Mary S. Lovell, ed. Neri Pozza). / (3) Osborne rende tangibile il meccanismo attraverso cui la crisi sociale e politica della città pervade, come mai accaduto, l’esistenza di Gyle per mezzo di un espediente stilistico alla coup de théâtre: una ferita alla guancia – frutto di un pugno che un insospettabile attivista sferra al giornalista lungo la via, all’uscita di un ristorante – che non vuole guarire e va in suppurazione (cfr. nella nostra recente narrativa il mal di denti del milite Cesco Magetti, protagonista di “Ferrovie del Messico” ed. Laurana, che ha la stessa funzione). / (4) Tutte le citazioni nel post sono tratte da “Java Road”.

“Il cerchio perfetto”, di Claudia Petrucci

Roma/Milano, 2035. Irene Sartori è un’immobiliarista di successo, specializzata nella vendita all’asta di proprietà storiche e di lusso. Si occupa di rilevare palazzi sontuosi appartenuti a nobili caduti in disgrazia, beni pubblici abbandonati, lasciati a marcire nella muffa, penthouse ricolme di opere d’arte – proprietà di sconsiderati investitori di cui si sono perse le tracce, che poi rivenderà al miglior offerente.

La guidano, oltre all’abilità negli affari, la passione per l’architettura e un inspiegabile, curioso intuito per il genius loci, “la percezione della natura della casa, del sentimento con cui è stata costruita e poi abitata. Il ricongiungimento con lo stato originale”. Nulla di strano, quindi, nella richiesta di contatto che così all’improvviso le arriva da un misterioso e raffinatissimo imprenditore milanese: l’anziano uomo d’affari le domanda una perizia su un’abitazione che ha ricevuto in gestione da alcuni anonimi investitori. Si tratta di una casa padronale, su più piani, progetto davanguardia che si incastra in quel triangolo di silenzio assoluto dell’alta borghesia milanese che è il retro di Brera, al confine con viale Gadio: al margine di via Saterna dormono di sonni inquieti le camere appartenute a Lidia Castelli, ventenne rampolla della Milano bene, morta suicida in una notte di bagordi del 1986. Si gettò dalla terza e ultima rampa di scale – racconta la cronaca, sul quotidiano dell’epoca – forse sotto l’effetto dell’alcool, forse vinta dal dolore per il padre appena mancato, forse traumatizzata dall’improvvisa rottura con il promesso sposo: dritta filata sino al piano terra, non un grido, non un rumore, la testa spaccata contro la materia solidissima che compone la vasca rotonda che fa da corrispettivo al lucernario centrale di questa casa avveniristica.

“Roma, lunedì mattina. Nelle ultime ore il cielo si è tinto di un giallo denso. La nube tossica proviene dalle campagne aride di una provincia meridionale a centinaia di chilometri dalla capitale, dove, da giorni, un incendio sta consumando i resti di una acciaieria: stando agli esperti, le polveri resteranno imprigionate nell’atmosfera fino alla prossima pioggia.”

“Sullo sfondo, la base nera del Duomo si distingue come il ventre di una nave madre in attesa; i profili sono sfocati, e la facciata è dissolta.”

Irene Sartori non esita dunque a imbarcarsi da Roma per Milano, sua città natale; questa consulenza le porterà una cospicua parcella e l’ennesimo giro di referenze ma sarà anche l’occasione per una visita ai genitori e alla sorella, ancora residenti a Milano malgrado le condizioni proibitive del luogo, offrendole allo stesso tempo il pretesto per prendersi una pausa dalla relazione con il fidanzato. Forse, pensa Irene, potrà anche esserci modo di un riavvicinamento col padre, anziano, e allettato, con il quale da tempo non va molto d’accordo. Naturalmente nulla andrà come preventivato: la casa di via Saterna spalancherà le porte e inghiottirà Irene nell’inferno di un racconto nero, di fantasmi e scambi di persona, intrighi familiari, vendette, spettri e – come ovvio – di un amore illecito e feroce. Sullo sfondo è dipinta una Milano cupissima, assediata da orde di tanaturisti, furgonati della polizia, bande di disperati rivoltosi e avvolta nella nebbia di una catastrofe climatica irreversibile.

“Le transenne si distinguono solo da vicino, somigliano a una recinzione: si chiudono sull’affaccio al Duomo e si perdono nella nebbia, muri di metallo alti tre o quattro metri, sorvegliati dai militari – quattro camionette parcheggiate da entrambi i lati, soldati a pattuglia.”

Sulla trama ci è concesso dir poco: siano sufficienti alcune domande. A chi la giovanissima Lidia Castelli diede mandato per costruire quell’abitazione, riguardo alla quale nacque l’irrecuperabile dissidio con il fidanzato? Perché il progetto fu modificato così all’improvviso, passando dalla linearità schietta della tradizione borghese a una visione d’estetica pura, tra strutture concentriche e panopticon, marmi e smalti, intarsi di pavimenti, gallerie, vetri e giochi di luce? Cosa c’entra in tutto questo l’anziano procacciatore dell’incarico – e cosa significano i silenzi del padre, al quale Irene appare come un’arrivista prezzolata, ignara del senso ultimo di ciò che significa casa, pagata per offrire a miliardari senza scrupoli preziosissimi beni immobili, privati e pubblici, a cui, per causa della sua azione, mai più nessuno riuscirà ad accedere?

“Com’è tremendo il futuro senza una casa. Per quanto sia ormai rassegnata, per quanto sia cosciente di far parte del trend negativo inevitabile della mia generazione, e per quanto è certo che noi, un numero imprecisato, milioni di individui nel pieno delle forze della vita non potremo mai permetterci di comprarne una, per quanto la flessibilità, la condivisione, l’abbandono della tradizione borghese, la libertà, la libertà di viaggiare, di spostarci, per quanto tutta questa narrazione nauseante miri a farci sentire meno soli, meno dispersi, parte di un insieme di milioni di individui pronti alla fuga, per quanto la nostra giovinezza ci venga raccontata come una dote irrinunciabile lo sento di aver perso tutto. Lo dico con pace, cons serenità, e senza alcun rancore, perché era inevitabile: abbiamo perso tutto.”

Claudia Petrucci costruisce un giallo in puro stile milanese, all’interno del quale tutti gli elementi di genere, pur presenti – dalla narrazione d’atmosfera al gioco degli equivoci – sono rivisitati in chiave contemporanea. E così, la scighera compatta, che rende il silenzio invernale della notte meneghina così denso che quasi si trattiene il respiro per paura di rovinarlo, non è più fenomeno atmosferico tipico della pianura padana ma il risultato di un non precisato, drammatico cataclisma che ha reso Milano una città in costante penombra, dove i pedoni circolano armati di speciali occhiali da vista, maschere e luci lampeggianti atte a segnalare la propria presenza e a evitare incidenti. E così, le domande esistenziali che nascono nella protagonista Irene prendono la forma di una società di consulenza per la procreazione assistita a cui la donna si rivolge, nell’ansia incipiente del tempo che sfugge. E così, i panni dell’antagonista vengono indossati non da un genio del crimine o da un assassino ma da una ragazzina timida e minuta, una squatter che abita di frodo le stanze appartenute a Lidia, che si immerge nella sua vasca da bagno, che indossa i suoi vestiti, che dorme fra le sue lenzuola di seta pregiata, che insomma ne assume l’identità fantasmatica. E così, infine, la crisi delle generazioni più giovani è identificata con l’incapacità di trovare radici, in un continuo andare e venire, un affitto dell’abitare che al senso dello sradicamento pone come alternativa quello della ri-occupazione.

Il cerchio perfetto simboleggia la pozza nell’oculus in cui Lidia specchiava sé stessa, il corpo nudo e bianchissimo e un’ombra accanto, racchiusa in una foto sgualcita. Ma è anche il passato che torna a bussare alla porta del giardino d’inverno, lì dove Lidia usava lasciare la chiave di scorta, nello sguardo di una ragazzina spaurita. Ed è anche il destino di Irene, compiuto per mano di altri, a guidarla come marionetta proprio al centro di quell’inspiegabile che lei non si attende. Sono le cifre che compongono le proporzioni all’interno della casa di via Saterna: inusuali, precisissime, a voler dirci qualcosa: come una celebrazione, una lettera d’amore, forse un testamento (“La casa è austera nella struttura, sensuale nelle finiture. Alcune stanze sembrano essere state progettate come degli scrigni.”)

La trama di questo giallo raffinato (si perdona volentieri l’unico difetto: un po’ di accelerazione improvvisa nel finale) potrebbe irritare – per l’ardire del chiamare in causa addirittura Buzzati, a far da rimpiazzo a una presunta mancanza di inventiva. Ma non ci si deve trarre in inganno: “Il cerchio perfetto” è un omaggio lieve e sentito alla leggenda di via Saterna e a certi spicchi di Milano. È il rendere onore ai luoghi della memoria individuale, alle storie sui misteri di periferia che abbiamo ascoltato da ragazzi, a quella luce dorata che emanano certe stanze milanesi, nel buio delle sei e mezza, quando la minestra è già sul fuoco e il parquet scricchiola al calore del termosifone.

“La desolazione di Milano Ovest, durante i brevi ritorni per le visite familiari o le trasferte, non si era mai sedimentata nella sua coscienza. Per Irene, tornare a vivere nella casa della sua adolescenza, compiere tutti i giorni lo stesso tragitto fino a via Saterna, ha significato essere costretta a soffermarsi sulla percezione dell’assenza.”

Lo scarto nello sguardo di Irene è familiare ed estraneo insieme: cammina parallelo a quello dell’autrice, milanese ma da tempo residente in Australia – come un’occhiata fuori fuoco, dentro ancora ma nello stesso tempo già al di là dell’esperienza, ormai ancorata al ricordo. L’escamotage dell’ambientazione distopica esalta queste modalità di osservazione, creando anche nel lettore l’impressione di un mondo al contrario in cui tutto pare identico al prima, ma completamente diverso. (NB: le parti relative alla torre Velasca e a villa Necchi sono piccoli gioielli, dedicati – davvero – a noi milanesi).

“In via Saterna nella città vecchia / esiste una villa con un grande / giardino da moltissimi anni / apparentemente abbandonata / dalla strada / però non / si vede / che il muro / di cinta e / il culmine / della casetta del custode.” Dino Buzzati, Poema a fumetti, 1969

“Faune”, di Christiane Vadnais (trad. Piernicola D’Ortona)

Con gran dovizia di modi e di toni, da diverso tempo ormai il panorama editoriale si pregia di illustrarci le azioni che in tutta coscienza dovremmo mettere in atto allo scopo di contrastare il disastro ambientale di cui siamo responsabili. Dal romanzo alla saggistica divulgativa, dalla poesia al fumetto, dal reportage al podcast, ci vengono elencati tutti i bias cognitivi di cui dovremmo liberarci e tutte le azioni pratiche individuali e collettive necessarie ad arginare le drammatiche situazioni che abbiamo contribuito a creare. La tipologia degli interventi proposti è duplice – contenere il danno e invertire la rotta – ma di fatto l’obiettivo è unico: il mantenimento di un particolare status quo che in questo caso corrisponde, ça va sans dire, alla sopravvivenza del genere umano.

Cosa succederebbe tuttavia se, con uno scarto di pensiero, saltassimo fuori dalla prospettiva umanocentrica e ci rivolgessimo all’antispecismo, ovvero se per una volta non ci sistemassimo – noi, in qualità di esseri umani – al centro della questione? Cosa succederebbe insomma se nell’economia delle cose future mettessimo in conto la nostra stessa estinzione, come conseguenza del casino prodotto?

“Di notte, i sogni dell’individuo si mescolano a quelli della sua specie. Mammiferi, uccelli, rettili tornano incessantemente a divorare. Sprofondati nel sonno, cani e gatti continuano a cacciare, le zampe percorse da sussulti. Volatili e lucertole addormentati reinventano il fremito degli insetti, lo strisciare dei vermi pasciuti, la fuga di prede minuscole e l’arrivo dei predatori più voraci.”

La domanda non è peregrina né inedita. Ne hanno già parlato, per esempio – giusto per citare la saggistica divulgativa raccontata qui sul blog – Emma Marris e Cal Flyn, che nei loro lavori riportano l’opinione di diversi scienziati al momento scettici sulle teorie del conservazionismo, ritenute, di fatto e di nuovo, figlie di una necessità antropocentrica spesso frutto di analisi su scenari remotissimi (per la serie: com’era il mondo prima noi) rispetto ai quali le nostre conoscenze restano vaghe, perfino ipotetiche. Un conto, tuttavia, è riflettere su quanto sia il caso di sterminare col veleno quella specie alloctona di gagliardissimi roditori che hanno invaso certe isolette del Pacifico a seguito dell’espandersi delle rotte commerciali cinquecentesche (risposta: no, non è il caso, ormai è tardi, sa il cielo a quale imprevedibile reazione a catena daremmo il via ammazzando migliaia di creature che alla fine nel bene e nel male si sono integrate nel cerchio della biodiversità locale). Altro conto è inserire la voce estinzione umana nell’elenco di ciò che riteniamo possibile che accada, in un futuro prossimo venturo.

Per fortuna però c’è la scifi. A raccontare con gran candore questa dissacrante ipotesi ci pensa il sottogenere weird, a cui il romanzo breve “Faune” appartiene, per forma e temi. Nel solco di chi, dal punto di vista scientifico, mette in dubbio la necessità di una salvaguardia conservazionista (che per certi versi sottostima l’efficacia dell’autoregolazione naturale e il concetto evoluzionistico di ibrido – cfr. sempre Marris e Flyn), ecco che le poetiche pagine di “Faune”, scritte da una giovane project mananger canadese, ci regalano un punto di vista quanto mai inedito: quello del non far nulla. Dell’arrendersi all’idea che questo pianeta su cui ci troviamo a vivere a un certo punto, semplicemente, non abbia più bisogno dell’essere umano e che si metta d’impegno per liberarsi di questo inutile fastidio.

“Nel sogno ritrova una nebbia attraverso cui si disegnano i contorni di animali vaghi, una foresta di sagome che si sfiorano girando intorno. Cervi. Volpi. Da quella massa di vapore si staccano creatura oblunghe, né bisce né vermi, che fuggono nell’acqua. Le vede agglomerarsi in un groviglio brulicante, un nido di vipere galleggiante che si trasforma in una donna, la cui pelle diafana lascia vedere le ossa in trasparenza, le vene, il sangue che pulsa nel corpo. Un essere a infrarossi, che spalanca enormemente la bocca scoprendosi il cranio.”

La biologa Laura, alla ricerca del parassita misterioso che a quanto pare sta modificando geneticamente tutto quello che di vivo incontra sul proprio cammino senza distinzione alcuna fra uomini, animali-non-umani o piante nell’approccio-spillover antispecistico più massiccio che la storia della Terra abbia mai conosciuto, si imbatte in una serie di esseri viventi che, col proseguire del contagio, assumono sempre più le caratteristiche di ibridi mostruosi e affascinanti, in una lotta spasmodica per la sopravvivenza che interessa tutti, senza distinzione di specie. Crostacei col ventre ricolmo di sostanze tossiche nascosti nel greto dei fiumi, in attesa di essere inghiottiti dai pesci e dagli uomini, conigli dai denti di bestie feroci che si nutrono di carne umana, piante luminescenti che secernono bave di sostanze infestanti, funghi che invadono con le loro spore la terra grassa del bosco e colonizzano la semenza futura; e poi uomini-pesce, uomini a cui spuntano peli e ali, donne-foresta dalla pelle bianchissima, quasi trasparente, che corrono nude per i boschi e si nutrono dell’acqua della palude. Nel cerchio della vita – viene a rendersi conto Laura, sempre più affascinata (perché scienziata) e orribilmente impaurita (perché essere umano) – poco importano i danni collaterali: il processo evolutivo ha sempre messo in conto i vicoli ciechi; il punto è che a questo giro pare che a essere arrivata alla destinazione finale non sia solo una certa quantità di animali e vegetali la cui ibridazione non riesce ad andare a buon fine ma anche l’essere umano.

“Non distingue più gli animali dalle loro ombre. I vivi dai morti. I rumori umani dal raspare e dagli ansiti resuscitati nel buio pesto.”

Al Weird non interessa granché della Natura come organismo eticamente polarizzato. Rifiutando sia l’epica del buon selvaggio (da Thoreau a tutto il movimento dell’anarcoprimitivismo, per esempio), con l’accogliente, idilliaca bontà del mondo naturale, sia – all’opposto – la narrazione che, fin da quel momento in cui sulla linea del tempo la preistoria lascia spazio al mondo illuminato, vuole l’essere umano in perenne conflitto con il mondo-non-umano (dal mito greco arrivando a “Jaws”, dallo sterminio dei popoli del Sud America alla conquista del West), questo stile narrativo, che in realtà è più un modo di vedere le cose del mondo, interpreta gli ambienti naturali come un ecosistema unico, volto alla propria conservazione, all’interno del quale l’essere umano altro non è che uno dei tanti attori.

In “Faune” Vadnais riprende esattamente questo paradigma, dipingendo un postumano in cui gli animali-uomini di nuovo (un ritorno al preistorico, insomma) non si trovano più al centro dell’ecosistema ma sono unicamente parte di esso – e di sicuro non in cima alla catena alimentare. Al di là della trama, di cui possiamo raccontare poco pena la perdita dell’effetto sorpresa (perché è chiaro, Laura non sarà semplice protagonista di tutte queste mutazioni), preme sottolineare come questo romanzo breve, a punto di vista interno multiplo e strutturato a capitoli praticamente autoconclusivi che assumono quasi la forma di piccoli racconti sul modello di una Spoon River distopica, si ponga come obiettivo la riflessione sulla wilderness e su come l’idea di separazione fra uomo e vivente-non-umano possa risultare al momento addirittura controproducente, ai fini della sopravvivenza della Terra. Vadnais sistema questo pensiero su carta attraverso una forma di romanzo poetico che, per frammenti, linguaggio lirico e sogno, vuole rendere evidente un modo di raccontare che scavalca il razionale logico, per entrare in una dimensione dominata più che altro dalle associazioni intuitive, sinestesiche, dall’istinto, dalle situazioni ambientali in una sorta di descrizione dell’istinto animale più puro.

Questo sistema di scrittura, con riguardo sia al contenuto sia alla forma, è stato accostato alle opere di Jeff Vandermeer. Vadnais è molto brava e possiede forse una voce addirittura più forte di quella del maestro, perché i personaggi delle opere di Vandermeer conservano di fatto una realtà umana che lo scrittore non ha (ancora)1 avuto il coraggio di scardinare. La biologa Laura è per certi versi degna erede di Kerans di ballardiana memoria, di cui Vadnais sembra ripercorrere la strada, chi lo sa se per coscienza o per mera convergenza evolutiva: la decisione dello scienziato di abbandonare il gruppo dei compagni per intraprendere un viaggio di sola andata verso l’equatore neo-preistorico va di pari passo con l’immergersi della scienziata in un mondo in cui le differenze fa esseri umani e animali-non-umani via via si assottigliano, fino a scomparire del tutto. Con una differenza, non marginale: “Faune” è un libro profondamente femminile, all’interno del quale è dato ampio spazio a tutti i fenomeni collegati alla fecondazione, alla riproduzione e al parto (non a caso c’è una netta prevalenza di protagoniste donne); l’atto generativo, di qualsiasi essere vivente si tratti, è il punto da cui la Natura parte e sempre ripartirà. La capacità di riprodursi, di generare e di partorire, dice Vadnais, sta alla base di ogni nuovo inizio.

“Forse raggiungendo una condizione stabile, relativamente al riparo dal pericolo, i nostri antenati hanno cominciato a sentir palpitare in loro una vita notturna. I sogni saranno attecchiti nel calore e nella sicurezza dei loro primi rifugi, nel riposo tranquillo di chi caccia anziché essere cacciato. I film catastrofici nascono in mezzo alle comodità. L’essere umano del nostro tempo, in barba a tutte le sue vittorie, continua a temere gli animali feroci.”

  1. [Note: Se la biologa dell’Area X non prova nemmeno a rinunciare completamente alla propria natura di essere umano, la madre adottiva di Borne (e così l’autore, parrebbe) comincia al contrario – nell’abbracciare l’alterità del figlio (simboleggiata dalle dimensioni fisiche che la creatura acquista con lo sviluppo) – ad avere sentore della necessità di una riflessione sull’arrendersi (non per nulla il terzo capitolo dell’Area X si intitola proprio Accettazione – ma non possiamo aprire qui questa discussione). Qualcosa di più potente affiora invece in Hummingbird salamander, con la trasformazione finale della protagonista nella quale si insinua, oltre allo spavento della mutazione, anche la consapevolezza di una necessità deterministica che va oltre il singolo individuo.] ↩︎

“Estate caldissima”, di Gabriella Dal Lago

La particolarità di “Estate caldissima” è che ognuno riesce a recuperare da queste pagine l’aspetto che più insiste nell’esperienza individuale. Dalla soddisfazione di una curiosità socio-antropologica fino all’attivazione di un personale triggering point (nel linguaggio nuovo: tutto ciò che, in senso esteso, è in grado di innescare una reazione emozionale non positiva), la struttura dell’enigma a stanza chiusa aiuta nella rappresentazione di una scena teatrale fissa: ciascuno dei personaggi interpreta un sé che finisce per diventare superficie riflettente rispetto alla platea dei lettori, pubblico in sala in qualità di individuo singolo e di entità collettiva.

L’approccio non è nuovo: da Boccaccio all’Isola dei famosi, dal noir di Poe alla speculative fiction di Ballard, la formula è quella della cornice narrativa all’interno della quale un gruppo di persone, ciascuna con proprie caratteristiche e idiosincrasie, viene osservato durante lo svolgersi di una situazione imprevista. Il romanzo breve “Estate caldissima” costruisce la propria impalcatura su questo canovaccio: figuranti posizionati all’interno di un presepe, per affrontare un’emergenza che, in questo caso, si vuole esterna.

Nove le statuine: Gian, quartacinquenne capobranco, capelli lunghi e brizzolati agghindati a cipolla, e i sei colleghi che compongono il team Bombagency – la trentenne Greta, compagna di Gian e socia fondatrice dell’agenzia pubblicitaria; Laura, bella e atletica art director; i due social media specialist Tommi lo svagato e la gigantessa Alma; in coda gli account Vic e Carlo: lei emo-“cyberspazio” ventenne neoassunta, lui disperato cocainomane. Chiudono l’armata il piccolo Leo, otto anni, figlio di Gian, e Lily, la gatta di Greta. Come luogo d’elezione (“location“), l’elegante ma sobrio cascinale-ristrutturato-con-piscina, di proprietà della famiglia di Gian, perso nell’arsura di una campagna estiva, potremmo pensare al piacentino o alla collina toscana. L’emergenza: un progetto da consegnare a un cliente di alto livello, durante un’estate post-pandemica che si preannuncia rovente, apocalittica. Una necessità di brainstorming che però nasconde e rivela allo stesso tempo l’urgenza di una fuga escapista alla quale ciascuno dei protagonisti, per proprio interesse (ed è qui che si incarna l’immedesimazione), ha motivo di guardare con favore.

“Estate caldissima” quindi come racconto generazionale, perché descrive con precisione la vita liquida della generazione Millennials, quel professionale che continuamente si sovrappone all’intimo in una caratterizzante commistione di fuori e dentro in un luogo del mestiere – tipicamente nel terzo settore creativo – che si mescola, agile e fluido, al momento del privato. Recensioni e approfondimenti on line si sono concentrati proprio sugli aspetti dell’ambito professionale: il linguaggio specifico, i titoli, le professioni, la maniera di vestire, gli oggetti, le attività, tutto è parte di un modo di percepire il reale che in certi momenti diventa altro rispetto al reale stesso, con le immancabili questioni che vediamo descritte anche in altri contesti di fiction e saggistica: precarietà come stile di vita, perdita di contatto con le famiglie d’origine, difficoltà nelle relazioni di coppia, attivismi che scivolano nell’ossessione, controllo sul corpo e sulla mente al limite del fanatismo – insomma come si vede ce n’è per tutti.

“…un sorriso che sembra una presa in giro ma che Alma legge come un’alleanza, la sicurezza che tra loro c’è qualcosa, un patto, una sintonia – e questo è il problema di leggere nei gesti degli altri quello che noi vogliamo leggere, e in definitiva questo è il problema di amare male”.

Un punto che tuttavia differenzia “Estate caldissima” da altri racconti simili è la presenza costante del motivo della necessità di interpretazione, per via dell’esistenza di uno scarto fra il reale e il pensato. L’autrice utilizza perfino il verbo “sovrascrivere” in relazione al meccanismo di sovrapposizione fra la persona reale e quella immaginata, identificando questa visuale come una delle criticità generazionali: l’ondeggiare fra la necessità di rivelarsi (io sono così e fattelo bastare, non cambierò) e quella inconscia, si potrebbe dire fisiologica e ancestrale, di tutelare i propri spazi di vita personale e pensiero. La paura di impegnarsi in una strada di scoperta dell’altro è parte fondamentale del sistema che governa l’incontro e che, di fatto, ne determina il fallimento. Questo è un punto importante, che spinge l’analisi sui Millennials di “Estate caldissima” un po’ più avanti, raffinandone l’osservazione perché si lega non solo a una lettura del reale non stereotipata – figurine da presepe, non caricature – ma anche al rapporto dei protagonisti con un tema che fino a ora era stato analizzato solo di sfuggita: quello del diventare adulti, con particolare riguardo alla genitorialità.

“Leo è abituato a interagire con persone molto più grandi di lui, perché da figlio di separati che hanno l’ansia di dimostrarsi reciprocamente di essere in grado di badare a lui senza ricorrere in misura eccessiva a genitori, baby-sitter o aiutanti di vario genere, ha passato gran parte della sua vita immerso nei contesti amicali dei propri genitori, trascinato a cene di compleanno, pranzi di lavoro, feste aziendali e sì, ora anche a ritiri creativi come questo.”

Poco analizzato perché erroneamente interpretato, verrebbe da dire, da molti ma non da Gabriella Dal Lago che ne coglie il nodo centrale: genitorialità legata non tanto e non per forza alla riflessione sul materno quanto a un approccio complessivo nei riguardi del mondo adulto, all’interno del quale la caratteristica fondamentale dovrebbe essere un atteggiamento di cura sociale, collettiva.

Per paradosso e per provocazione queste riflessioni sono consegnate a Leo. Il cui padre, a esser chiari, non brilla per competenza. Il fatto che sia divorziato non è dirimente nella misura in cui il romanzo non possiede intento moraleggiante ma ci interessa, ancora una volta, per la questione dei figuranti. Gian, maschio adulto di quarantacinque anni – professore universitario e amministratore di una realtà consolidata che si presenta e viene conosciuto unicamente tramite nomignolo – si impegna certamente nel ruolo genitoriale ma allo sforzo, dichiaratamente titanico e sottomesso a interi Eoni di iperboliche seghe mentali, corrisponde invero il parto di un topolino. Non sono migliori, nella gestione dell’età adulta, né le performance di Greta che ovviamente con Leo ha un rapporto complicato (per anagrafe potrebbe eventualmente corrispondere al ruolo di sorella o giovane zia: di sicuro non matrigna) né quelle degli altri membri del gruppo all’interno del quale nessuno a parte forse Tommi, che difatti nel finale del libro è l’unico a essere rappresentato in un modo ben preciso, rivela la benché minima capacità o voglia di interazione col ragazzino.

Come registra il bambino stesso, nel corso di alcuni capitoli a lui dedicati tramite punto di vista interno, Leo risulta non tanto in-curato quanto piuttosto abbandonato a sé stesso nell’uso e nella percezione della realtà che lo circonda; non visto (proprio uno dei suoi giochi preferiti: il ragazzino invisibile) il bambino assiste, privo di quella protezione comunitaria che invece dovrebbe essere riservata all’infanzia, al teatro della vita adulta senza filtri e, ancora peggio, senza che gli vengano forniti strumenti per localizzarne in senso: litigate di coppia, promiscuità, consumo di alcol e stupefacenti, fisime e scenate, workaholism, ritmi di sonno/veglia alterati, routine inadatta alle esigenze di un bambino; niente di ciò gli è precluso, in un senso di estraneità, disallineamento di percezione col reale e solitudine che si acuisce col procedere della narrazione. La tensione narrativa sulla figura di Leo è palpabile e nel lettore inevitabilmente nasce il sospetto che gli elementi “bambino di otto anni + giochiamo a essere invisibili + piscina incustodita” potrebbero non andare proprio così d’accordo fra loro.

Ciò che fa specie è l’incapacità del gruppo di uno sguardo di comunità; il che, come si è detto, non implica per forza la riflessione sulla maternità quanto l’esperienza del senso di famiglia: nello sguardo che percepisce la presenza di un bambino e nella consapevolezza della propria posizione di adulti ecco dovrebbe identificarsi lì, la capacità di mettere da parte sé stessi, se valutato necessario. Cosa che invece non accade poiché tutti e sette i protagonisti adulti sono concentrati unicamente sull’analisi e sulla risoluzione dei propri psicodrammi esistenziali.

Questo punto, della mancanza di cura (o di consapevolezza, o di contatto con il reale, la si metta come si preferisce), si rivela anche nell’allusione allo scenario distopico all’interno del quale ruota la vicenda. A un periodo di gravissima siccità seguiranno anni di inondazioni e marcescenze: con buona pace di Amitav Ghosh, che ormai parla da pagine antiche (“La grande cecità” è del 2017 e non sta invecchiando benissimo), la scelta di ambientare “Estate caldissima” a cavallo fra il reale del post- pandemico e una catastrofe climatica globale di sapore distopico – sebbene molto realistica – apre lo sguardo al tema del motivo-clima all’interno della narrativa italiana di fiction contemporanea, creando un buon precedente con cui le narrazioni successive dovranno per forza confrontarsi. Il tutto si incarna grottescamente, però, nella figura di Greta, (nomen omen) che si autodefinisce attivista ambientale ma che appare di fatto più vicina a un’invasata fuori controllo, con le sue crisi isteriche alle due di notte per una confezione di insalata in busta trovata in frigorifero, che a un’adulta consapevole di certe dinamiche, pronta a condividere le proprie conoscenze e consapevolezze con la comunità o con i più giovani (di lei).

“Ogni tanto si trovava a provare una cocente invidia per la conflittualità tra genitori e figlie che vedeva raccontata da film, serie TV, saggi, come se l’accondiscendenza e la comprensione estrema dei suoi genitori l’avessero privata di un passaggio cruciale, fondativo della sua identità come essere umano: la lotta.”

Gabriella Dal Lago non fa molti sconti alla generazione che dipinge. Ogni personaggio in scena incarna uno dei tanti punti di cui si parla spesso quando si parla dei trenta-quarantenni e di quando essi stessi si raccontano. Sembra, ci dice l’autrice, che il tutto si possa definire come una discrepanza fra ciò che si sente (a cui viene dato il credito dell’assoluto) e quello che è. Sarebbe troppo facile associare questo modo di interpretare il reale alla maniera in cui dai social pensiamo di dedurre la vita personale dei nostri following. È più che altro, invece, un difetto di lettura, un inciampo per qualcosa andato storto dove, chi lo sa – forse durante l’apprendimento scolastico, in famiglia, nelle amicizie (il tema dell’amicizia ricorre spesso), forse negli studi (altro tema ricorrente: università come buco nero di nozionismi iper-strutturati, determinati da una feroce corsa a chi arriva prima, legami sociali e dibattito contraddittorio ridotti al minimo).

Cosa succede alla fine? Sta qui l’equilibrio di queste pagine: chi lo dice, che debba per forza capitare qualcosa di drammatico per scuoterci, nei libri che leggiamo? Cos’è il fascino che abbiamo, per il contenuto, per l’inizio e la fine, per la conclusione che ci si aspetta: pure questa attesa del qualcosa, ci racconta l’autrice, non è che parte del problema.

“Il figlio del Direttore”, di Piersandro Pallavicini

“Ero felice. A dieci anni desideravo la protezione dell’oscurità. Ora, a sessanta, ho preso un appartamento in Costa Azzurra inondato di sole.”

A metà strada fra il giallo sociale, la commedia degli equivoci e il romanzo generazionale, “Il figlio del Direttore” indaga, con disincanto scrupoloso e urticante sarcasmo, le pieghe della più esclusiva Late Boomers generation nostrana.

A questa enclave d’élite appartiene Michelangelo Borromeo: neosessantenne pavese, proprietario della centralissima libreria antiquaria “Da Recalcati Libri e Gusto”, single, abitudini raffinate e conto corrente di pregio. Fanatico della boutade sapida (per mezzo della quale s’arrabatta sin dall’adolescenza a mascherare una patologica timidezza), cultore degli abiti di sartoria, dei ristoranti stellati e delle macchine sportive, Michelangelo Borromeo – nomen omen a svelare una nobiltà farlocca, indizio della pesante eredità familiare toccatagli in sorte – è insomma, diciamolo, uno di quei boomer del cavolo che, pieni di soldi, seconde case e colonscopie in regime di libera professione, da giovani affollavano di villette monofamiliari la provincia lombarda e che ora troviamo ritirati, complici età e divorzi tardivi, fra le mura di sontuosi quadrilocali ztl in quel triangolo delle Bermuda casereccio rappresentato da alta Brianza-varesotto-pavese.

“Da Recalcati Libri & Gusto, oltre alle prime edizioni di Sereni, Montale, Pavese, D’Arzo, ho quindici diversi prodotti al tartufo, colature di alici, bottarghe, creme di pistacchio, nocciola, fava tonka, tè cinesi esoterici, caffè campani artigianali, per non parlare degli champagne, solo grand cru, e dei vini di Bordogna, soltanto grand cru pure loro, e su ogni barattolo, scatoletta, bottiglia ci metto dei ricarichi semplicemente criminali. Ma la radice di follia del collezionismo librario, evidentemente, corrisponde alla medesima folle radice dell’estremismo gourmet.”

Il Borromeo, insomma, ne ha così tanti che un po’ fatica a immaginarne l’uso e a parte qualche momento di inquieta solitudine, speso a immaginarsi un personale futuro distopico di malattie neurodegenerative o navigando sui siti pornografici, se la passa discretamente bene fra il negozio, la residenza pavese e l’appartamento di proprietà al Mer Azur, un condominio di lusso affacciato sul boulevard de la Garoupe, ad Antibes. Il modo in cui Pallavicini racconta la raffinata decrepitezza della Côte d’Azur fuori stagione mi porta quel piccolo e noto conforto che viene dal leggere pagine scritte bene – tra piscine svuotate, pioggia che batte le strade quasi deserte, arenili inselvatichiti, odore forte di mare e aghi di pino, café solitari frequentati unicamente da persone del luogo e da qualche sparuto turista nordeuropeo. È un paesaggio lunare di cui Michel – come il Borromeo viene chiamato qui – si nutre avidamente; uno scenario che rimanda il lettore non soltanto agli anni gloriosi di Aly Khan e Rita Hayworth ma anche, in maniera più sinistra, all’Eden-Olympia di ballardiana memoria – il finzionale, paradisiaco complesso residenziale nizzardo all’interno del quale si svolge uno dei più truci romanzi della fantascienza occidentale.

Se sotto la penna di Pallavicini (come fosse un rivoltare d’involucro) i cultori dell’antiquariato librario si trasformano da stimati intellettuali a gente in sostanza anche simpatica e piacevole ma un poco gonza – e per questo finanziariamente necessaria, in un gioco di sapiente miniaturizzazione caricaturale, così i residenti del Mer Azur, allontanati a forza dalla gloria dei tempi passati, assumono sembianze a metà strada tra i fantasmi del tempo che fu e i protagonisti di un parco dei divertimenti a tema “benvenuti sul pianeta Terra”. Da Agathe, la svagata, autoctona proprietaria di alcuni appartamenti al Mer Azur, a rigore ricchissima ma scroccatrice seriale di opulente colazioni, a Madame Kirsten Østergaard, la turista danese affittuaria di Agathe che con l’assoluta incultura per la lingua italiana, le forme sinuose e il nudismo integrale sul terrazzo per lo yoga notturno al sottofondo di campane tibetane sconvolge gli ormoni del Borromeo e gli riporta a galla un’antica parafilia assolutamente politically incorrect, fino a Gualtiero, uno zerozerosette nazionale invischiato in non si capisce che traffico notturno – Gualtiero che ovviamente non si chiama Gualtiero e che per modi e piglio assomiglia non tanto a Daniel Craig quanto alla guardia del corpo di un boss mafioso.

“Il raggio del faro sulla cima del Cap taglia il buio ogni pochi secondi, un aereo che si prepara ad atterrare a Nizza attraversa il cielo stellato. Sotto le suole, mentre stropiccio i piedi sull’asfalto crepato, scricchiolano gli aghi dei pini. In questo momento mi sento come sempre mi sono sentito in questo angolo di mondo: non felice, che è una condizione implausibile per qualunque essere umano sopra i quarant’anni, ma vagamente euforico, sollevato anche se non si sa bene da cosa, diciamo in tregua col mondo. Ed è adesso, mentre l’angoscia della morte, della catastrofe e della rovina sono lontane, è ora, mente rimiro l’oscurità del mare con i gomiti appoggiati alla balaustra, che il cellulare si mette a suonare.”

I fantasmi del Borromeo però non finiscono qui perché, come in ogni giallo che si rispetti, a un certo punto ci scappa il morto – nella persona, addirittura, di Luca “Luchino” Borromeo, altrimenti detto il Signor direttore – nonché padre di Michelangelo; quel rinomato banchiere di provincia assurto fra gli anni ’70 e ’90 alle glorie di direttore di filiali per il Banco Italico tra Vigevano, Milano, Cantù e Busto Arsizio, quel padre smargiasso e burino, razzista, omofobo e cornificatore seriale, mancato due anni prima per causa di un brutto male che al posto di redimerlo lo aveva reso ancora più iracondo, menefreghista, cafone e stronzo. Nella pace della passeggiata serale sulla spiaggia nizzarda, insomma, una sera il cellulare del Borromeo comincia a squillare; il numero di telefono da cui arriva la chiamata è quello del padre – passato a miglior vita, come si è detto, due anni prima. La linea si interrompe appena Borromeo clicca sul tasto verde. Chi sta utilizzando il telefono del morto, quindi? Chi dunque si è introdotto nella casa di famiglia? Chi è colui che si sta appropriando dell’identità del Signor direttore?

La telefonata notturna scoperchierà il vaso di Pandora e la villeggiatura fuori stagione del Borromeo si trasformerà in un rutilante viaggio nel passato perché niente, come è ovvio, è come appare; in costante equilibrio fra i colpi di scena di un noir dai tratti hard-boiled e la farsa comica, Borromeo sarà costretto a precipitare non solo nell’abisso della propria giovinezza – un luogo della memoria infido e crudele dal quale aveva avuto ben cura di tenersi lontano – ma anche nel passato dei genitori e nel ricordo di Marcella, l’amore perduto.

Il viaggio di Michelangelo Borromeo però sarà anche un po’ nostro, perché “Il figlio del Direttore” è non solo la storia della famiglia Borromeo ma anche il racconto del sentirci boomer: se difatti alla tal generazione appartengono di diritto solo i nati tra la fine della guerra e la metà dei favolosi Sessanta va però detto che noi, un poco più giovani, quell’aria lì l’abbiamo respirata quotidianamente, insieme al fumo passivo in pizzeria – e non è che certi sistemi di pensiero si possano scardinare con facilità. “Il figlio del Direttore”, poi, significherà per molti il ritorno alla provincia lombarda – regno di piccoli ricordi acuminati, dolorosissimi – e per molti altri invece un volo radente sopra una terra che, lo si voglia oppure no, ha significato moltissimo per la società e per la politica italiana.

Ah, non dimenticate la FFP2, mi raccomando; ché tra le altre cose “Il figlio del Direttore” è anche un romanzo post-pandemico – forse il primo che s’azzarda a recuperare la dimensione comica della tragedia, fra ipocondriaci atterriti, svagati cronici che del Covid quasi nemmeno si sono accorti, incoercibili no-vax equipaggiati di bottigliette di gel igienizzante incartapecorito e mascherine putrefatte.

È possibile, si domanda Michelangelo Borromeo, godersi la vita dopo che la vita è passata? Forse no, ma forse anche sì.

“Nuoto libero”, di Julie Otsuka (trad. Silvia Pareschi)

“Ti promettiamo di accoglierti cordialmente, ma con rispetto, e senza troppe storie. «Che piacere rivederti» diremo, oppure: «Da quanto tempo». Ma tieni presente che la seconda volta che ci lascerai non potrai più tornare.”

Nuoto libero” è straziante perché parla del nostro diventar vecchi. Parla di me e di mia madre – quel suo discontinuo svagarsi che non si capisce mai bene da cosa derivi, se sia una distrazione contingente (sono in piedi da stamattina alle cinque) oppure il prodromo della scossa tellurica (come si chiamava la cassiera del supermercato dove andavamo quando eri piccola?), stiracchi del mostro marino che abbiamo inopinatamente svegliato. E parla anche di mio padre, col suo ciabattare lento per casa, alla ricerca di cose perdute (chissà dove tua madre ha nascosto le mie maglie di lana) – le luci spente nel tardo pomeriggio, il riflesso blu del televisore sul programma di attualità.

Questo è il sistema, geniale nella sua infida semplicità – perché frutto di un lavorio costante di cesellatura terminologica e incisione di toni – che utilizza Julie Otsuka per presentarci Alice (tecnica di laboratorio in pensione sull’orlo della demenza), un’anziana signora nippoamericana che da anni frequenta quotidianamente la piscina urbana sotterranea di una città caotica e complicata, ovunque e in nessun luogo, indefinita perfino nel tempo, rispetto alla quale il centro sportivo è isola di quel conforto e di quel sollievo che solo l’abitudine può regalare. L’avvicinamento ad Alice è graduale, come le bracciate che questa dignitosa vecchietta spalma – una dopo l’altra, come metodo e attenzione – lungo la corsia riservata al nuoto circolare.

“Lassù ci sono incendi, emergenze smog, siccità catastrofiche, stampanti inceppate, scioperi degli insegnanti, insurrezioni, rivoluzioni, giornate torride che sembrano non finire mai (Enorme «bolla di calore» stabilmente insediata sopra l’intera costa occidentale), ma quaggiù, in piscina, c’è sempre una gradevole temperatura di ventisette gradi. L’umidità è del sessantacinque per cento. La visibilità è ottima. Le corsie sono ordinate e tranquille. L’orario, anche se limitato, è adeguato alle nostre necessità.”

Il mondo di Alice, in verità, ha cominciato a sgretolarsi già da un po’. Si tratta di vaghi segnali che un poco si perdono nel rumore di fondo della quotidianità (marito) o della lontananza (figlia), un poco si ignorano nella convinzione di una transitorietà contingente. Come la crepa nelle piastrelle della vasca, che all’improvviso si rende palese (come abbiamo fatto a non accorgercene prima) e porta con sé la destabilizzazione di un rituale consolidato, così le fragilità di Alice erodono le consuetudini giornaliere, creando inciampi e sobbalzi dove prima la bracciata era solida e naturale.

“Siamo rincuorati, tuttavia, dai risultati dello studio più recente, secondo cui le crepe come la nostra – esitanti, incerte, a malapena visibili a occhio nudo, in definitiva timide – tendono a essere di natura indolente piuttosto che aggressiva, e si espandono a passo di lumaca. «Queste crepe possono restarsene lì senza far niente per anni» dice l’ingegnere capo Henry Mulvaney dell’impresa di ingegneria geotecnica Mulvaney & Fried, approvata dal consiglio di amministrazione. Mentre una «vera» crepa, se lasciata incustodita anche solo per poche ore, può facilmente dilagare e invadere l’intera piscina nel giro di una notte. «Lo vediamo molto spesso». La sua valutazione definitiva: la nostra crepa è più una pre-crepa che una crepa vera e propria. «Non c’è niente da temere» ci viene detto. Ma la professoressa Anastasia Heerdt, investigatrice indipendente ed esperta di analisi dei guasti, ci avverte di non prendere troppo sul serio la valutazione «ottimistica» dell’ingegner Henry Mulvaney. «Vi ha detto quello che volevate sentirvi dire» sostiene.

Il romanzo, composto da cinque sezioni tragiche, si apre con “La piscina sotterranea“, parte corale attraverso cui le voci dei nuotatori si sovrappongono l’una all’altra, nel racconto di un costume abitudinario. Il trait d’union che lega l’uscita del coro e l’entrata in scena della protagonista è rappresentato dal secondo capitolo, “La crepa“, narrazione – ancora collettiva – che assumendo i toni di un’ironica, caustica cupezza determina il focus sul personaggio principale o meglio sull’araldo che si farà carico di recuperarne la voce. “Diem perdidi” è infatti il racconto della vita di Alice e del suo decadimento psichico da parte della figlia, per mezzo di un monologo (ogni paragrafo comincia con “Ricorda”, in terza singolare) in cui la donna ripercorre i momenti fondamentali della vita di sua madre: gli anni in Giappone, un grande amore, il matrimonio, il trasferimento negli Stati Uniti e poi ancora la nascita dei figli, il lavoro come domestica, la terza età, la demenza senile; sino al giorno in cui Alice, dichiarata non più autosufficiente, viene trasferita in una casa di cura.

“Fra gli oggetti della sua vita precedente che al Bellavista non le serviranno più ci sono: la sua tessera scaduta del Ralphs (non tornerà tanto presto a fare la spesa), il suo enorme ombrello rinforzato con le nuvole bianche sul lato inferiore (né troverà più un «tempaccio»), la sua fede nuziale (la perderebbe sicuramente nel giro di pochi giorni), la sua giacca di nylon imbottita (solo abbigliamento da casa, per favore: la temperatura diurna del Bellavista è di ventidue gradi costanti tutto l’anno), la sua preziosa collezione di inutili pezzi di spago (no comment) e la sua agenda settimanale (d’ora in poi ogni sua giornata verrà pianficata in anticipo). Non sono graditi neppure gli animali di peluche (non siamo una scuola materna), così come qualunque opera d’arte che potrebbe aver realizzato negli ultimi cinque anni. Niente fotografie sui davanzali (i davanzali devono restare sgombri). Niente mini frigoriferi. Niente mobili «di fuori». Niente crocifissi sopra il letto, per favore (siamo un’istituzione priva di immagini sacre con una rigorosa politica «anti-puntine»).

Con “Bellavista” si torna nuovamente alla dimensione corale, affidata questa volta alla direzione generale e al personale della clinica che in un vortice di registri diversi, dal finto accorato al jingle televisivo, dallo stile affabile e coinvolgente della brochure al grossolano rimbotto di un’infermiera in turno di notte, raccontano la permanenza di Alice all’interno della struttura, fino al decadimento completo, rappresentato dall’afasia. Nell’atto finaleEuroneuro” si torna alla figlia, che questa volta racconta il proprio punto di vista in una sorta di riflessione personale che spazia dall’esame di coscienza al rapporto con il padre, in un arco temporale a tre dimensioni: quella del prima, del durante e del dopo, in una sorta di epilogo post-mortem.

“Nuoto libero” di argomenti ne tocca parecchi, con un sistema di citazione che nella maggior parte dei casi scivola nella suggestione, nell’accenno di un ricordo confuso. Come fosse un filo quotidiano di pensieri, bolle d’acqua che nascono per il caso derivato dall’associazione di idee, da un incontro casuale, dalla quotidianità di un rito casalingo. La Storia va a infilarsi per carsismo un po’ dovunque – il grande amore scomparso, il trasferimento negli Stati Uniti, la vita grama della domestica – fra l’eredità culturale che un po’ scompare e un po’ viene consapevolmente rinnegata e le nuove forme sociali, così difficili da interpretare.

Continuo a imbattermi in questi meccanismi di erosione: è un fenomeno molto curioso, poiché di libri che raccontano il crollo della casa una volta svanito il proprietario, recentemente ne ho letti altri tre – uno prima e gli altri due dopo (saranno l’oggetto dei prossimi post su ADC)- senza conoscerne l’argomento a priori. Chissà dove queste parole hanno intenzione di portarmi.

“Pellegrini del sole”, di Jenni Fagan (trad. Olimpia Ellero)

«So macellare gli animali, se mai dovessimo andare a caccia», fa lui. «O magari le persone?». «Non so perché l’ho detto». «Forse un giorno finiremo per arrivarci, al cannibalismo: l’ultima risorsa per i sopravvissuti nella desolazione dell’inverno di Clachan Fells. Chi mangeresti per primo?», scherza Constance. «Non sceglierei né te, né Stella», dice lui. «Quanto sei dolce, e premuroso». «Siete entrambe troppo magre», spiega Dylan.”

Novembre 2020, Londra – Soho, 345a Fat Boy Lane. Il trentottenne Dylan cammina per l’ultima volta fra le poltrone del Babylon, “il più piccolo cinema d’essai d’Europa” che come tante altre piccole imprese della zona non ha retto l’impatto con la gentrificazione. Il minuscolo teatro, opulento nella sua decadenza di velluti e cristalli, sul cui schermo erano passati cavalieri Jedi e Goonies, documentari sulla Luna e poi Linch, Besson, Bergman e il fantasma di Nosferatu, sta per essere ceduto ai creditori, che lo trasformeranno in un immobile di design. Il cinema non rappresenta soltanto l’attività professionale di Dylan ma anche la sua eredità familiare: a rilevarlo era stata infatti la nonna, Gunn MacRae, che per decenni lo aveva poi gestito insieme alla figlia Vivienne e al nipote, cresciuto fra l’angusto appartamento annesso, il palco, la stanza del proiezionista e la cantina che Gunn utilizzava per macellare le carni e produrre il suo famoso gin artigianale. Gunn è mancata da poco, vittima di una morte improvvisa e alquanto misteriosa: un lutto che con la malattia di Vivienne, deceduta a poche settimane di distanza dalla madre, ha contribuito a farsi per Dylan ferita insanabile.

“Pellegrini del sole” è un distopico raffinatissimo, che si nutre di gran competenza tecnica e notevoli artifici di trama. L’autrice, d’altra parte, è Jenni Fagan: nata in Scozia nel 1977, laureata alla Greenwich University, un dottorato in filosofia all’Università di Edinburgo, varie borse di studio, è pubblicista per The Independent, Marie Claire, the New York Times , artista e scrittrice con all’attivo diverse raccolte di poesie, racconti e il romanzo “Panopticon” – finalista ai premi Desmond Elliott e James Tait Black.

Il punto di tutta questa storia è che Londra è stretta nella morsa di un gelo sempre più intenso: a causa dello scioglimento delle calotte polari dovuto all’inquinamento, a cui è seguito l’arresto della corrente nord-atlantica, tutto il pianeta sta entrando in quella che parrebbe proprio una nuova era glaciale. A Londra la temperatura è ormai sotto zero da mesi, il Tamigi si sta ricoprendo di ghiaccio, molti si preparano a una migrazione collettiva verso sud; i satelliti riportano foto dell’Europa imbiancata, dagli Stati Uniti giungono notizie sempre più allarmanti di violenza atmosferica e stragi di massa. Dylan però, – assediato dai creditori, orfano di famiglia e disoccupato – in maniera del tutto controintuitiva sale su un pullman alla volta del Nord. La sua meta è la Scozia: con sé porta le ceneri delle due donne (Vivienne è chiusa in un Tupperware, Gunn dentro a una scatoletta di gelato Carte d’Or), che intende spargere sull’isola natia della nonna, nelle Orcadi, e alcune carte che lo fanno proprietario di una roulotte per nomadi, comperata a sua insaputa dalla madre. Mentre l’autunno scivola nell’inverno e le temperature continuano a scendere – siamo già a meno venti – , un iceberg di dimensioni gigantesche si avvicina alla costa, le scuole vengono chiuse e i grandi della Terra, riuniti in consulta, si dimostrano inevitabilmente impotenti, Ryan raggiunge il camping di Clachan Fells e fa conoscenza dei suoi abitanti, un caleidoscopio di persone ai margini tra cui un vecchio studioso di astronomia con le dita piene di anelli e un’armonica nella tasca dei pantaloni, una prostituta in tuta di lattex, una coppia di giovani satanisti e infine Constance, capelli biondissimi e ciglia bianche di ghiaccio, il di lei ex marito che vive con la terza moglie in un cottage poco distante lavorando come imbalsamatore di animali e la loro figlia figlia Stella – che in realtà è un preadolescente in transizione, della cui nuova identità di genere il padre non vuole sentir parlare. Fra riunioni nella sala parrocchiale, gruppi di aiuto tenuti dalle suore della congregazione locale, zuppe calde ed emergenza sanitaria, tutta la comunità si arrabatta per sopravvivere alle condizioni climatiche sempre più proibitive. L’inverno scende buio, durissimo e sfocia in una primavera splendente ma a meno cinquanta gradi: quando la corrente salterà definitivamente, le strade diventeranno impraticabili per via del ghiaccio e le tempeste di neve scenderanno dalle montagne improvvise e terrificanti, congelando senza pietà tutto ciò che troveranno sul loro cammino, uomini inclusi, allora la favola nera di Constance e Dylan si trasformerà nell’orrore di una nuova estinzione.

La Scozia è terra di miti e leggende. E così si racconta che nonna Gunn, cacciata dalla casa paterna poiché incinta di Vivienne, frutto di un incesto, in una notte londinese di buio e tempo brutto abbia sottratto le chiavi del Babylon al diavolo in persona, con l’inganno, durante una mano di carte – e che il diavolo quelle chiavi sia venuto a riprendersele. Si racconta anche di Constance, che balla alla luce dei falò indossando una maschera di lupo – un lupo vero, scuoiato dal marito fedifrago in segno di pentimento, e dei Sunlight Pilgrims, monaci-asceti abitanti delle Orcadi che un giorno come impazziti si lanciarono in massa giù dalla scogliera: tutti tranne uno, che rimase sull’isola nutrendosi unicamente dei raggi del sole – e lo trovarono così, nella posizione del loto, “nudo come un verme e duro come il marmo”. Se da una parte le favole sono il modo che abbiamo per inzuccherare le medicine più amare, dall’altra è anche vero che alla bellezza del mondo non c’è mai fine, a dispetto di tutte le più grandi schifezze alle quali si venga esposti. E lo sa bene Jenni Fagan, che di certe dinamiche ne ha contezza – il bullismo scolastico verso i ragazzi fragili, l’assistenzialismo peloso di alcuni conciliaboli ai quali comunque occorre rivolgersi per rimediare a un welfare farraginoso e lentissimo, se non inesistente, il lavoro precario e sottopagato, le famiglie disfunzionali e violente – lei che per tutta l’infanzia ha vissuto fra case famiglia, pensionati minorili e parcheggi per nomadi e che tutt’oggi collabora con istituti di detenzione, rifugi e altre realtà che accolgono persone vulnerabili.

Gli artifici di trama che Fagan mette in scena, in realtà, sono sì stupefacenti ma solo perché così veri da non credere ai propri occhi; a volte si tratta di ambientazioni (le roulotte metallizzate che ognuno addobba secondo il gusto o al contrario abbandona alla decadenza, la sala parrocchiale caldissima e soffocante con le dame di carità che si prodigano in un servizio tutto tranne che disinteressato, il teatro di posa dell’Ikea, soggiorno-salotto-cucina, aperto ai più bisognosi in una assurda messa in scena di casa di bambole); altre volte di circostanze (Constance che per mestiere recupera mobili dalla discarica comunale e li rivende, magnificamente restaurati shabby chic [ndr: shabby shit per Stella] a facoltose signore di campagna apparentemente ignare della loro provenienza), altre ancora di individui, che per particolarità e sentimenti non possono che appartenere all’esperienza della scrittrice (la coppia dei satanisti in erba, i bulli di classe, qualche anziano rassegnato all’indigenza, i lavoratori a giornata: rudi, facili alle mani e obliqui nello sguardo; l’angoscia che prende quando scende il buio, il desiderio di un luogo caldo dove consumare un pasto per una volta sfizioso, la fatica nell’interazione con le strutture pubbliche). Per paradosso, è come se tutti i personaggi che Fagan mette in scena – protagonisti compresi – ne venissero fuori un po’ sfocati, come se lo sguardo (del punto di vista multiplo, per altro) non potesse fare altro che raccogliere impressioni senza davvero arrivare a conoscere nel profondo, cosa d’altra parte molto frequente nel mondo di fragilità economica e sociale descritto dall’autrice, spesso caratterizzato da legami familiari precari, instabilità lavorativa …e dalla legge non scritta del farsi i fatti propri.

A questo proposito vale la pena una digressione sulla tematica gender, che Fagan tratta in maniera molto equilibrata e definita poiché, prendendo come punto di vista quello interno di Stella, ne evidenzia i desideri e i sentimenti ma anche la criticità di un sistema di pensiero evidentemente complesso e multistrato, che non viene scisso (ma neanche si nutre eccessivamente [di]) da tutta una serie di situazioni contingenti e condizionamenti familiari, ad esempio l’assenza di figure maschili di riferimento o il rapporto con la madre: donna energica, colta e abilissima ma evidentemente vittima di una relazione abusante. Anche il contesto che Stella frequenta è specifico ma multiforme e si discosta da un immaginario che spesso si vorrebbe invece molto polarizzato: per esempio Stella è sì vittima di bullismo a scuola, però può contare su una comunità all’interno della quale sembra prevalere una sorta di partecipe indifferenza; ha un medico che – vero – le nega le terapie ormonali ma non in nome di un’opposizione soggettiva: in maniera onesta si dichiara professionalmente scettico e non idoneo alla valutazione. Dylan è figura che sta in mezzo, come se fosse, nella sua imprecisa identità di adulto fuori canone (attaccatissimo ai legami familiari, gran lavoratore, per nulla ambizioso ma nemmeno portatore di uno stile di vita di naivete intellettualoide), una specie di bussola a suggerire un sistema comportamentale che potrebbe essere utile in questi casi: imparare a non negare la realtà dei fatti. Qualsiasi fatto, anche quello, scomodo per i più attivisti, di tenere presente la famosa …storia dei gameti. Tuttavia nell’economia del romanzo la questione transgender non diventa predominante perché è inserita in un contesto più ampio, che appartiene con pacifica evidenza alla fantascienza distopica, di generale critica politica e sociale all’interno del quale il tema diventa soltanto una delle molte difficoltà che affliggono le fasce di popolazione più fragili.

“Uno stormo di uccelli vola basso sopra la sua testa. Il verde muschio, il viola e il rosso oro sfumano nel marrone. Folate di nevischio si alzano sulla montagna. Le cime degli alberi scompaiono in un batter d’occhio, appena l’ondata candida raggiunge la vetta della montagna e ne ridiscende, ancora più fitta e più rapida, colorando ogni cosa di bianco, finché, nel giro di pochi secondi, il paesaggio non si è totalmente trasformato.”

“Sai come mi sento, mamma? Come se la neve stesse per ricoprire il mondo intero, perfino le piramidi, perfino le spiagge e gli aeroporti deserti e i grandi scheletri delle montagne russe in quei parchi di divertimento vuoti dove nessuno va più da secoli. Anche quelli finiranno sepolti sotto la neve, come le città e i grattacieli e pure i maxicontainer delle navi sull’oceano, la baia di San Francisco, tutte le strade di Roma e le taverne di Atene. I lupi artici vagheranno in ogni parte del mondo, e i goth domineranno il mondo.”

Scrivere di fantascienza distopica significa anche aver contezza del (New)Nature writing, particolarità del descrivere realtà immaginarie che spesso scivola in secondo piano a favore di ambientazioni di maggiore impatto scenografico. Fagan non ci parla di contesti urbani alla The day after tomorrow (che con gran furbizia programmatica relega alle fantasie mainstream di una tredicenne imbevuta di catastrofilm e videogames – ndr: e il Tamigi ghiacciato viene utilizzato come spazio espositivo, perché la coolness sarà l’ultima a lasciarci) quanto di piccole alterazioni, impercettibili cambiamenti che sommati l’uno all’altro daranno il via all’inevitabile – e soprattutto ci parla della Natura, del modo che avrà di riprendersi il pianeta, di quali specie sopravviveranno e quali no, dell’equilibrio ristabilito, di come il non-umano si farà strada fra le nostre rovine.

“«Mi manca la chiarezza». «Che cosa intendi, mamma?». «Voglio dire che mi manca il fatto che le cose siano chiare. Il tempo, Stella! (…) Mi mancano quelle dannate estati belle lunghe, gli autunni piovosi, gli inverni deprimenti, le primavere variabili.»”

“«Beh, quando finiremo il cibo in scatola, e poi gli animali surgelati – e ci vorrà un bel po’ di tempo – penso che sarò io il primo a essere mangiato. Sapete, è un po’ come quella barzelletta dell’orsetto che va nel bosco e dice ‘Ho paura’, e allora l’orso più grande gli fa: ‘Non capisco di cosa tu abbia paura, non sei mica tu quello che deve tornare da solo’»”. Sono tutti fermi ad ascoltare l’orologio che ticchetta. «Ma, se mi mangerete per primo, potreste farmi un favore?». «Quale sarebbe?» gli chiede Constance. «Beh, sono contento di vedere che nessuno mi sta contraddicendo. Se davvero lo farete, potreste tenere da parte le mie ossa, ridurle in polvere e trasformarle in un bel servizio da tè in porcellana?».”

“Membrana”, di Chi Ta-Wei (trad. Alessandra Pezza)

(progetto grafico NERO, illustrazione di copertina Lucrezia Viperina)

“Sciocchina, i trattamenti cutanei curano l’esterno, non l’interno.”

La fantascienza transumanista di Mary Shelley cresce tra le inesauribili declinazioni del cyberpunk da Gibson a Sterling, s’aggrappa al fertile terreno dei manga (Akira, Ghost in the shell, per dire), semina dubbi nel ventre dei supereroi a stelle e strisce toccando proprio il cuore della vigorosa supremazia occidua – come ci raccontano i Tre millimetri di Matheson, il Jedi rinnegato Darth Vader, l’affaire Wolverine. Il superamento del corpo, punto riguardo al quale gli esseri umani, va detto, stanno in fissa perpetua, nella speculative fiction viene raccontato principalmente attraverso il controverso rapporto carne-macchina, precisamente nel momento in cui la tecnologia assume la funzione di strumento di sorpasso. La varietà di soluzioni è infinita a livello pratico ma ben codificata nei sottesi principi generali, in quello che per certi versi può essere interpretato come un crescendo di soluzioni ad hoc, dipendenti non solo dal livello dello sviluppo tecnologico ma anche dal grado di agiatezza economica del singolo (individuo o gruppo sociale): si comincia con le protesi esterne per passare agli innesti – del tutto meccanici o ibridi uomo-macchina -, sino ad arrivare all’interfaccia neurale impiantabile (la pila corticale di Altered Carbon, che può essere prelevata da un corpo, non a caso definito custodia, e inserita in un altro, rendendo così di fatto possibile l’immortalità, certo a patto di avere mezzi sufficienti per comperarsi un nuovo …contenitore).

“(…) a quanto pareva non era così semplice rimuovere a piacimento le parti del corpo indesiderate… Non avevano più giocato a mangiarsi. Gli adulti però se ne erano già accorti. La dottoressa notò dal monitor che ad Andy mancava un dito. Domandò cosa fosse successo e, stranamente, anziché sgridare Momo la mise in guardia. «Divertitevi quanto volete. L’operazione si avvicina e allora rimpiangerete di non aver giocato abbastanza. Però non mangiatevi, altrimenti non sapremo come fare», spiegò, «Momo, sarai tu ad andarci di mezzo per aver mangiato il dito di Andy».

Città di T., anno 2100: l’umanità si è ritirata nelle profondità degli oceani per sfuggire ai cambiamenti climatici innescati dall’inquinamento. L’incredibile sviluppo tecnico ha permesso la sopravvivenza della nostra specie ma il mondo sommerso è governato dalle industrie ipertecnologiche che oltre a contendersi i fondali marini continuano a rivaleggiare anche sulla terraferma, ormai ridotta a un parco archeologico cotto dai raggi ultravioletti, tramite guerre per procura combattute da macchine e androidi. Nella città di T. – in cui dominano asettici colori pastello e giardinieri strapagati, metà umani e metà robot, curano la preziosissima vegetazione – vive Momo, famosa estetista della pelle. Momo è divenuta una celebrità nel ramo dei trattamenti cutanei, professione molto ambita poiché l’inquinamento sulla terraferma e le atmosfere modificate nei fondali sottopongono la pelle umana a stress e malattie. La trentenne però non approfitta della notorietà e anzi vive una sorta di eremitaggio autoimposto, con il computer a fare da unico strumento attraverso cui interagire con l’esterno – a parte le sedute con i clienti durante le quali, tuttavia, mantiene un riserbo divenuto ormai leggenda. In occasione del suo trentesimo compleanno, però, alla porta si presenta sua madre, da cui si è separata vent’anni prima. Questa improvvisa apparizione darà il via a una serie di riflessioni che culmineranno in un completo stravolgimento di punti di vista, legato al fatto più importante della vita di Momo: un’operazione salvavita, subìta quando aveva dieci anni (che aveva per altro compreso anche il cambio di sesso), rispetto alla quale la madre non ha mai voluto fornire dettagli.

“Nel discolibro, Amleto diceva: «Potrei vivere nel guscio di una noce e credermi re d’uno spazio infinito, se non fosse per certi cattivi sogni».”

Per molto tempo ci siamo nutriti di fantascienza occidentale pensandola unica opzione possibile e focalizzandoci di conseguenza su un certo tipo di antagonismi e storytelling (dal quale però, va detto, alcuni autori e autrici avevano tentato di metterci in guardia); grazie però al lavoro di piattaforme di nicchia e al più recente investimento delle case editrici nella traduzione da lingue non anglofone s’è reso evidente quanto il futuro della fantascienza sia legato a esperienze diverse da quelle della scifi occidentale. L’opera divulgativa, sia dell’originale sia in traduzione dalla lingua madre non mediata dall’inglese, ha il merito di aprire al panorama non anglofono il pubblico mainstream e, allo stesso tempo, di facilitare il recupero dei testi da parte di chi s’interessa di scifi più nel dettaglio: afrofuturismo e fantascienza asiatica non sono esattamente fenomeni emergenti quanto un sistema di declinazione della materia presente da tempo e su cui qui da noi manca ancora, in tanti casi, lo sguardo d’insieme. Esempio lampante di tutto questo discorso è, appunto, “Membrana“, pubblicato a Taiwan nel 1995 e scritto dal prolifico Chi Ta-wei (scrittore, studioso di storia letteraria sinofona, esperto di temi LGBTQ, professore associato di letteratura taiwanese presso la National Chengchi University di Taipei), un romanzo breve che nella costruzione di uno scenario distopico si impegna ad affrontare temi di natura prettamente locale.

Lo scenario distopico scelto è quello della catastrofe post-apocalittica di matrice ecologica: in particolare, l’autore si riferisce all’assottigliamento dell’ozonosfera, uno dei primi veri segnali dell’inquinamento a opera umana, questione che tanto aveva colpito noi della X Gen. Tuttavia, l’indeterminatezza delle specifiche tecniche dimostra il sostanziale interesse dell’autore per lo sviluppo della parte speculativa più che per la creazione di una distopia mirata. Le considerazioni di Chi Ta-Wei difatti si inseriscono all’interno dell’analisi del sé e della critica sociale, con specifico riguardo alla realtà asiatica. Per esempio, uno dei punti cardine è l’integrazione di persone fuori canone nella rigida società ipernormativizzata orientale, il che non vuol dire solo temi LGBTQ ma anche la riflessione sulla realizzazione personale della donna quando non comprenda la tradizione del matrimonio e della maternità. Un altro argomento di forte interesse è l’analisi degli effetti dei vecchi e soprattutto nuovi colonialismi (di cui è metafora la battaglia per la conquista degli oceani) e la questione delle guerre per procura, nonché l’argomento dell’appartenenza sociale, culturale e politica alla sfera d’influenza cinese.

Membrana è tutto ciò che ci avvolge, in un continuo gioco di specchi e rimandi: è la pelle su cui scivolano gocce d’acqua e raggi di sole, baci di amanti e sbuffi di vento, ma è anche la delicata carta della stratosfera che riveste il nostro pianeta; è “il confine invalicabile tra il nostro corpo e le cose esterne”, è il luogo in cui risiede la “frattura visibile” provocata dai conflitti interpersonali, l’ “ironia bruciante” della cicatrice quando è frutto di una sottrazione. Da rifletterci.


In pianura .2: “Génie la matta”, di Inès Cagnati (trad. Ena Marchi)

“Se la gatta o la cagna aveva fatto i piccoli, le dicevano: «Génie la matta, intanto che fai una pausa, va’ ad ammazzare i gattini». O i cuccioli. Lei metteva i gattini o i cuccioli in un sacco con dei sassi e andava a gettarlo nel fiume. Io la inseguivo a distanza, perché ogni tanto si girava e diceva: «Vattene». In certe fattorie gattini e cuccioli li seppellivano vivi nel letamaio. Mi ricordo di cagne che cercavano i piccoli piangendo. Correvano da ogni parte, chiamavano, cercavano, puntando il naso, per ore intere. Alla fine si accucciavano in un angolo della casa e piangevano. Gli preparavano frittate con il prezzemolo per asciugare il latte e le cagne piangevano.”

Continuo a seguire la strada della pianura. Sono briciole di pagine che riesco a recuperare lentamente e però vado avanti perché più di tutto mi interessano le corrispondenze. Sul filo sottile che separa quel che la pagina dice da quel che vogliamo farle dire – è come camminare lungo la sponda buia e scivolosa di un fosso! – cerco impronte di piedi scalzi, orme di stivali e linee di sguardi, qualcosa che è passato da lì prima di me, a cui voglio andar dietro.

“Tornando da scuola, prendevo scorciatoie, correvo nel fango, negli artigli dei rovi, nel richiamo rosa dei meli cotogni. Sguazzavo nei pantani.”

C’è lo scrivere di Natura, quel modo laterale di vedere il non umano che ha la caratteristica di un riguardo poco meno che sacro, emendato da qualsiasi personale compiacimento – con l’uomo incastrato nel mezzo, nella consapevolezza di un significato inaccessibile. Questo cerco, un sistema di scrittura libero dallo sguardo consapevole e interpretato:

“Dopo il pasto di mezzogiorno, nelle fattorie, si faceva una pausa, in genere di un’ora, a volte di più, a volte di meno, a seconda della stagione o della fattoria. D’estate, durante la pausa le gente spariva nelle camere da letto, i cani nella paglia dei fienili o verso i ruscelli. D’inverno, le donne rimanevano accanto al fuoco senza far niente o a sferruzzare, gli uomini e i cani andavano nei fienili a fare non so che.”

E poi c’è il Male, la brutalità che a volte, se viene dalla pancia vuota, consuma l’animo. L’invidia corrode il pensiero, gelosia dei bisogni primari: l’acqua corrente, le conserve di frutta per l’inverno, i vestiti nuovi per scuola, un amore, dei figli, continuare a studiare, la compagnia di un animale domestico. È un veleno che scorre nelle vene di tutto il paese, un virus che le persone si passano l’una con l’altra, nel continuo specchiarsi di una reclusione di gruppo a cui non sembra possibile sottrarsi, pena il disconoscimento. Nei paesi della provincia accade spesso: la necessità del falò, il fantoccio bruciato che assume le sembianze della strega – donna bellissima e lasciva, di famiglia nobile e prestigiosa, che ammalia per sortilegio gli altrimenti probi e purissimi membri del concilio sociale. “Génie la matta” non fa eccezione e non perché ci si diverta a costruire nuove varianti di una medesima leggenda così, per penuria di idea ma perché, come racconta Cagnati in coda al libro, lo schema dell’investitura del matto si ripete sempre secondo una precisa convergenza, al di là del luogo e del tempo.

“Penso che il comportamento nei confronti del «matto» si possa spiegare così: da un lato il matto è l’indemoniato, posseduto dallo spirito del male, dal diavolo. È quindi colpevole di tutti i mali, dal momento che le terribili punizioni che il cielo infligge (pesti, carestie, epidemie varie) sono dirette contro i malvagi. Come le streghe, gli ebrei, gli eretici, gli stranieri, il matto è responsabile dei mali subiti da tutti e merita, perché i flagelli abbiano fine, persecuzione e morte. Il matto dà ragione dell’esistenza dei mali che conducono alla morte e, al tempo stesso, lascia sperare a coloro che si reputano virtuosi, rispettosi della religione o dell’ideologia dominante, di potervi sfuggire. Dall’altro lato il matto è colui che ci rassicura su noi stessi. Ogni essere diverso da noi è matto, perché se siamo quello che siamo c’è una ragione. L’altro è matto perché noi siamo normali, e affinché noi possiamo esserlo. Ne è il garante.”

Come è naturale il congegno secondo cui lo scemo del villaggio in “Pontescuro” si ritrova accusato dell’omicidio della bella Dafne, così Génie, che matta non è (ha solo scelto la via del silenzio, l’unica percorribile), viene riconosciuta adatta a far parte della comunità, sempre con le dovute cautele e limitazioni, si intende, sino a quando accetta di incarnare – ovviamente in maniera consapevole – il ruolo a cui è stata promossa.

“Raccontavo la storia delle belle principesse che salgono su torri merlate così alte da fermare le nuvole, torri dove le notti si addensano di grida, dove i giorni coprono di polvere le ombre dei sentieri, giorni di deserto in cui quelli che aspetti arrivano troppo tardi. Raccontavo soprattutto la storia di Penelope che si consuma gli occhi nelle cupe caverne, e quella di Lorelei che sale sulle rocce più alte e tende la braccia verso il tumulto delle acque del Reno, di Ofelia, innamorata delle ninfee, che fugge, distesa nell’acqua lattiginosa dei fiumi e dietro di lei resta solo la scia dei suoi capelli d’oro.”

Anche la fine della storia è nota, un’altra di quelle orme di gatto che vado a cercare, la terra smossa sempre nel medesimo punto in cui l’animale affonda le zampe, giro dopo giro: contrariamente a quanto il coro del popolo crede, cavarsi fuori dall’ingranaggio è difatti possibile ma, come ci insegna il fattore, tutto perirà nella violenza da cui è nato e nulla verrà elargito in dono.