
“Se la gatta o la cagna aveva fatto i piccoli, le dicevano: «Génie la matta, intanto che fai una pausa, va’ ad ammazzare i gattini». O i cuccioli. Lei metteva i gattini o i cuccioli in un sacco con dei sassi e andava a gettarlo nel fiume. Io la inseguivo a distanza, perché ogni tanto si girava e diceva: «Vattene». In certe fattorie gattini e cuccioli li seppellivano vivi nel letamaio. Mi ricordo di cagne che cercavano i piccoli piangendo. Correvano da ogni parte, chiamavano, cercavano, puntando il naso, per ore intere. Alla fine si accucciavano in un angolo della casa e piangevano. Gli preparavano frittate con il prezzemolo per asciugare il latte e le cagne piangevano.”
Continuo a seguire la strada della pianura. Sono briciole di pagine che riesco a recuperare lentamente e però vado avanti perché più di tutto mi interessano le corrispondenze. Sul filo sottile che separa quel che la pagina dice da quel che vogliamo farle dire – è come camminare lungo la sponda buia e scivolosa di un fosso! – cerco impronte di piedi scalzi, orme di stivali e linee di sguardi, qualcosa che è passato da lì prima di me, a cui voglio andar dietro.
“Tornando da scuola, prendevo scorciatoie, correvo nel fango, negli artigli dei rovi, nel richiamo rosa dei meli cotogni. Sguazzavo nei pantani.”
C’è lo scrivere di Natura, quel modo laterale di vedere il non umano che ha la caratteristica di un riguardo poco meno che sacro, emendato da qualsiasi personale compiacimento – con l’uomo incastrato nel mezzo, nella consapevolezza di un significato inaccessibile. Questo cerco, un sistema di scrittura libero dallo sguardo consapevole e interpretato:
“Dopo il pasto di mezzogiorno, nelle fattorie, si faceva una pausa, in genere di un’ora, a volte di più, a volte di meno, a seconda della stagione o della fattoria. D’estate, durante la pausa le gente spariva nelle camere da letto, i cani nella paglia dei fienili o verso i ruscelli. D’inverno, le donne rimanevano accanto al fuoco senza far niente o a sferruzzare, gli uomini e i cani andavano nei fienili a fare non so che.”
E poi c’è il Male, la brutalità che a volte, se viene dalla pancia vuota, consuma l’animo. L’invidia corrode il pensiero, gelosia dei bisogni primari: l’acqua corrente, le conserve di frutta per l’inverno, i vestiti nuovi per scuola, un amore, dei figli, continuare a studiare, la compagnia di un animale domestico. È un veleno che scorre nelle vene di tutto il paese, un virus che le persone si passano l’una con l’altra, nel continuo specchiarsi di una reclusione di gruppo a cui non sembra possibile sottrarsi, pena il disconoscimento. Nei paesi della provincia accade spesso: la necessità del falò, il fantoccio bruciato che assume le sembianze della strega – donna bellissima e lasciva, di famiglia nobile e prestigiosa, che ammalia per sortilegio gli altrimenti probi e purissimi membri del concilio sociale. “Génie la matta” non fa eccezione e non perché ci si diverta a costruire nuove varianti di una medesima leggenda così, per penuria di idea ma perché, come racconta Cagnati in coda al libro, lo schema dell’investitura del matto si ripete sempre secondo una precisa convergenza, al di là del luogo e del tempo.
“Penso che il comportamento nei confronti del «matto» si possa spiegare così: da un lato il matto è l’indemoniato, posseduto dallo spirito del male, dal diavolo. È quindi colpevole di tutti i mali, dal momento che le terribili punizioni che il cielo infligge (pesti, carestie, epidemie varie) sono dirette contro i malvagi. Come le streghe, gli ebrei, gli eretici, gli stranieri, il matto è responsabile dei mali subiti da tutti e merita, perché i flagelli abbiano fine, persecuzione e morte. Il matto dà ragione dell’esistenza dei mali che conducono alla morte e, al tempo stesso, lascia sperare a coloro che si reputano virtuosi, rispettosi della religione o dell’ideologia dominante, di potervi sfuggire. Dall’altro lato il matto è colui che ci rassicura su noi stessi. Ogni essere diverso da noi è matto, perché se siamo quello che siamo c’è una ragione. L’altro è matto perché noi siamo normali, e affinché noi possiamo esserlo. Ne è il garante.”
Come è naturale il congegno secondo cui lo scemo del villaggio in “Pontescuro” si ritrova accusato dell’omicidio della bella Dafne, così Génie, che matta non è (ha solo scelto la via del silenzio, l’unica percorribile), viene riconosciuta adatta a far parte della comunità, sempre con le dovute cautele e limitazioni, si intende, sino a quando accetta di incarnare – ovviamente in maniera consapevole – il ruolo a cui è stata promossa.
“Raccontavo la storia delle belle principesse che salgono su torri merlate così alte da fermare le nuvole, torri dove le notti si addensano di grida, dove i giorni coprono di polvere le ombre dei sentieri, giorni di deserto in cui quelli che aspetti arrivano troppo tardi. Raccontavo soprattutto la storia di Penelope che si consuma gli occhi nelle cupe caverne, e quella di Lorelei che sale sulle rocce più alte e tende la braccia verso il tumulto delle acque del Reno, di Ofelia, innamorata delle ninfee, che fugge, distesa nell’acqua lattiginosa dei fiumi e dietro di lei resta solo la scia dei suoi capelli d’oro.”
Anche la fine della storia è nota, un’altra di quelle orme di gatto che vado a cercare, la terra smossa sempre nel medesimo punto in cui l’animale affonda le zampe, giro dopo giro: contrariamente a quanto il coro del popolo crede, cavarsi fuori dall’ingranaggio è difatti possibile ma, come ci insegna il fattore, tutto perirà nella violenza da cui è nato e nulla verrà elargito in dono.