"Le Sorelle Soffici", di Pier Paolo Vettori

More about Le sorelle Soffici Pare non sia più né utile né necessario, o peggio quanto mai dannoso, affrontare con i bambini in età prescolare la fiaba del Lupo e dei Sette Capretti così, d’emblée, nella sua cruda interezza di infanti mangiati, masticati e ingoiati e di pance di lupi tagliate con furore di lunghe cesoie da sarta.

Capita poi che il lupo di Cappuccetto Rosso sia relegato a macchietta folkloristica nelle mani dell’iconografia di un cacciatore tutto muscoli e fucili che, attraverso una ricontestualizzazione sentita come necessaria, assume le fattezze di un Buzz Lightyear ante litteram; mentre della mamma di Biancaneve (quella vera, quella che la bambina dalla carnagione di porcellana ha perduto, per morte improvvisa, in tenerissima età) in talune rivisitazioni proprio non c’è traccia, abbandonata in un limbo di non-consapevolezza e confinata al momento – si spera più lontano possibile – in cui il piccolo ascoltatore, rapito da sacro fuoco di conoscenza, costringerà il malcapitato genitore ad affrontare in maniera reattiva il tragico momento della rivelazione. 

Sarà, ma se non avessimo ben impressa nella memoria la risata malefica della strega di Biancaneve, o i vezzi delle amabili parenti acquisite di Cinderella, non so con che energia e consapevolezza potremmo farvi affrontare un’altra deliziosa matrigna, l’affascinante Olga della fiaba di Veronica e Cecilia Soffici, cosce lunghe e sguardo appuntito su un futuro (si spera il più roseo possibile), di denaro e affermazione sociale. 

Come dire, a ognuno il suo demone, ove daimon, alla maniera un po’ filosofica, sta ad indicare quel non so che di scuro e insondabile che alberga in ognuno di noi e che le favole fin dai tempi antichi hanno avuto il merito di riportare a galla attraverso l’allegoria e la metafora. 
Non manca proprio niente, a questa fiaba moderna: la matrigna cattiva, il padre anziano e inutile, per altro in fin di vita; la fata misteriosa capace di attraversare, un piede qui e uno là, la sottile barriera che separa il mondo dei vivi da quello dei morti, rinchiusa nel corpo di una vecchia nutrice rugosa e piegata dall’età, un po’ fattucchiera de’ no’ artri un po’ stregone voodoo; e infine due protagoniste – non una, ma due! – che cercano di affrontare, a modo loro s’intende, la tragedia che sta per abbattersi sulla famiglia. 

Le “Sorelle Soffici”, ovvero, la ricetta segreta per una marmellata perfetta, che forse non esiste neppure; e poi succede che forse alla fine la scovi pure, la ricetta, ma – alla pari del frutto mortifero di Biancaneve – se ne saggi un cucchiaino, offerto dalla seducente matrigna trasformatasi in strega per l’occasione, precipiti nel buio dell’oblio senza fondo. 
Sta a noi, come sta ai bambini, affrontare proprio quel buio che si nasconde tra le pieghe delle parole, e trarne le opportune, personali considerazioni. 

Con un’unica differenza: se la favola del lupo cattivo – quella originale, diciamo – viene interpretata sia attraverso l’adozione del punto di vista esterno, onnisciente, sia grazie alla trasmissione orale del testo e alla mediazione linguistica e contenutistica prodotta dal genitore intento nella lettura, qui il lettore (adulto) deve fare tutto da solo, come è giusto che sia. 
La narrazione in prima persona di Veronica Soffici, affrontata per di più sotto forma di diario, la più soggettiva tecnica narrativa a pari merito con il romanzo epistolare, scardina impietosa, uno dopo l’altro – ormeggi sradicati dal mare in tempesta – i punti fermi che abitualmente separano la realtà oggettiva dalla percezione sensoriale soggettiva. 
I personaggi che popolano il mondo delle sorelle Soffici, attraverso l’osservazione spietata e allo stesso tempo coerente, ingenua e pura di Veronica, escono distorti e trasformati, non dalla metafora, ma dalla realtà di un’osservazione soggettiva, personale e per questo incontestabile. 

Se ne viene fuori storditi, affascinati da un bestiario di creature angeliche e demoniache che pervadono fin nel profondo la trama stessa dell’opera, tutte utili, nessuna esclusa, all’economia di un racconto incentrato sulle tematiche del disagio mentale, che evita con destrezza di divenire mero esercizio di stile e narrazione di un mondo fittizio, perché atemporale e scarsamente contestualizzato. 
Al contrario, l’opera ha il merito di caratterizzarsi pienamente all’interno della concretezza del quotidiano, scandito dal susseguirsi dei giorni e dei mesi, i piedi ben saldi immersi nella realtà storica del periodo attraverso una scrittura precisa, eppure così lieve, evidente e pregna di significato.