"Wool", di Hugh Howey

Più riguardo a Wool Il guilty pleasure della fiction distopica rapisce sempre, non ci sono scuse. 
Poi, che questo particolare tipo di science-fiction abbia a sua disposizione oggigiorno un ventaglio di possibilità narrative praticamente infinito e multiforme per quantità e qualità – virando verso il mondo letterario sottile e stratificato dello steampunk o declinandosi, come in questo caso, attraverso la più classica spettacolarizzazione dell’inquadratura cinematografica di matrice post-apocalittica, questo è altro discorso.

“Wool” è interessante per almeno due motivi: l’ambientazione fortemente claustrofobica e il tema ecologico ad essa sotteso.
A seguito di una catastrofe di dimensioni planetarie naturalmente (ancora) non ben identificata – alcuni indizi rivelano comunque una responsabilità quasi certamente umana – e a causa dell’inabitabilità del suolo terrestre corroso da terribili sostanze tossiche rilasciate nell’aria, da centinaia di anni i sopravvissuti sono costretti a vivere prigionieri di immense città sotterranee contenute in giganteschi silo. Il senso di pesante e continua claustrofobia – che deriva  da un world-building francamente ben congegnato – non è così scontato e offre un’alternativa interessante alle consuete (e forse ormai un po’ abusate) ambientazioni della distopia classica, tra scenari cittadini di grattacieli diroccati e lande deserte spazzate dai venti tossici dell’inverno nucleare. 
L’autore dipinge così un’enclave sufficiente a se stessa, per il cui sostentamento è necessaria la costante attenzione, da parte di tutta la comunità stessa, nessun escluso, all’utilizzo consapevole delle risorse energetiche a disposizione: acqua, combustibili, cibo, energia elettrica. Un mondo in cui il concetto di “nuovo”, quasi inesistente, è soppiantato da quello di “riciclo” e sopratutto di “riparazione” (questione, questa del riparare, tanto cara ai nostri nonni… un po’ meno  a noi). Un mondo in cui ogni individuo è responsabile – più o meno attivamente a seconda delle singole capacità tecniche – del benessere della comunità: dal bambino piccolo a cui si insegna a riutilizzare, in un continuo sforzo di re-invenzione, tutti gli oggetti del quotidiano al meccanico esperto in grado di servirsi di ogni materiale e attrezzo disponibile – e di ogni conoscenza acquisita con gli anni – per costruire macchinari utili al sostentamento e riparare quelli già esistenti, ideati e assemblati da altri venuti prima di lui.

“Wool” vince col passaparola del self-publishing di Amazon: l’autore, autopubblicatosi direttamente sul sito nel 2011 con una narrazione breve e unica, ben presto acquista popolarità e viene esortato dal pubblico ad ampliare il plot, fino ad arrivare a concepire una serie composta da ben nove uscite, in cui non mancano neppure gli spin-off. L’opera è aiutata da una trama varia e ben organizzata e da un ritmo narrativo, come già detto, fortemente cinematografico (non a caso i diritti sono stati acquisiti da una major americana): se piace il genere, l’unica perplessità sta forse proprio nella serialità, che pare ormai d’obbligo in questi casi. Sono previste infatti altre due uscite (“Shift” e “Dust”) e il dubbio è che si incorra ancora una volta nelle difficoltà più classiche proposte da trilogie simili: varietà eccessiva di personaggi e  di situazioni difficoltose da seguire anche a causa dei fisiologici tempi di attesa tra un volume e l’altro, per non parlare dei naturali “cali” di stile. Forse “Wool”, trasformandosi da stand-alone short story a “Silo trilogy” ha perso l’occasione di distinguersi nel mare magno delle narrazioni del suo genere da cui, con un colpo di reni ben assestato, era riuscita ad emergere – e con salto doppio, contando anche gli esordi in autopubblicazione. 

Buona lettura 🙂