“Fantasmi dello Tsunami”, di Richard L. Parry (trad. Pietro Del Vecchio)

“In giapponese, quando ci si allontana da casa si pronuncia una formula invariata. La persona che esce dice itte kimasu, che significa letteralmente ‘vado e torno’. Coloro che rimangono rispondono con itte rasshai, che significa ‘torna presto’. Sayonara, la parola che si insegna agli stranieri ed è il giapponese per ‘addio’, è un vocabolo troppo definitivo per la maggior parte delle occasioni, implicando una separazione prolungata o indefinita. Itte kimasu contiene una diversa carica emotiva: la promessa di un ritorno.” (pag32)

Ero molto indecisa nei confronti di questo testo. Indecisa sul leggerlo – e alla fine l’ho letto – indecisa sul proporlo qui – e alla fine qui lo propongo, con la cura del raccomandare attenzione perché non sono pagine facili né consolatorie.

“Fantasmi dello Tsunami” è l’edizione italiana di “Ghosts of the Tsunami”, il reportage che Richard Lloyd Parry, corrispondente a Tokyo per il “The Times”, ha realizzato nell’arco dei sei anni successivi al 2011 viaggiando per la regione del Tohoku, quella più colpita dalla catastrofe. Nello specifico, il reporter si concentra sulla disgrazia della scuola elementare di Okawa, in cui morirono ottantasette alunni. Su un totale di più di 18.500 vittime, l’evento di Okawa è stato l’unico ad aver coinvolto direttamente un edificio scolastico causando la morte di così tanti bambini tutti insieme. Si trattò in sostanza di una concatenazione di eventi per la maggior parte causati – ecco spiegata la reticenza dei media nipponici a riguardo – da un’errata valutazione del rischio idrogeologico (la presenza, a sei miglia dalla foce, di un’ansa nel fiume Kitakami, corso d’acqua di vasta portata che da secoli è la risorsa economica primaria per tutte le comunità rurali della zona). La sottostima del rischio portò alla stesura di un piano d’evacuazione anti-tsunami inadeguato, la cui attuazione di fatto spinse tutti i bambini, in fila indiana e divisi per classi, con il loro bell’elmetto bianco calcato in testa, in bocca all’onda di marea che montava dall’oceano e poi si ingolfava nel fiume.

Attraverso interviste agli adulti sopravvissuti, ai genitori dei bambini dispersi, tramite lo studio delle mappe, della geologia del luogo e sentito il parere di esperti, Parry racconta, con l’asciuttezza del cronista sul campo (distacco emotivo che l’autore giustamente rivendica sin dalle prime pagine), la realtà tremenda di un lutto senza fine ed evitabile – forse non del tutto ma sicuramente almeno in parte.

” ‘Personalmente, non credo nell’esistenza degli spiriti, ma non è questo il punto. Se la gente dice di vedere i fantasmi, allora va bene, basta la parola.’ “(pag280) – testimonianza dell’editore Masashi Mijikata, direttore di una piccola casa editrice specializzata in testi sul Tohoku.

La valutazione tecnica impropria, tuttavia, non fu l’unica causa del disastro, che si fonda anche su altri presupposti. Il titolo “Fantasmi dello Tsunami” fa riferimento ai racconti di possessione e ai fenomeni di “esorcismi” che crebbero in maniera esponenziale nei giorni e nelle settimane appena successive alla catastrofe. Donne che raccontavano la visita di bambini infreddoliti e bagnati, un tassista che una sera fece salire un anziano che chiedeva di essere accompagnato a casa – un’abitazione di un villaggio spazzato via dall’onda – salvo poi scoprire che nell’auto non c’era nessuno (ndr: il tassista arrivò comunque sino all’abitazione, aprì la portiera e fece scendere il passeggero). Parry si addentra, con tatto e interesse sincero, libero da qualsiasi pregiudizio, all’interno di tutte quelle credenze e leggende popolari antichissime ancora molto vive all’interno delle comunità rurali giapponesi, per tradizione e geografia sempre rimaste lontane dalla moderna vitalità metropolitana. In special modo Parry si riferisce al culto per gli antenati e al rapporto di grande familiarità nei riguardi dei defunti, un punto fondamentale nel dopo-Tsunami poiché tanti sopravvissuti non furono in grado di prendersi cura dei propri morti per via del fatto che i corpi non furono mai ritrovati o perché l’inondazione aveva portato via gli altari casalinghi – e anche perché con la morte dei propri figli, già adulti o ancora bambini, veniva meno quel patto di cura che è un tratto importantissimo della struttura familiare nipponica (sia in vita sia in morte). Si capisce quindi come mai la tragedia di Okawa sia diventata il simbolo dello sgretolarsi di una millenaria fiducia riposta non solo nell’autorità statale ma anche nei valori stessi del villaggio e della famiglia, incarnati dalle autorità anziane. L’evacuazione dei bambini, infatti, avvenne oltre che in maniera sbagliata anche in estremo ritardo, come appurato dalle testimonianze e dalle inchieste che seguirono, perché alcune autorità anziane e alcuni professori della scuola, forti della loro esperienza di vita (ndr: che non contemplava Tzunami di trentasei metri e mezzo successivi al quarto terremoto più potente nella storia della sismologia) e del loro prestigio sociale, non ritennero opportuno sveltire le procedure né dare credito ai vari allarmi diramati dalle autorità competenti.

Parry scoperchia in qualche modo anche il vaso di Pandora sui rapporti gerarchici e sulla questione femminile all’interno di una società ancora molto tradizionale e vorremmo dire “di paese”, nuclei familiari in cui la parola del suocero – spesso molto anziano e avulso dal contesto moderno – vale più di quella di una giovane madre attenta, informata e inserita nel flusso del presente quotidiano; e lo fa attraverso l’osservazione di una comunità sgretolata in cui accade che una madre appena privata dei figli – ancora dispersi – sia costretta per buona creanza e perseveranza (una delle traduzioni possibili per nintai o gaman, virtù tipicamente assegnata agli abitanti del Tohoku) a passare le giornate cucinando pasti di emergenza per tutta la comunità, pasti serviti da una madre che invece è riuscita a salvare i propri bambini perché, contro il parere dei genitori anziani, si era precipitata a scuola e li aveva ritirati appena in tempo, portandoli in salvo sulla collina a poca distanza.

A riguardo, sono molti i temi affrontati dal reporter: la tendenza al quietismo, per esempio, o l’inveterato vizio di non dar retta ai giovani (come quando due ragazzi più grandi avevano suggerito al maestro di salire sulla collina ma rimasero inascoltati), e ancora lo stigma sociale calato su quei genitori che decisero di intentare una causa e portare le autorità in tribunale, la difficoltà nell’esprimere la propria rabbia e il proprio dolore – atteggiamenti giudicati impropri e inadeguati anche da chi i figli li aveva persi a sua volta – l’incapacità di tornare alla vita di prima, in special modo per quanto riguarda i luoghi di lavoro e quelli di socialità comune all’interno dei quali le diverse parti non furono più in grado di interagire.

Se il racconto del disastro di Fukushima è più immediato da raccontare e in un certo senso più accettabile nella sua prevedibilità, meno lo è il dramma della scuola di Okawa – che tuttavia è in grado di mostrare meglio, ahimè, tutte le crepe che stanno minando dall’interno la struttura delle micro-comunità giapponesi: i modi di vivere, le relazioni interpersonali, il rapporto con la società e la vita pubblica. (Qui i twitt che ho scambiato con l’autore a proposito di questo tema).

Exorma porta in libreria un volume difficile, una sfida editoriale – e di lettura – che a mio parere vale la pena affrontare perché quelle di Parry sono pagine che liberano la mente dai vincoli dell’esotico, da quel kawaii illusorio che spesso occupa i pensieri di chi si rivolge al mondo nipponico.

“Non ci sono occhi né orecchi, naso, lingua / nessun corpo, nessuna mente; nessun colore, suono o profumo; / nessun gusto, nessun tatto, niente; né c’è un regno del vedere, o del pensiero; nessuna ignoranza, nessuna fine / dell’ignoranza; nessuna vecchiaia né morte; nessuna fine della vecchiaia e della morte; nessuna sofferenza, / nessuna causa della sofferenza, né alcuna fine / della sofferenza, nessuna via, nessuna saggezza / e nessun compimento.” (pag.126-127 – Sutra del cuore, traduzione dell’autore)