"Scompartimento n.6", di Rosa Liksom

Nata nel 1958 nel villaggio lappone di Ylitornio e figlia di un allevatore di renne, Anni Ylävaara studia antropologia a Helsinki e poi a metà degli anni ’70 si trasferisce nella vicinissima URSS, terra di cui ha sempre subito il fascino, e si specializza in scienze sociali all’Università di Mosca. Spinta dalla passione che ha fin da ragazza per i viaggi e la cultura di strada girovaga per l’Europa, aderisce alla cultura punk, vive in comuni autogestite (tra cui quella di Christiania a Copenhagen) e per mantenersi svolge i lavori più umili. Nel 1986 all’età di 28 anni, a un anno di distanza dal suo esordio letterario col nom de plume di Rosa Liksom (una raccolta di racconti: “Stazioni di transito”, che vince il premio J.H. Erkko), torna in Russia e da Mosca arriva fino a Ulan Bator – in treno, naturalmente.


Hytti nro 6”, un racconto lungo in cui l’autrice mette per iscritto questa sua esperienza sulla leggendaria Transiberiana, vince il Premio Finlandia 2011, il più alto riconoscimento letterario nazionale, è finalista al Premio del Consiglio Nordico e al Prix Médicis e ottiene un ampio successo di critica e pubblico: il tutto nonostante l’iniziale scetticismo dell’editore che lo aveva dato alle stampe addirittura in formato economico, certo di una sicura debacle visto l’argomento trattato e lo stile ermetico e malgrado la fama già consolidata dell’autrice, che da anni è ormai una delle figure più in vista del panorama culturale finnico: scrittrice, pittrice, artista e regista di cortometraggi (questo il suo website, bianco neve, minimal, molto chic e molto nordico). 

L’esperienza autobiografica, come l’autrice spesso sottolinea, è parte fondamentale della sua produzione artistica:

“Non scrivo di niente che non abbia vissuto” 

“Ogni anno di distanza che ho preso da quel viaggio era necessario. Da lontano si vede meglio”  


ribatte la scrittrice a chi le domanda come mai abbia impiegato quasi vent’anni per scrivere della Transiberiana; proprio per questo non bisogna cadere nel tranello di considerare “Scompartimento n.6” alla stregua di uno dei tanti documenti di viaggio a testimonianza di questa mitica traversata. 
In realtà questo è uno degli ultimi documenti vòlti ad attestare quella Russia (anzi, l’URSS) che fu, lì proprio a principio dello sgretolamento, in equilibrio sul precipizio, ed è prezioso per due motivi: perché nonostante sia stato redatto da una scrittrice di nazionalità non sovietica è un racconto che possiede l’accuratezza di una testimonianza da insider, grazie alla profonda dimestichezza dell’autrice con l’ambiente e la popolazione descritta; parimenti questo distacco inevitabile dalle vicende narrate, perché non proprie, dona alla narrazione un’onestà intellettuale e di intento che garantisce una visione certamente super partes
A far da sfondo la straordinaria Transiberiana che lo sguardo della Liksom scarnifica di qualsiasi facile mistificazione e che da mero pretesto per inscenare una finzione letteraria si trasforma nell’unico mezzo utileper penetrare il mondo sovietico, grazie alla versatilità di contesti che per definizione offre la letteratura di viaggio.
Mosca, 1986. Una ragazza finlandese (di cui non sapremo mai il nome perché non verrà mai pronunciato) sale sul treno che la condurrà fino in Mongolia. Si sistema in una delle cuccette dello scompartimento numero 6 (e sì, il titolo è voluto omaggio alla novella di Čechov ambientata nella corsia di un manicomio) è una studentessa di antropologia e il suo intento dichiarato è quello di arrivare fino a Ulan Bator per visionare alcune iscrizioni rupestri. 

A condividere con lei lo spazio angusto sarà un carpentiere cinquantenne, Vadim Nikolaevic Ivanov, russo fino al midollo, che durante la stagione estiva si guadagna da vivere nei nuovi cantieri alla periferia di Ulan Bator. Tanto è silenziosa e poetica lei, coi suoi pensieri delicati e sconnessi e mai espressi ad alta voce, quanto chiassoso lui nelle sue esternazioni: odori di cibo e di quotidianità, risate grasse e pianti incontrollati, canzoni, volgarità sessuali, parolacce ma anche citazioni dai classici e brevi quanto fulminanti aforismi di vita vissuta:


“Qui soffriamo senza alcun motivo e senza protestare. Ci possono fare di tutto e noi accettiamo umilmente tutto”(pag.70) 

“Quante volte ho maledetto questo paese! Eppure cosa sarei senza la Russia? Io amo questa terra” (pag.108)


Anche qui non si cada nell’errore di pensare a Vadim come a una macchietta stereotipata del personaggio-Russia; il falegname avvezzo ai campi di correzione e imbevuto, oltre che di vodka, della propaganda sciovinista di cui faceva uso il PCUS per l’educazione di massa, non è che una delle tante declinazioni dell’animo sovietico in tutte le sue passioni, idiosincrasie e contraddizioni, come l’autrice ben testimonia attraverso l’utilizzo della narrazione di viaggio grazie alla quale può mettere in scena, in una esperienza letteraria che deriva dalla conoscenza reale e concreta dei fatti, una commedia di protagonisti e di comparse che va dalla babushka al militare dell’Armata Rossa. 


Sono molte le tracce attraverso cui leggere l’opera, al di là della semplice narrazione di viaggio. Uno su tutti naturalmente l’interesse dell’autrice per i temi politici e sociali. Fondamentale la fascinazione della scrittrice per tutto ciò che all’epoca ancora traspariva, nonostante lo sfacelo, della millenaria cultura sovietica e asiatica in generale: dalle tradizioni culinarie alla passione per la musica (onnipresente) passando per la proverbiale ospitalità della steppa e gli ultimi scenari naturali mozzafiato sopravvissuti allo sciacallaggio della cementificazione.

Non è un caso che l’autrice abbia scelto – seguendo quel criterio di verosimiglianza di cui sopra – di ambientare l’opera in primavera: la coltre di neve che nell’immaginario collettivo caratterizza la steppa russa e le dona un fascino atemporale è qui prossima a sciogliersi rivelando, col ritiro dei ghiacci, panorami millenari rovinati dall’inquinamento atmosferico e delle acque, l’orrore dell’abuso edilizio, l’estrema povertà rurale, le aree suburbane vittime dell’incuria e del degrado.


“Quando il treno si mosse, il quartetto l’archi numero otto di Sostakovic proruppe improvviso dagli altoparlanti di plastica dello scompartimento e del corridoio” (pag.12)

Gli altoparlanti riversavano il dolce-amaro canto dell’ospite vichingo di Rimskij-Korsalov” (pag.46) 

“Prese dalla borsa un grosso pezzo di formaggio Rossijskij, un’interna pagnotta di segale, una bottigkia di kefir e un vasetto di panna acida. Per finire, sfilò dalla tanca laterale della borsa un sacchetto di cetrioli che perdeva salamoia, e cominciò a rimpinzarsi di pane con una mano e di cetrioli con l’altra” (pag.15) 

“Versò l’acqua nel samovar e l’accese, dosò con un cucchiaino le foglie di tè e le mise nella teiera smaltata. Non restava che aspettare che l’acqua bollisse e che linfuso riposasse quel che serviva per versarlo nei bicchieri” (pag.48)

La tensione narrativa è garantita non dall’azione ma dalle vicende personali dei due protagonisti che affiorano a tratti, ben studiati, con la tecnica del flashback (la vita sentimentale della ragazza che svelerà il vero significato del suo volontario allontanamento da Mosca) e del racconto aneddotico (gli eventi della vita passata del carpentiere Vadim che scava nella memoria della Russia comunista post-bellica) in un crescendo di tensione e curiosità da parte del lettore che però viene abilmente frenato:

“La fretta uccide, ricordatelo” (pag.58) 

raccomanda Vadim alla ragazza invitandola ancora una volta a servirsi del cibo che lui, incessantemente, le propone; medesimo atteggiamento dell’autrice, che tra il serio e il faceto strizza l’occhio allo spettatore impaziente e si serve ancora una volta dello strumento letterario (un treno che arranca verso la meta e più si avvicina, più va lento e a singhiozzo) per mostrare uno dei caratteri peculiari dell’animo russo:

“Molti concittadini che hanno voluto lanciarsi a precorrere il loro tempo, hanno poi dovuto aspettarlo in un luogo spaventoso. Bando alle fretta, quindi, e godiamoci la reciproca compagnia e questo istante!” (pag.92)

L’effetto ritmico e quasi ipnotico della trama che alterna il fermarsi e il ripartire, il dialogo e il silenzio, il sonno e la veglia, la sobrietà e l’ubriachezza, il digiuno e il nutrimento, il giorno e la notte (e che all’avvicinarsi della meta si accavallano l’uno sull’altro in un ritmo percettivo alterato, sempre più personale e meno oggettivo) è amplificato dalla struttura che in diverse parti assume i toni dell’epos narrativo fatto di ripetitività di azione, contesto e sintassi:

Tutto è in movimento: la neve, l’acqua, l’aria, gli alberi, le nuvole, il vento, le città, i villaggi, gli uomini e i pensieri” (pagg.14-64-165 etc)

L’edizione italiana di “Hytti nro 6” era stata presentata da Iperborea a Maggio scorso durante Caffè Helsinki, il festival della cultura finlandese a Milano. 

Cristina Gerosa di @IperboreaLibri descrive il testo a #BCM14, all’interno del panel “La scelta editoriale ai tempi del #selfpublishing” e oltre che identificarne il carattere: “Claustrofobia e intimità condivise da Mosca a Ulan Bator” parla dell’autrice e soprattutto di come si è arrivati a scoprire questo testo e della genesi della traduzione, ad opera di Delfina Sanna che firma anche la meravigliosa postfazione.


Qui i post condivisi: grazie a tutti per l’interesse e i retwitt.

Buona lettura 🙂