“L’altro mondo”, di Fabio Deotto

“Senza quasi accorgermene ho raggiunto Milano. Sono le cinque del pomeriggio e il sole ha già cominciato a nascondersi dietro l’orizzonte. (…) l’abitacolo viene inondato dalla luce di un tramonto mozzafiato. Lo smog e lo strato di nuvole rade appeso sopra la città si sono combinati a trasformare il cielo in un drappo arancione (…). È una visione così suggestiva che cedo di nuovo al mio lato adolescente, parcheggio l’auto e mi sporgo per scattare una foto. Ma poi mi tornano in mente i post frustrati su Instagram di tutti gli utenti che cercavano di catturare il cielo di San Francisco durante gli incendi incontrollati del 2020, quando il fumo aveva steso un’uniforme cappa arancione su tutta la California del Nord. Quell’assortimento cromatico era così insolito che gli algoritmi dei loro telefonini lo prendevano come un errore da correggere e restituivano immagini sbiadite o sovraesposte, in cui l’arancione si trasformava a volte in un giallo opaco altre in un rosa grigiastro.”

Non so dire il sentimento che mi ha preso a metà agosto, quando al telegiornale passavano le immagini dei passeggeri di quel traghetto – lo spettacolo dentro lo spettacolo come gli specchi che, nelle sale dei barbieri, guardano se stessi in un continuo infinito: io guardavo la televisione che a sua volta riproduceva delle immagini catturate con una telecamera, che a sua volta aveva inquadrato persone in calzoncini e ciabatte che riprendevano coi loro telefonini quelle fiamme altissime e il cielo rosso, infernale nella notte. Qualche giorno prima, isolata nella valle tra un fiume di fango che vomitava se stesso giù verso il lago e lo spavento della grandine notturna, chicchi come nocciole che sbattevano sui coppi del tetto, avevo deciso di cominciare “L’altro mondo”, un poco in anticipo rispetto al calendario delle letture che mi ero prefissata (ma ormai si sa, i programmi editoriali di ADC sono antica leggenda, di quelle che si raccontano ai bambini nelle sere d’inverno).

***

“L’Altro mondo – la vita in un pianeta che cambia” è un reportage che il giornalista Fabio Deotto ha realizzato a cavallo della pandemia, tra il 2018 e il 2020, con lo scopo non tanto “di convincere che il cambiamento climatico sia reale, né spronare a un’azione climatica più o meno pacifica” quanto di mostrare come il mondo attuale, nonostante la riottosità praticamente globale ad ammetterlo, sia già profondamente cambiato – con noi che più o meno consapevolmente ci viviamo dentro. Il saggio si articola in otto capitoli, ciascuno dei quali dedicato a un luogo e alle interviste sul campo (Maldive, Miami, New Orleans, Houston, Lapponia [per due], Pianura Padana e infine delta del Po con Venezia). Il filo conduttore che lega l’analisi di Deotto e la scelta dei propri interlocutori, è, come racconta lo stesso autore, lo scorrere dell’acqua:

“Il nostro ambiente ci sta comunicando la crisi climatica soprattutto attraverso l’acqua. Che si tratti di scioglimento dei ghiacci, aumento del livello dei mari o desertificazione, è questo il vettore principale.”

Le nostre cartoline mentali delle Maldive, per dire, certo non comprendono immagini dalle isole-discariche che contornano l’arcipelago o l’odore di uovo marcio che proviene dagli stabilimenti industriali al largo dei resort paradisiaci (nelle cui acque il corallo è morto e stecchito da anni), ma non comprendono nemmeno i progetti di innalzamento artificiale già tutt’ora in corso, intorno ai quali gravitano gli interessi e il denaro di superpotenze quali la Cina e l’India. Nemmeno il villaggio di Babbo Natale a Korvatunturi ce lo immaginiamo immerso in un’opaca luce crepuscolare che non riflette il biancore della neve semplicemente …perché di neve non ce n’è più; e forse non sappiamo nemmeno che i souvenir sami di cui sono piene le botteghe dei villaggi lapponi di autentico non hanno proprio nulla perché di Sami (ndr: per decenni deportati e costretti all’assimilazione) dediti all’artigianato ne rimangono ben pochi, avendo essi priorità un poco più stringenti dell’intagliar scodelle. Come forse ignoriamo l’inglorioso destino del quartiere afroamericano Lower 9th a New Orleans, “modello virtuoso di ricostruzione postcataclisma” voluto addirittura da Brad Pitt (spoiler: sommerso dall’acqua salmastra che tutto distrugge). Questo nostro errore di sistema di valutazione deriva, per la maggior parte, da tutta una serie di calcoli sbagliati che la nostra psiche ha ricevuto “in dotazione dal nostro passato evolutivo”; calcoli che, utili per la nostra sopravvivenza preistorica, ora possono perfino risultare fuorvianti se utilizzati per la ricerca di soluzioni globali e condivise per affrontare il cambiamento climatico. Attraverso nove parti, interposte ai reportage, Deotto analizza proprio queste “distorsioni cognitive” che vanno dall’illusione del controllo alla differente percezione nei riguardi del cambiamento climatico a seconda che esso sia affrontato da chi fa proprio uno stato d’ansia o un modo di porsi regolato dalla paura – o da chi utilizza “l’approccio cowboy” (guess who!) e chi invece vorrebbe spingere (o lo sta già facendo tra mille più una difficoltà) verso una “tutela sperimentale” lontana da ogni approccio muscolare; leggendo questi intermezzi capiremo cosa si intende con “amnesia ambientale generazionale” o il motivo per cui sarebbe ora di sostituire l’espressione “cambiamento climatico” con “crisi climatica” o l’ormai fuorviante “scetticismo climatico” con il più adeguato “negazionismo”.

***

Chiunque oggi può leggere di “crisi climatica” poiché l’editoria offre una gran varietà di equipaggiamento: se fino a una decina di anni fa i temi del surriscaldamento globale e delle sue conseguenze erano relegati alla saggistica accademica o al romanzo postapocalittico (con tutti i limiti caratteristici di entrambi i generi), oggi possiamo scegliere fra più strumenti tra cui per esempio quello della narrative non fiction, che può comprendere come in questo caso anche il reportage. Lo sviluppo di generi nuovi per raccontare il presente (e il futuro) implica anche lo studio di nuovi linguaggi che, al momento, non possono trovarsi se non in fase sperimentale. Ad esempio l’utilizzo, nel caso di Deotto, di un sistema di narrazione che comprende concetti quali i bias cognitivi, la “tossicità del mito” o quello di “decostruzione delle distorsioni cognitive” e dello “stereotipo”. Non sono molto d’accordo con l’impiego di questo tipo di lessico multiuso che personalmente trovo eccessivamente polarizzato e in un certo senso ormai vittima d’inflazione; d’altra parte comprendo come la forza di queste pagine stia nell’impegno a stimolare una riflessione di tipo nuovo, un pensiero laterale di cui, va detto, in tanti siamo ancora privi. Il linguaggio appropriato nonché il superamento di certe espressioni “stereotipate” e traslitterate da una lingua inglese che in certi contesti non ci appartiene verranno poi.

In verità sono due i punti di carattere metodologico che mi hanno lasciata perplessa. Il primo riguarda, in senso lato, la presenza dell’opinione personale e del sentire politico dell’autore all’interno del sistema-reportage (cfr. in particolare il capitolo: “La nostra pretesa di stanzialità”, dedicato all’analisi dei fenomeni migratori). Il secondo riguarda la base tecnica su cui si fonda il capitolo “Il nostro bisogno di storie” all’interno del quale il mito (quello di origine indoeuropea) viene accomunato alla storia (la cui base latina è non il mito ma la fabula) e di conseguenza viene indicato come elemento suscettibile di necessaria “decostruzione” (ndr: il mito va semmai contestualizzato, non decostruito). Come ultima nota, mi pare che resti aperta – perché non discussa – la questione dell’accessibilità (intersezionale, mi verrebbe da dire) alle smart & green cities da parte degli utenti più deboli: non si tratta soltanto di persone appartenenti a classi sociali disagiate, minoranze etniche o immigrati (su cui si concentra parte dell’analisi di Deotto) ma anche di anziani e soprattutto delle persone con handicap. Mi sarebbe piaciuto un approfondimento su questo punto perché molto spesso lo sviluppo di “città ecologiche” prevede di fatto – per esempio – modelli di mobilità non inclusivi.

Parte delle note al testo, diverse citazioni e una rapida discussione su questi punti finali sono disponibili nel filo di twitt che, un po’ per comodità e un po’ per caso (al solito, ADC procede con gran criterio), è nato dalla lettura di queste pagine.