“Gun Love”, di Jennifer Clement (trad. Silvia Castoldi)

“Ogni domenica, dopo la funzione delle dieci, il padre di April May e altri uomini che abitavano in città avevano l’abitudine di scendere al fiume armati di pistole e fucili con un frigo da campeggio pieno di birre. Bevevano e sparavano in acqua a ripetizione, nel caso che dentro ci fossero degli alligatori” (pag69)

Jennifer Clement è una che la sa lunga. A parte la laurea in Letteratura Inglese e Antropologia e un Master in Fine Arts per la fiction, a parte essere l’autrice del memoir “Widow Basquiat”, di quattro romanzi (tra cui “Prayers for the Stolen”, vincitore del New York Times Book Review Editor’s Choice Book e del Gran Prix des Lectrices Lyceenes de ELLE 2015, finalista al PEN/Faulkner Award e altri premi ancora) e di diverse raccolte poetiche, a parte tutto questo, insomma, Jennifer Clement dal 2012 è presidente del PEN International – la prima donna a essere stata eletta per tale carica, a partire dalla fondazione del 1921. A parte, di nuovo – l’essersi occupata, in parallelo alla sua carica di presidente del PEN Messico (2009-2012), del fenomeno della sparizione e delle esecuzioni extragiudiziali dei giornalisti scomodi, per dire.

Insomma ho l’impressione che se Jennifer Clement s’è disturbata a misurarsi con un tema delicatissimo, quello dell'”amore armato“, è stato perché era già convinta del risultato prima ancora di cominciare a metter giù le prime due righe. Due righe – qualcuna in più – che recitano così:

“Mia madre era una tazza di zucchero. Potevi prenderla in prestito quando volevi. Era così dolce che aveva le mani sempre appiccicose, come in una festa di compleanno. Il suo alito sapeva dei cinque gusti di frutta delle caramelle Life Savers. E conosceva a memoria tutte le canzoni dell’università che parlavano d’amore: Slowly Walk Close to Me, Where Did You Sleep Last Night?, Born Under a Bad Sign, e l’intera serie “Se mi lasci ti uccido” ” (pag9)

Ora non è che si può dir molto, di fronte a questo incipit. Forse solo che a parlare è Pearl, la figlia quattordicenne di una madre scappata da casa a sua volta adolescente, subito dopo aver partorito questa bambina preziosissima che poi ha cresciuto da sola, dentro una Mercury Topaz del 1994 parcheggiata nell'”area ospiti” di un parco caravan. Per quattordici anni.

“Eri così piccola, mi disse. Stavi dentro un asciugamano. E così bianca. Sembravi fatta di perla più che di pelle. Eri come il ghiaccio, o una nuvola; come una meringa. Riuscivo quasi a vedere dentro il tuo corpo. Ti ho guardata negli occhi di pietra dura azzurro chiaro e ti ho dato il nome” (pag21)

#GunLove è uno sguardo di latte e sciroppo sull’orrore di un luogo e di un tempo che Jennifer Clement, con un abile gioco di specchi, ci fa credere molto distante. Salvo poi scoprire che quel parcheggio visitatori proprio così lontano non è, da ciò che siamo noi oggi, da quel che cerchiamo e soprattutto da quel che dell’America, oggi, proprio oggi, vogliamo vedere.

“Non eravamo nel sud della Florida, tra le spiagge calde e il Golfo del Messico. Non eravamo vicino agli aranceti o a Saint Augustine, la città più antica d’America. Non eravamo nella zona delle Everglades, dove nuvole azzurre di zanzare e una spessa coltre di rampicanti proteggevano aggraziate orchidee. Per arrivare a Miami, con la sua musica cubana e le strade piene di decappottabili, ci voleva un bel pezzo. L’Animal Kingdom e il Magic Kingdom erano a chilometri di distanza. Eravamo nel nulla. Circondavano il campo due strade statali e un fiumiciattolo, che noi chiamavamo fiume ma in realtà era solo una piccola diramazione del Saint John’s River. In fondo, oltre una macchia d’alberi, c’era la discarica della cittadina. Respiravamo spazzatura. Esalazioni di ruggine e marciume, di batterie corrose, cibo in decomposizione, mortali rifiuti ospedalieri, odori di medicinali e nuvole di detergenti chimici” (pag13)

L’animo di Pearl è intatto, puro nella sua essenza; il suo sguardo è limpido e intelligente – ma corrotto fin nelle fondamenta. Il filtro che Pearl usa per raccontarci il suo mondo – fatto di predicatori in odore di mafia, storpi di guerra, trafficanti di droga – è ingenuo e allo stesso tempo inconsciamente accorto – quel sistema del crescere guastati di cui nemmeno Pearl ha consapevolezza ma che lavora nel profondo fin dal primo vagito, scava il sentiero con dita e unghie, pervicace, ostinato, con un unico scopo: trascinare Pearl là dove Pearl, alla fine del libro, sarà trascinata. Perché una volta che la strada è presa, ci racconta Jennifer Clement, la prima a perdersi non è la gente che la percorre ma la possibilità stessa di una redenzione.

“Mia madre aveva ragione. Nella nostra parte della Florida era tutto incasinato. La vita sembrava sempre una scarpa sul piede sbagliato. Quando leggevo i titoli dei giornali, allineati accanto alle caramelle e alle gomme da masticare vicino alle casse del supermercato, sapevo che la Florida voleva qualcosa. Leggevo: Non chiamare la polizia, comprati una pistola. Orso torna in città dopo essere stato liberato. Mortale eroina messicana: quattro vittime. Uragano declassato a giornata nuvolosa. Un’estate, sulle rive del nostro fiume, comparvero due alligatori gemelli siamesi. Avevano quattro zampe e due teste” (pag13)

#GunLove è poesia di carabattole: è la madre di Pearl e la sua favola di scappata di casa – una famiglia importante di cui custodisce i cimeli nel bagagliaio: porcellane preziose, soprammobili d’avorio, scampoli di seta pregiata, scatolette di gioie – le mani da pianista. Sono i disegni di Pearl appiccicati ai finestrini della Mercury, i libri di scuola sotto al seggiolino, il sole polveroso di un tramonto che illumina capelli bianchissimi. E’ la consistenza di tre carabine AR-15 calibro 223, l’odore di una Beretta Px4 Storm, l’impugnatura di una Glock, di una Smith & Wesson, di una Taurus, di una semiautomatica calibro 40, di una Glock calibro 45, di un fucile Remington e una carabina Bushmaster XM-15; è il rumore dei fogli di giornale in cui sono accartocciate: “le strisce a fumetti, le inserzioni, le pagine sportive, le previsioni del tempo, la guida tv e gli annunci delle nascite” (pag245)

“Una volta per San Valentino il sergente Bob regalò a Rose una pistola 9 millimetri. Quando un uomo regala un’arma alla sua donna è perché si fida davvero di lei, disse. Questa pistola non sarà mai una fabbricavedove. Certe armi lo sono, ma questa qui è roba seria. Molto più utile di una scatola di cioccolatini. Preferirei mille volte tornare a casa e trovare il medico legale che porta via qualcuno che le stava dando fastidio piuttosto che scoprire che mi ha cucinato una torta di mele. Sì, è questa la verità. Se un uomo regala un’arma alla sua donna è perché si fida davvero di lei” (pag50)

Il libro di Jennifer Clement è potente per quello che sta fuori dal libro. Per quello che la Clement non dice e che lascia a noi, sottinteso. E’ il fuori, stavolta, a entrare nel libro, non il contrario.

E ricordiamoci i back to school essentials:

Buona lettura.