“La casa sull’estuario”, di Daphne du Maurier (trad. di Maria Napolitano Martone) #EstateconADC

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The House on the Strand” è uno dei miei libri del cuore. Il perché sia tornato a casa solo ora, e dopo tanti anni, è uno di quei misteri che riguardano le mie letture: inutile credere di poterne venire a capo.

Se proprio volessimo approfondire, potrei dirvi che lo lessi nella primavera dei miei 12 anni. Ci spesi sopra due pomeriggi che trascorsi in soggiorno, spiaggiata sul nostro rigido e scomodissimo divano color castagna; intanto, fuori dalla finestra, la fine di aprile era incarognita da una pioggia insistente e fredda.

Di quei due giorni mi ricordo il momento in cui scovai quel volume ancora intonso nella libreria dei miei genitori, tra i tanti che facevano parte di una selezione del “Club degli editori” a cui ci si era abbonati all’epoca. E l’insindacabile bruttezza della copertina spingeva a guardarci dentro, per paradosso e puro atto di ribellione preadolescenziale.

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Mi ricordo che la camera da letto dei miei genitori era luminosa ma poco accogliente, perché i termosifoni erano già spenti ma la temperatura non certo primaverile; e che la sveglia sul comodino di mia mamma, un parallelepipedo tozzo, simile a un grosso sapone di cioccolato con le lancette fosforescenti (ebbene sì, in casa mia era tutto marrone, ne avevamo di ogni nuance, purtroppo), segnava le due e trentacinque del pomeriggio. Mi ricordo che quando cominciai a leggere, piantata nel corridoio che faceva da anticamera alle stanze da letto, fui assalita da un terrore così assurdo e potente che l’unica cosa che riuscii a pensare fu che quel libro lo dovevo finire il più in fretta possibile e poi rimetterlo lì, da dove era venuto. Di lasciarlo da parte a priori, ovviamente, nemmeno a discuterne.

La casa sull’estuario” – di Daphne du Maurier, pubblicato nel 1969 – ebbe su di me l’effetto dirompente di un primo contatto: fu il mio primo viaggio nel tempo, il mio primo incontro con un certo modo di scrivere di Natura e di wilderness. Un primo, piccolissimo passo verso il mistero del new-weird. La consapevolezza, per la prima volta, che certi libri inevitabilmente si leggono e poi si perdono, specie se ci sono di mezzo tre traslochi, due città e un matrimonio.

“Le prime cose che notai furono l’aria cristallina e il verde netto della campagna, senza mezze tinte o sfumature morbide. Invece di fondersi col cielo, le colline lontane si stagliavano come rocce, così vicine da poterle quasi toccare, dandomi quel senso di sorpresa e meraviglia che prova un bambino guardando per la prima volta in un telescopio. Anche più da vicino tutto aveva la stessa durezza quasi metallica: l’erba si divideva in singoli steli scaturendo da un suolo più giovane e aspro di quello che conoscevo” (pag.9)

“La marea era bassa, il canale stretto, e ai due lati del nastro azzurro dell’acqua si stendevano strisce di sabbia affollate da ogni sorta di uccelli acquatici che s’immergevano o saltellavano intorno alle pozzanghere lasciate dalla marea che si era ritirata” (pag.130)

“Nevicava. I fiocchi morbidi mi piovevano sulla testa e le mani, e tutt’intorno a me il mondo era diventato a un tratto bianco, senza più erbe estive rigogliose e verdi, e filari di alberi. (…) Faceva un freddo aspro, non la tormenta rapida, tagliente, che spazza le cime, ma il freddo stagnante e umido di una valle dove nell’inverno non penetravano sole o venti purificatori” (pag.235)

Però poi, all’improvviso, ne trovo in libreria l’edizione appena pubblicata da Neri Pozza – Beat: la meraviglia che può venire dalle parole scritte non smette mai di appassionarmi.

Cornovaglia, estate, anni ’60.

Dick Young è un quarantenne insoddisfatto. Si è appena licenziato dalla prestigiosa casa editrice londinese presso cui lavorava da più di vent’anni perché stanco di certi ritmi lavorativi, delle grosse responsabilità che gli vengono affidate e dell’ambiente editoriale.

La moglie Vita tuttavia, (americana ambiziosa, vedova in seconde nozze, due figli ormai grandicelli – nomen omen), vorrebbe convincerlo ad accettare l’impiego offerto dal di lei fratello: lavorare nella parimenti prestigiosa impresa editoriale di famiglia, così da trasferirsi tutti felicemente a New York.

“Lei si girò per affrontarmi nella posa classica della moglie oltraggiata, con una mano sul fianco, una sigaretta nell’altra, stringendo gli occhi nel viso gelido” (pag.139)

Dick prende tempo: il trasferimento non lo entusiasma ma il colpo di testa è stato fatto e ora le alternative non sono molte. Braccato dalla pressioni che sta ricevendo in famiglia, accetta l’invito del suo amico storico dei tempi dell’università, Magnus Lane, diventato nel frattempo uno stimato professore e ricercatore di biofisica, per trascorrere qualche settimana estiva nel cottage della famiglia Lane in Cornovaglia, dalle parti del borgo di Kilmarth.

Peccato che l’invito non sia del tutto disinteressato. Il professor Lane infatti, personaggio di indubbio carisma e di pari furbizia, utilizza il proprio ascendente su Dick per convincerlo a portare avanti alcuni esperimenti nel laboratorio sotterraneo alla cascina. Tra teste di scimmia in formaldeide, alambicchi, cadaveri di animali utilizzati come cavie e boccette di erbe magiche, Dick dovrà testare su se stesso una pozione misteriosa, quasi una droga, che ha la capacità di aprire varchi temporali sul passato medioevale della zona, in special modo sulle vicende delle famiglie di proprietari terrieri Champernoune, Carminowe e Bodrugan.

E lo dovrà fare prima che Vita e i ragazzi raggiungano il cottage per trascorrere insieme il resto delle vacanze. Ma non tutto, ovviamente, andrà come previsto.

“Scesi questa scala e girai la chiave della porta. Il laboratorio non aveva affatto un aspetto clinico. Accanto al vecchio lavandino, sempre al suo posto sul lastricato di pietra, sotto una finestrella a grata, c’era un camino, con uno di quei forni d’argilla che si usavano anticamente per cuocere il pane, contenuto nello spessore del muro. Dal soffitto coperto di ragnatele pendevano ancora gli uncini arrugginiti ai quali venivano probabilmente attaccati una volta carni salate e prosciutti. Magnus aveva disposto i suoi strani esemplari sugli scaffali fissati al muro. Alcuni erano scheletri, altri erano ancora intatti, conservati in una soluzione chimica che li aveva sbiancati.. Non riuscii a decidere che cosa fossero esattamente, se embrioni di gatti o topi. I due soli esemplari che riconobbi, erano la testa di scimmia, dal teschio lucido, perfettamente conservato, simile al cranio calvo di un minuscolo feto umano, cogli occhi chiusi, e accanto un’altra testa di scimmia, da cui era stato asportato il cervello e che si trovava in un barattolo di vetro scurito dalla soluzioni salina in cui era immerso. In altri barattoli e bottiglie c’erano funghi, piante ed erbe con tentacoli mostruosi e foglie sottili e ricurve come lingue” (pag.29)

Discutere sul fascino della scrittura di Daphne Du Maurier sarebbe ridondante. Basti sapere che “La casa sull’estuario” ha in sé tutte le caratteristiche tecniche e tematiche che contraddistinguono le opere di questa poliedrica autrice. L’accuratezza per un’ambientazione coeva affascinante, l’estremo acume con cui vengono tratteggiate le figure femminili (una su tutte, la femme fatale Vita, intelligenza vigile e scattante, agghindata con gonne a tubo, guanti da viaggio, rossetti scarlatti, fumo di sigaretta e generosi bicchieri di gin-tonic), il gusto per la rappresentazione gotica e non ultimo l’interesse per il rapporto tra l’Uomo e la Natura (che di certo all’uomo non è sempre favorevole, basti pensare a “The Birds“, ovviamente).

Prendetevi del tempo per leggere “La casa sull’estuario”. Luglio è il momento perfetto. Non sarà una lettura facile per il semplice fatto che ormai non siamo più abituati a un certo tipo di scrittura che ha tutto tranne che un’impronta cinematografica. Le pagine scorrono lente, in un continuo alternarsi di salti temporali ricchi di personaggi, note, riferimenti.

Ma Daphne du Maurier ha il dono di penetrare nelle cose, come se riuscisse sempre a scattare fotografie in cui una lievissima sovraesposizione riesce a evidenziare dettagli altrimenti invisibili. E poi c’è la paura più pura, quella che viene dal noir e certe atmosfere gotiche che la du Maurier riesce a evocare, a tirar fuori a forza da un passato inglese profondissimo. Quasi come se, in quel passato, lei stessa ci avesse messo piede, in un modo o nell’altro.

Buona lettura 🙂

Nota: in un mondo in cui ultimamente tutti si propongono come “traduttori” basta che abbiano fatto il linguistico e vissuto per un paio di anni in un qualunque paese anglosassone, vi invito a dare un’occhiata alla biografia di Maria Napolitano Martone.

"I parassiti", di Daphne Du Maurier

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Ti punta un non so che di fastidioso, questa lettura. Qualcosa di acuto, irritante. Fin dalle prime pagine. Ti senti a disagio sulla sedia, ci rifletti ma non riesci ad arrivare al perché della questione, pare sempre che qualcosa sfugga via, giusto un attimo prima di essere catturata.
Eppure, vai avanti, pagina dopo pagina perché non ne puoi fare a meno. E la cosa ti snerva parecchio (irritazione parte prima: la fruizione della lettura), perché, per un libro così (cosa vuoi che sia, romanzo di atmosfera, crisi familiare, upper class), vorresti essere tu, quello che governa la situazione. Ti senti anche un po’ spostato, in balia di una narrazione che per le prime 20 pagine almeno non sembra condurre da nessuna parte.
A un certo punto, intorno a pagina 15, vorresti anche un po’ mollarla lì la cosa, ma poi, improvviso, arriva “tutto il resto” e non è che ci puoi fare molto.
“Tutto il resto” è il passato, che riaffiora a getti discontinui, ma sempre più forti e potenti (come l’acqua del mare che sale su della sentina, vien da dire…).
Ricordi che ti ottenebrano la mente, persi tra i flashback di un passato lontano, privato di qualsiasi coordinata di tempo e di spazio – teatri, hotel, appartamenti, città, lingue diverse – “Stagioni” senza né tempo né luogo, commedie, impresari, orchestre, matinée, musica, balli e feste notturne. Un mondo privato, personale, intimo, scardinato da qualsiasi logica e pretesa di normalità.
Il caos regna sovrano (irritazione parte seconda, il contesto), tra orari mai rispettati, bambini selvaggi, domestici con veci di genitori, capricci di artisti e presunti tali, turbinanti mondi di spettacoli che sono piece teatrali sia sul palcoscenico, sia fuori.
Non che l’autrice – o meglio, la voce corale a cui si affida, per lo meno all’inizio del romanzo – dia un’interpretazione univoca, alla qual cosa (irritazione parte prima: la fruizione della lettura, vedi sopra). E ti urta davvero, l’idea, perché è sempre irritante quando qualcuno si prende la briga di farti osservare le tue, personali, mancanze.
La fascinazione per il mondo dello spettacolo, per questa famiglia di artisti, per le vite vissute, per quelle rappresentate, per quelle soltanto immaginate, è in te così potente da non permetterti, per ora, la minima possibilità di uno scarto verso il negativo – malgrado il desiderio intimo.
Perché “Tutto il resto” non solo è “Mamma e Papà”, ma è anche Maria, la primadonna, l’attrice bellissima, la donna dalla pelle di porcellana e lo sguardo sognante, adagiata sul divano nel salotto di una casa di campagna, in una fredda e cupa domenica di inverno, un braccio sospeso, l’altro reclinato sul volto. E’ lei, nella sua parte da diva del palcoscenico, attraverso falsità e maschere, a dettare legge. Non solo sui suoi familiari e sul mondo che la circonda (irritazione parte seconda, il contesto, vedi sopra), ma anche, disgraziatamente, sul lettore (irritazione parte prima: la fruizione della lettura, vedi sopra).
E’ Niall, spirito inconcludente, in balia degli eventi, delle donne e del suo estro di compositore di jngle buoni per casalinghe, soldati, barbieri e lustrascarpe. Ragazzino viziato e mai cresciuto del tutto, deresponsabilizzato, irritante nel suo disprezzo egocentrico per il mondo scintillante del successo – che tuttavia, malgrado i propositi, mai abbandona – e le fatiche degli uomini (irritazione parte seconda, il contesto, vedi sopra).
E’ Celia, vittima inerme prima dei genitori e poi dei fratelli (che poi, per la cronaca, hanno sangue in comune con lei ma non tra loro). Curioso: sarà proprio Celia, unica progenie per così dire legittima del clan Delaney, a rinunciare al talento, alle ambizioni, alla fama e alla celebrità, che forse sarebbero potute arrivare attraverso il disegno e la scrittura. Scialba, grassoccia, timida, introversa, passerà la vita al capezzale di chi ne avrà bisogno, cercando di compensare così la tenerezza, l’affetto e il sentimento di cui mai era stata oggetto da bambina, ma con l’incapacità totale di un recupero – e rinnovamento – di se stessa e del mondo che la circonda (irritazione parte seconda, il contesto, vedi sopra).
Nessuno si salva: né Mamma, morta per un incidente all’apice della carriera, né Papà, spento in vecchiaia, minato nel fisico e nella mente, umiliato da una leggera demenza aggravata dal consumo eccessivo di bevande alcoliche, che lo rende ridicolo agli occhi della famiglia, della servitù, degli estimatori di un tempo.

Solo al termine della lettura il giudizio sospeso rientra nei canoni, e rende nuovamente visibile quello stridore – quella vocina interiore – insomma quel sibilo all’orecchio che ci angustiava tanto (toh, c’è ancora, ma da che parte arriva?).
In un modo o nell’altro, siamo arrivati ad essere, soltanto e ancora una volta, meri spettatori di fronte al palcoscenico. Come sia potuto succedere, non riusciamo a capacitarci.
I Delaney stessi l’avevano predetto: “La gente parlava male di noi già quando eravamo bambini. Ovunque andassimo, riuscivamo a suscitare una strana ostilità” – pag. 18. “Quando si gioca a (…) nessuno sceglie mai “I Delaney”. Non ci scelgono neanche uno per uno come singoli individui. Ci siamo guadagnati, e non sempre giustamente a nostro avviso, la reputazione di ospiti difficili” – pag. 205.
Di fronte a simili affermazioni, abbiamo corrugato la fronte, perché non ne capivamo il senso, così, a metà lettura. Facendo spallucce le avevamo archiviate, ma il sibilo all’orecchio era sempre lì, non se ne andava.
Il merito della Du Maurier sta proprio nell’averci portato, con subdole armi letterarie (irritazione parte prima: la fruizione della lettura, vedi sopra) e un felice intreccio che mescola il prima e il poi, a ricoprire lo stesso ruolo dei muti spettatori che non hanno fatto altro se non osservare, distrattamente, le vicende della famiglia Delaney, nel trascorrere dell’esistenza: il fascino per questa famiglia sconclusionata, vittima di se stessa e degli eventi, si trasforma ben presto in fastidio e irritazione, sentimenti che non sono mitigati neppure dalla conclusione del romanzo, che anzi, risveglia nel lettore un’inquietudine sottile da senso di colpa mal celato.
La chiusa, di notevole impatto, è composta da sei capitoli conclusivi, uno per ogni fratello, concatenati, ritmici nel loro insieme di struttura a chiasmo: a Farthings, nell’ordine, pre-cena con Niall in camera, Maria nella vasca da bagno, Celia, che erra vagabonda da una stanza all’altra.
Successivamente, dal capitolo 23, Celia, Maria (significativa l’ultima immagine che abbiamo di lei, attraverso lo specchio della toilette, mentre la guardarobiera termina la vestizione, ennesima mascherata senza logo né tempo) e infine, a conclusione del tutto, passato, presente e futuro, Niall e l’acqua di un ritorno. Acqua di mare, come quella che inghiottì sua madre e che, guarda caso, non riporta altro che la nostalgia per un passato perduto di figlio amato, unica parvenza di una vita di equilibrio e stabilità di affetti e luoghi che soltanto la vecchia nutrice era stata in grado di procurare.
Note a margine:
  • Degno di interesse uno dei capitoli centrali del libro, quello sulla “maternità” di Maria, e sul suo rapporto con la primogenita appena nata. Una lezione di puro babyblues: onesta, lampante, precisa, scabrosa, che pochi, oggi, hanno il coraggio di celebrare (mi viene in mente la Cristina Comencini di “Quando la notte”). Come anche la parte conclusiva su Celia e l’amarezza dell’orologio biologico, tictac, tictac.
  • Immediato il raffronto con “Un passato imperfetto” di Julian Fellowes (Neri Pozza, 2009) e “Ritorno a Brideshead”, come dire, parafrasando Yates, che se non parli di famiglia, nei tuoi libri, non parli di nulla.