"Vietato giocare con la palla", di Antonio Steffenoni

Le notti di agosto, a Milano, sono bugiarde e interminabili, rinfrescate da qualche scampolo di vento prealpino che coraggioso scende a valle quando cala la sera; sono piene di buoni propositi e progetti per il giorno a venire (lontano o vicino) che poi però, alla luce di un’alba già rovente, naufragano nel mare delle illusioni impigrite. 

“Vietato giocare alla palla” si inserisce perfettamente, per tematica e struttura, nel ricco filone noir della narrativa gialla milanese. Il Commissario Ernesto Campos, di padre spagnolo emigrato in Italia per amore, viene richiamato dalle ferie per risolvere un’indagine spinosa: una carneficina famigliare, cinque persone barbaramente trucidate a colpi di arma da fuoco, nessuna arma del delitto e un unico superstite, per altro sospettato, in fuga. 
Come a dimostrare che ogni opera letteraria tende, se non forzata, a prendere la strada che più gli è consona, abbiamo atteso molto tempo per affrontare questo romanzo che non è una novità recente nel panorama delle uscite di genere (la prima uscita è datata addirittura 2008). Questo perché non si tratta, semplicemente, di un romanzo giallo. Certo, ve ne sono espresse al meglio tutte le caratteristiche: un delitto efferato a cui segue un’indagine di difficile risoluzione, una squadra di protagonisti appartenenti alle forze dell’ordine ben assortita e delineata nei dettagli, capitanata da un leader sicuramente di spicco, né convenzionale né immune alle proprie, personali debolezze; uno stile narrativo che si destreggia abilmente, attraverso una trama tesa e lineare, tra le parti prettamente descrittive e quelle dialogate, fondamentali per lo sviluppo della vicenda; una contestualizzazione geografica e temporale precisa e ben calibrata. 
Avevamo bisogno di riscontri oggettivi – per quanto oggettiva possa essere ogni percezione personale – di immagini e rifrazioni di luce
Bisogno di vivere anche noi, come il Commissario Campos, quel tempo sospeso delle ferie in città, fatto di buoni propositi (i 4327 libri del Commissario, che riposano chiusi in decine di scatoloni – tutti rigorosamente sistemati ed etichettati in ordine alfabetico – e che il protagonista ha il proposito di sistemare nella libreria di casa, utilizzando parte della licenza estiva), di tempo dilatato e immobile, aria rovente e sole a picco sull’asfalto molle e quasi liquefatto e notti – appunto – un po’ bugiarde e interminabili. Così ce la siamo girata quasi tutta, la Milano di Ernesto Campos (e ne abbiamo fatto pure qualche twitt, in rigoroso ordine sparso).
Dalla circonvallazione interna ai casermoni di cemento della periferia nord, passando per le spiagge affollate del Lido fino ai tavolini di una Brera assopita sotto il sole di agosto, abbiamo affrontato quasi una discesa agli inferi casalinga, a metà tra un Cuore di Tenebra postmoderno e un’inedita avventura Marcovaldiana. Perché “Vietato giocare alla palla” è anche, e soprattutto questo: una personale indagine introspettiva che partendo dall’inquietudine personale del protagonista raggiunge inevitabilmente anche il lettore. Così, mentre il Commissario Campos si trova a fare i conti non solo con l’assassino impunito di una strage efferata e all’apparenza senza logica ma anche con i propri demoni personali che il delitto fa potentemente riemergere (un episodio drammatico del passato e un senso di colpa mai sopito), necessariamente il lettore finisce per interrogarsi anche su di sé. 
“I casamenti che fiancheggiavano il rettilineo di Melchiorre Gioia
avevano per lo più le persiane chiuse” (p10) 

“Anche Via Cagliero sembrava far parte di una città abbandonata; le tapparelle abbassate
punteggiavano di nero  i grandi palazzi che la stringevano sui due lati” (pp 32-33)
“Vietato giocare alla palla” è un romanzo sul castigo e sul perdono, sui cambiamenti nei rapporti d’amore e sul senso di responsabilità rispetto al quale non riusciamo quasi mai a confrontarci con equilibrio: talvolta gli sfuggiamo, nella convinzione che ad esso sia possibile sottrarsi per sempre solo per il semplice fatto di continuare a ignorarlo; talvolta invece ce ne sobbarchiamo solo gli oneri in un gioco perverso di ricatti affettivi, inutili rinunce e speranze mal riposte.
Il senso di colpa di Campos proprio perché mai risolto inquina la quotidianità del protagonista, relegando i suoi rapporti personali, specificamente quello profondo ma altalenante con la fidanzata Marzia, dentro un limbo fangoso di cose non dette, questioni lasciate in sospeso e decisioni procrastinate all’infinito.
E’ un attimo unico, particolare, uno di quei rari istanti in cui per talento e intuito il fotografo riesce a scattare un’unica istantanea, il momento esatto in cui una vita cambia direzione.

Nota a margine: potete trovare qui una vasta galleria dei bellissimi lavori “Hopperiani” di Gianni Maiotti, autore dell’immagine in copertina e illustratore della maggior parte delle cover della collana “Il mio tempo” di Carte Scoperte.

Buona lettura 🙂