Consigli per la lettura numero 3: “Yo-oh-oh e una bottiglia di rum”. Parte prima.

Nota a margine: pieno diritto del lettore quello di saltare l’introduzione personale alla questione (esageratamente prolissa).
Per farlo, si clicchi qui: “non ci interessa il background” e andrete direttamente all’analisi di quel che vogliamo proporvi.
La storia inizia qui, da una credenza di poco conto abbandonata nel garage. Twitterando, Del Demone Celeste, ovvero, quel che, da leggere, ti capita tra le mani per caso, come un TESORO di pirati nascosto in una vecchia cassa umida e polverosa.
Una vecchia parente, acquisita da parte di cognato materno e passata a miglior vita oramai un decennio fa, di famiglia ricca e di origine avvocatesca, aveva la fissa per i club di lettura, che frequentò con soddisfazione e gloria personale dagli 82 ai 101 (perché dai 50 agli 80 si era dedicata con sfarzo ad altre attività ludiche, quali gite in montagna, sci di fondo, scampagnate domenicali in collina, decoupage, ikebana, cucina etnica e, last but not least, collezione di opere d’arte pittorica).
Si diceva. Assieme a giovani pulzelle tali quali a lei si ritrovava, una volta a settimana, a casa dell’una o dell’altra, un pomeriggio di tè e vassoi di confectioneries serviti dalla domestica, per commentare i libri assegnati e letti di volta in volta.
Di tutto questo fulgore di cristalli e tintinnii di preziosi alle orecchie, a noi, parenti lontani non è rimasto – e non è mai pervenuto altro, né ante, né post mortem, – che qualche scatolone pieno zeppo di libri.
Magra eredità, si potrebbe pensare. E invece no, e ora vi spiego il perché.
In parte si trattava di libri usati, che una parente di mia mamma era solita prendere a prestito dalla libreria per dare senso a interminabili e noiosissimi pomeriggi estivi che si trovava a condividere con la signora in questione, la governante straniera e i nipoti piccoli (che i vari fratelli usavano lasciare a balia per l’estate) nella famosa casa di campagna di cui la signora era proprietaria.
La signora, di memoria lieve e portafoglio ampio, si curava poco dei suoi possessi letterari e quindi – a meno che non si stesse parlando di edizioni di vero pregio artistico – lasciava che i suoi volumi circolassero liberamente tra parenti, nipoti e appartamenti, più per vaghezza che per filantropia.
Di conseguenza, molte delle sue letture hanno condiviso il destino dei libri prestati e più restituiti, un bookcrossing ante litteram di pagine scambiate, lette, ricordate e poi dimenticate.
Per il resto, si trattava di libri nuovi, tutti regali per le feste di Natale, i compleanni e gli anniversari, consigli per letture di nicchia, poco commerciali, che venivano direttamente dal famigerato club di nonnine chic.
Saggi di arte figurativa, scrittori del nord Europa, all’epoca veramente di avanguardia, design anni ’70.
Sarà, ma io li ricordo con affetto, quei volumi che hanno popolato la mia giovinezza. Parlo soprattutto dei “reminders”. Gli Adelphi colorati di confetto; i Sellerio, con la copertina di carta lavorata, impreziosita da misteriose illustrazioni lisce lisce.
Volumi letti, senza dubbio, ma sempre in ottimo stato, ché la signora non amava la piegatura della costa e le orecchie a modo di segnalibro. E, su tutto, un leggero profumo di borotalco di lavanda. E le note a margine.
Come le adoravo, quelle note.
Al principio, subito in prima pagina, nome, luogo e data, in alto a sinistra, una penna nera dalla mina sottilissima, sempre, per un tratto piccolo e discreto. E poi, quando meno te lo aspettavi, una nota a margine, perduta tra le pagine. Un asterisco, un puntino ricamato più volte, un “vedi pagina”, un punto esclamativo.
Tutto questo per dirvi che “Il canto dell’equipaggio” (Pierre Mac Orlan, Sellerio 1996, a cura di Ispano Roventi) l’ho trovato nel garage della sorella di mamma, in una credenza classe 1970, spostata e aperta per caso. Benché il volume, questa volta, non rechi con sé alcun segno di riconoscimento, sono quasi certa della sua origine, perché, a naso esperto, porta ancora un vago, vaghissimo sentore di lavanda.
E siccome a libro capitato per le mani, come dice il demone Celeste, non si rinuncia, eccoci qui.

Consigli per la lettura numero 3: “Yo-oh-oh e una bottiglia di rum”. Parte seconda.

Allora. Con “L’isola del tesoro” ci cresci. Con “La vera storia del pirata Long John Silver”, ci rifletti sopra. Con “Moby Dick”, prima ci cresci (sudandoci sopra, sempre se riesci a finirlo alla prima lettura, questione non scontata), poi, a seconda lettura, a decenni di distanza, ti perdi via con l’illuminazione esistenziale. L’ “Odissea” ti trascina in uno zibaldone di questioni irrisolte, dalla filologia classica alla filosofia arcaica.
Se poi ci aggiungi anche “Robinson Crusoe”, fino ad arrivare al Tom Hanks di “Cast away”, allora non puoi più uscirne.
Con “Il canto dell’equipaggio” (Pierre Mac Orlan, 1996 Sellerio – curatore Ispano Roventi *) scopri qualcosa che ti pareva di aver perduto per sempre (e della perdita, non è che proprio te ne fossi reso così conto, così come un profumo che ricordi di aver dimenticato solo quando lo senti di nuovo).

E’ il trionfo della narrazione ipnotica, di ritmo metrico, una storia di mistero e avventura raccontata così come ce le raccontavano da bambini, con tutti i topoi al loro posto.
  • La presentazione dei personaggi, che giacciono languidi in uno stato di calma apparente ed equilibrio instabile: il buono, il cattivo, l’approfittatore, il tontolone di turno, le spalle comiche e tragiche, le donne scaltre e, a far da contrappunto, le servette sciocchine tutte moine e sorrisi – a noi sono venute in mente le tre sorelle fatte in serie della Bella e La Bestia Disneyana, le ragazze della taverna, intendiamo, quelle del “quantoèbravoGaston/quantoèfurboGaston”;
  • il ritrovamento della mappa e, di seguito, l’introduzione del meraviglioso e del fantastico;
  • la preparazione del Viaggio (le vele, l’equipaggio – il capitano dalla barba rossa, l’uomo senza un braccio o con una benda all’occhio, il mozzo di colore, il “cerusico”);
  • le pietre preziose come merce di scambio, i pugnali e le pistole di contrabbando;
  • gli eden tropicali perduti, terre dai colori sgargianti popolate da animali fantastici e uccelli dal piumaggio dorato, iante ricche di frutti maturi, golosi, e forieri di morte e veleno. Ad uso e consumo del pubblico over 18, gli accenni alle femmine procaci, vestite di nulla, la pelle ambrata dal sole e dal mare; gli aromi intensi dei tabacchi profumati e i giardini di palme ombrose, nascosti tra mura arroventate dal sole dei tropici; descrizioni senza luogo e soprattutto senza tempo, in cui la Storia del mondo (ricordiamo, siamo nel bel mezzo della Seconda Guerra Mondiale) non va certo di pari passo con il tempo del romanzo, che ci riporta semmai indietro, a secoli precedenti, come se il Tempo, quello vero, tornasse e refluisse in un pensiero di intima circolarità;
  • e poi, ovviamente, l’Avventura. Con la A maiuscola. Quella immaginata, tracciata a pennarello rosso su fogli di carta a quadretti che la mamma ci aveva bruciato ai bordi, coi fiammiferi della cucina.
E last but not least la lingua, l’argot più profondo e misterioso, proprio quello che usavamo da bambini, quel linguaggio tutto nostro creato ad arte con l’amico del cuore e di avventure, un patto di sangue vòlto ad escludere, a priori, chi del nostro gruppo di pirati non faceva parte.

Vi consigliamo, a fine lettura, il bellissimo saggio che funge da prefazione: “La canzone dell’avventura” di Ispano Roventi. Non abbiamo veramente nulla da aggiungere.

– “L’isola del tesoro”, Robert L Stevenson, 2009 BUR
– “La vera storia del pirata Long John Silver”, Bjorn Larsson, 1998 Iperborea
– “Moby Dick”, H Melville, 2004 Mondadori
– “Robinson Crusoe”, D Defoe, 2003 Mondadori


* NB: purtroppo l’immagine della copertina di “Il canto dell’equipaggio” non è disponibile su Anobii. Siccome siamo un po’ ligi con i copyrights, non la peschiamo da altre fonti non accreditate.