“La garbure è un piatto tradizionale dei Pirenei, e probabilmente bisogna esserci cresciuti insieme per apprezzare quella zuppa di cavolo, avanzi dell’orto e, se possibile, stinco di maiale. Alla Garbure vi aggiungevano confit de canarad” (pag.65-66)
“Ma che stupido sono! Marie-Hélène mi ha portato una tartre tatin alla cannella! E sono le quattro! Quella donna è un dono del cielo” (pag.149)
“Mercadet e Froissy avevano dato un’occhiata alla zuppiera portata per Adamsberg e Veyrenc e, dopo quell’esame, avevano optato per la “gallina farcita alla Enrico IV”” (pag.221)
” – Bel fuoco – apprezzò. – Quel che conta, di un fuoco, è la sua armonia. L’efficacia è una conseguenza. Veyrenc sistemò sui tizzoni una grossa griglia, dispose cotolette e salsicce, accese il camping gas per riscaldare i fagioli in scatola. (…) Adamsberg provò una completa soddisfazione nell’aspirare il profumo della carne arrosto. (…).
Condì con sale, pepe, e servì carne e legumi. Mangiarono in silenzio per un bel po’” (pag.382)
Adamsberg torna tra noi, ed è pure in gran forma. O meglio, a esserlo è la sua creatrice, la scrittrice Frédérique Audoin-Rouzeau (in arte Fred Vargas) che dopo un momento di lieve incertezza – diciamocelo, “Tempi glaciali” non era stato uno dei suoi lavori migliori seppure degno d’onore per alcuni interessantissimi spunti descrittivi – consegna al commissario parigino e alla sua scalcagnata truppa di colleghi del XIII Arrondissment un nuovo caso di cronaca nera su cui indagare.
Una nuova indagine che coniuga in sé, mescolati stavolta con sapienza, tutti quegli elementi polar-noir che da sempre hanno contraddistinto i casi del “commissiario tra le nuvole”.
Sembra difatti che Fred Vargas in questo paio di anni ci abbia pensato su: con “Il morso della reclusa” ha infatti trovato il modo – da una parte – di tornare a quegli schemi formali e narrativi che avevano fatto la fortuna del primo Adamsberg e che negli ultimi lavori si erano forse un po’ persi – dall’altra – di rinnovare la struttura della trama grazie all’inserimento di elementi nuovi vòlti a stimolare la curiosità del lettore; rimarcando in questo modo la continuità con le vicende passate e allo stesso tempo creando concrete aspettative per il futuro della serie, questione che ultimamente era stata oggetto di riflessione tra i lettori più affezionati (uno su tutti, il rapporto Adamsberg-Danglard, ma di ciò qui non si può raccontare, come ovvio).
Va detto, l’autrice sembra a prima vista aver giocato un po’ di furbizia, data la scelta di confrontarsi con uno dei temi di cronaca più attuali e più scottanti, che non possono non polarizzare l’opinione pubblica e suscitare l’interesse costante di media e istituzioni: parliamo in questo caso di violenze domestiche.
La verità però è che l’autrice fa centro non tanto perché in qualche modo cerchi di solleticare in maniera opportunistica il guilty pleasure del lettore (e lo escludiamo a priori, perché se avesse puntato su questo cavallo, “Il morso della reclusa” sarebbe a ben guardare un completo fallimento), quanto perché ancora una volta si mostra al proprio pubblico per quello che è: una raffinata indagatrice del quotidiano. Quel quotidiano orrore purtroppo così comune, che spesso si nasconde dietro la porta sprangata dei nostri vicini di casa, dietro la figura di un padre irreprensibile e di una famiglia “un po’ troppo riservata”, dentro lo sguardo serio di bambini eccessivamente taciturni.
Quindi, chi cercasse nelle indagini del commissario Adamsberg le stigma del thriller ad alto tasso di azione e adrenalina resterà deluso di nuovo, perché “Il morso della reclusa” si conferma aver preso le mosse ancora una volta dalla tradizione del classico poliziesco deduttivo che alla resa dei conti finale “one-to-one”, specie se connotata da azione violenta, preferisce un approccio focalizzato sull’indagine investigativa; ma che poi, come di consueto, scivola facilmente e felicemente in un finale aperto – vicino alla tecnica del noir – all’interno del quale l’estrema contestualizzazione e la critica sociale non sono certo elementi accessori.
Indagine investigativa che come una tela di ragno si dipana da un centro unico (lo stalking, la condizione sociale della donna – quella passata e quella contemporanea, che come dimostra la Vargas differiscono purtroppo di poco, nonostante l’impegno profuso da istituzioni e società civile) in una struttura a raggiera che colpisce direttamente e indirettamente i soggetti più disparati e da cui, come ben fa notare l’autrice, nessuno più sentirsi né immune, né al sicuro, né completamente innocente.
Perché in certi casi, come quello della violenza domestica, anche il solo avere il sospetto costituisce – e così prende netta posizione la Vargas – già di per sé la motivazione che deve spingere a fare i conti con la propria coscienza.