“Le persone di cui scrivo tendono a vivere in una realtà che si sono costruite da sé, o che per certi versi è frutto di invenzione, e per rintracciarne la trama occorre addentrarsi nel loro etere e danzare con le loro ombre. Da giovane ho appreso dai libri dei poeti a diffidare della realtà – *La realtà è un cliché da cui fuggiamo la metafora* scrisse Wallace Stevens – e i protagonisti di questo saggio, tutti personaggi reali perlomeno all’inizio della loro storia, devono la loro esistenza e il loro potere nel mondo a un alto tasso di artificialità. E’ un vezzo della nostra epoca sfruttare le assurdità insite in questa situazione e chiamarle cultura” (introduzione, pag6)
Difficile parlare di #LaVitaSegreta senza ripetere quel che di questa raccolta di tre long-form è stato già detto e già scritto – a me sono piaciuti molto, per esempio, gli interventi di Carlo Mazza Galanti su Esquire e di Cristiano De Majo su Rivista Studio – che tra l’altro ha ospitato O’Hagan a fine novembre, durante la #SIT17 offrendo al pubblico un incontro appassionante e denso di spunti.
Mi limiterò a consigliarvene la lettura, per più motivazioni.
La rapida ascesa del modello della narrative-non fiction declinata nelle modalità del long-form è ormai un fatto accertato (“La crescita della long form potrà colmare il gap attualmente esistente fra contenuti granulari ed ebook?” si chiede Gino Roncaglia dalle pagine dell’ultimo numero della Lettura questa settimana in edicola – pag17) e questi lavori del romanziere-saggista-columnist scozzese O’Hagan ne sono un esempio prezioso, che sarebbe un peccato perdere, sia appunto per l’analisi dell’impianto narrativo sia per i temi che i tre reportage si trovano ad affrontare. Sì perché le “tre storie vere dell’era digitale” sono, nell’ordine, niente di meno che: 1. il resoconto dei mesi che O’Hagan passò fianco a fianco con Julian Assange, da cui era stato contattato e poi incaricato di scriverne l’autobiografia in qualità di ghost writer; 2. i risultati a cui O’Hagan giunse vestendo i panni off e on-line di Ronald “Ronnie” Pinn, un giovane londinese deceduto più di trent’anni prima della cui identità l’autore si appropria, utilizzando il metodo in uso agli agenti infiltrati britannici – tecnica al limite della legalità ancora oggi in uso – e infine 3. il sunto delle settimane trascorse seguendo il coming-out del presunto creatore del bitcoin, l’informatico australiano Craig Steven Wright che, come pare, operò sotto lo pseudonimo, ormai entrato nella leggenda, di Satoshi Nakamoto.
#LaVitaSegreta è un viaggio buio e senza ritorno nei meandri di quella parte dell’internet di cui tutti, diciamo la verità, vorremmo dimenticarci – o meglio, di cui vorremmo sapere il meno possibile. La sensazione del guilty pleasure è la stessa che prende nel momento in cui leggiamo di una vicenda di cronaca nera opportunamente spettacolarizzata, oppure della fine tragica di una promettente starlette. Peccato che qui le cose si complicano, non fosse altro perché:
“Storie come queste non sono particolari, non riguardano soltanto uomini particolari ma tutti noi che utilizziamo il digitale, come mia figlia tredicenne ad esempio” (Andrew O’Hagan a #SIT17, 25/11/2017, intervistato da Daniele Rielli)
e quindi il meccanismo di presa di distanza successiva, spiace ma con queste storie non funziona (“Tutti guidiamo un’auto senza curarci della combustione interna” [pag106]).
E’ degna di nota la capacità di O’Hagan nel mantenere il giusto distacco giornalistico dimostrando allo stesso tempo un’empatia fuori dal comune, che molto probabilmente – più che la fama di scrittore in sé – gli ha permesso di avvicinarsi a due dei personaggi più geniali e controversi del nostro tempo descrivendone tanto le incredibili abilità tecniche, l’intelligenza e lo spirito pionieristico quanto le idiosincrasie e le fragilità emotive che ne hanno segnato la caduta.
“Assange in me cercava un prete, uno psicanalista, un fratello, un migliore amico. Mi chiedeva di non scrivere il libro che insieme avevamo deciso di scrivere”
“Wright mi pregava di non scrivere quello che lui stesso mi aveva appena detto, mi aveva appena mostrato”
(Andrew O’Hagan a #SIT17, 25/11/2017, intervistato da Daniele Rielli)
A quanto pare, malgrado da più parti ci venga suggerita la necessità e l’utilità di unificare le nostre identità, reali e virtuali, internet sta attraversando l’epoca d’oro del doppio… o del triplo, del quadruplo… chi lo sa. Non si tratta soltanto di dark web, blackchain, vita da hacker professionisti
“Per Snowden esprimeva una sorta di irritata ammirazione: *Insomma, quanto bravo è?* domandai. *E’ il numero nove* rispose. *Al mondo? Tra gli hacker? E tu cosa sei?* *Io sono il numero tre*” [pag74-75])
compravendita d’armi o droga, falsificazione di identità a scopi di frode e fondi di investimento come scatole cinesi, ma anche – e soprattutto – di questioni che tocchiamo con mano ogni giorno, come i 68 milioni di identità false che popolano Facebook e con cui appunto ci trastulliamo quotidianamente, noi – e i nostri figli.
“Durante la rivoluzione egiziana del 2011 Hosni Mubarak tentò di spegnere la rete di telefonia mobile del paese, un servizio fornito dalla compagnia telefonica canadese Nortel. Julian e i suoi penetrarono nei server della Nortel e si scontrarono con gli hacker ufficiali di Mubarak per mandarne a monte il tentativo. La rivoluzione proseguì e Julian, soddisfatto, si rilassò mangiando cioccolatini nella nostra remota cucina” (pag26-27)
“(Wright) descriveva regolarmente la tecnologia blockchain come la più grande invenzione dopo internet. Diceva che avrebbe fatto per le valute ciò che internet aveva fatto per la comunicazione” (pag115)
“La mia invenzione era diventata così concreta nel mondo ufficiale delle cose, che oltre a un codice fiscale aveva anche un numero di previdenza sociale. (…) Le banche se lo contendevano e, sebbene non fosse iscritto nelle liste elettorali, anche quella sembrava solo una questione di tempo” (pag99)
A proposito della riflessione sulla “natura dell’identità” in ultimo vorrei segnalare (e il caso non esiste, ne sono sicura!) due pezzi usciti questa settimana sulla Lettura: il primo è a firma Alessandro Beretta, che scrive dell’esordio di Giuseppe Imbrogno “tra ombre e big data” (“Vivere la vita di un altro, ossessione digitale”, La Lettura #319 pag21 su “Il perturbante”, Autori Riuniti) il secondo è di Vanni Santoni che ci parla del mito di James Bond, prendendo come spunto le nuove edizioni dei romanzi di Fleming che Adelphi propone dal 2012 – ora è il libreria “Goldfinger” (“Siamo tutti James Bond – anzi, vorremmo esserlo”, La Lettura #319 pag36):
“Tutto infatti, in James Bond (…) è pura proiezione dei desideri profondi, per non dire *bassi*, di un borghese inglese di mezza età. Le donne sono tutte giovani e belle, *obbedienti come bambine*; le sfide sportive sono duelli arditi, giocati sul filo della correttezza e immancabilmente vinti, così come immancabilmente si vince al tavolo da gioco; la violenza è somministrata in modo infallibile – un colpo di taglio della mano basta a uccidere uno scagnozzo -, il cibo è sempre eccellente – Bond e Du Pont, che lo ingaggerà per incastrare una prima volta il magnate dell’oro Auric Goldfinger, si ingozzano di granchi prima ancora di parlare d’affari – e l’alcool scorre a fiumi ma senza alcun effetto negativo”. (…) Scrisse John Le Carré, che di spie se ne intendeva, che nessuna agenzia di servizi segreti avrebbe mai mandato in giro un agente che beveva e giocava d’azzardo in modo così incontrollato: esatto, è proprio per questo che James Bond è immortale”
Buona lettura – e grazie a MLOL, a cui dedico queste poche righe, come promesso 🙂