"La città di adamo", di Giorgio Nisini

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– Con una particolare capacità narrativa che mira ad accomunare, attraverso un gioco sottile di metafore e sineddoche, il tutto all’oggetto, G Nisini catapulta fin da subito il lettore nel territorio del falso d’autore
– Il televisore Brionvega, che l’affascinante Ludovica sistema in soggiorno, è un falso storico: una riproduzione benfatta del fratello maggiore dell’epoca, curata nei particolari costosi del modernariato, ma sempre un falso,riconoscibile solo ad occhio esperto (e socialmente accettato e ricontestualizzato). Ed è proprio attraverso il televisore che Marcello Vinciguerra – in contemporanea al lettore – è catapultato nella realtà di un altro falso storico: quello della vita stessa del protagonista

– Marcello, adolescente attempato, da diversi anni gioca a fare l’adulto, con risultati piuttosto soddisfacenti. Infanzia serena e senza troppi scossoni, tra buone scuole e una famiglia attenta, di ottima cultura; laurea acquisita fuoricorso, sine infamia sine laude, nozze con una donna del medesimo entourage, il giovane – senza patema alcuno per il futuro, già definito – al termine del percorso scolastico entra nella ditta del padre e lo affianca nel lavoro quotidiano. Ora, alla soglia dei quarant’anni, Marcello Vinciguerra abita le colline fertili delle Langhe, si è costruito una bella villa – che l’affascinante ed eclettica consorte Lulù, divenuta affermata commerciante di arredi di design, governa con amorevole cura (spostando di quando in quando un divano qui, una credenza là, casa di bambole) – guida una macchina potente, veste maglioni di cachemire e, non ultimo il fatto, conduce con più che discreto profitto – un po’ barcamenandosi, un po’ vivendo di rendita – la pregiata azienda ortofrutticola che ha ricevuto in eredità dal padre. E’ stimato tra i dipendenti e i collaboratori, non certo celebrato come lo era il padre, creatore ex novo di una delle più produttive aziende agricole del centro-Italia, ma è datore di lavoro rispettato, dotato di buona professionalità e attento spirito imprenditoriale

– La vita di Marcello scorre prevedibile e concreta, senza particolari traumi o imprevisti, complice anche la mancanza di figli (che – informazione preziosissima che l’autore centellina fino allo stremo della curiosità del lettore – non sono stati procreati “per scelta”). La passività di Marcello si esemplifica anche nel rapporto erotico con Ludovica, di cui Marcello subisce le stravaganze, nell’inconscio tentativo di mantenere viva la passione sessuale che deve di necessità rimanere immutata nel suo vigore post-adolescenziale e nella sua solidità di status acquisito, al pari di tutto ciò che di materiale circonda i due coniugi. 
– Il cambiamento e la mutazione, se proprio occorre, debbono avvenire soltanto attraverso canali mediati e secondo schemi preventivati, creati ad arte dal protagonista del cambiamento stesso oppure, ove subìti, socialmente accettati (sia che si tratti di un nuovo oggetto di design appena acquistato ed introdotto in casa – che deve corrispondere perfettamente agli ultimi dettami del lusso e della moda – sia che si tratti di un nuovo ristorante, o di un nuovo fidanzato per l’amica single). 
– E’ il fascino degli oggetti, dettagli all’apparenza insignificanti che invece plasmano e modificano la percezione che noi abbiamo di noi stessi e di chi ci circonda. E’ il silenzio al ristorante d’élite, interrotto soltanto dal soffice brusio dei pochi avventori e dal tintinnio delle posate sul piatto. E’ la poltrona ergonomica sui cui la madre di Marcello ondeggia a gambe all’aria; è una fotografia sovraesposta, tagliata rozzamente e slightly out of focus. E’ il divano boa, oggetto feticcio delle fantasie sessuali di Ludovica, o le tele di De Chirico, che tanta parte hanno nella ricostruzione iconografica dell’immaginifico del quartiere Eurano

– La contaminazione giornalistica ci pare minima, per altro totalmente decontestualizzata dal momento che luoghi, fatti e nomi sono dichiaratamente frutto di un atto di puro estro e mera fantasia artistica. Non si tratta quindi di un’operazione né pedagogica, né di denuncia sociale (*). 
Prova evidente della letterarietà del testo, la tipica ambiguità romanzata del cattivo. “O’ Filosofo”è un camorrista di sanguinaria memoria; ma allo stesso tempo è uno studioso illuminato capace di profonda ironia letteraria, un architetto visionario, una personalità carismatica e affabulatrice. 
Ciò non significa che l’autore di fiction debba necessariamente prendere posizione contro l’impegno civile, ma soltanto che qui, in questo contesto, la camorra sia da intendersi come semplice pretesto, una delle decine di possibili rappresentazioni del reale a disposizione dell’autore, quale strumento di avvicinamento al lettore (e per attirare il lettore). Un escamotage
– Marcello è un autodidatta della ricerca. Si muove rozzamente tra interrogatori surreali, pedinamenti sconclusionati, sopralluoghi improbabili: una moderna telemachia, un viaggio nel dubbio e nel grigio di un’esistenza che si tramuta in uno solo colpo, grazie a (o a causa di) un unico fotogramma passato alla televisione durante un programma di attualità politica, da pragmatica, razionale, comprensibile, evidente, a confusa, insondabile, equivoca, ambigua, ambivalente, metafisica. Il viaggio del figlio alla ricerca del padre, quel figlio che diverrà uomo soltanto dopo aver compreso, ed imparato, ad essere, esattamente, figlio – e padre a sua volta

(*) stesso approccio, piccola nota a margine, che hanno utilizzato con successo almeno altri due autori del Sud Italia che abbiamo annoverato tra le nostre personali migliori letture dell’anno: B Agostini e F Battistella