"L’ultimo uomo nella torre", di Aravind Adiga

More about L'ultimo uomo nella torre Meh sì, lo sappiamo: tra voi ci sono molti nasi fini di ballardiana memoria. Déjà-vu, quindi, a leggere “L’ultimo uomo nella torre”? Abbastanza, giacché di queste dinamiche “sociogeografiche” (o meglio: psicogeografiche) ne aveva discusso abbondantemente il nostro di cui sopra, giusto qualche anno in anticipo rispetto ad Aravind Adiga. Nelle opere della maturità, l’occhio acuto di Ballard era passato dall’analisi fantascientifica di un ambiente esterno (ie “Il mondo sommerso” – 1961) a quella, meno fiabesca e più consapevole, relativa all’ambiente interno, di cui “Il condominio” (aha!) datato 1975 e “Super-Cannes” (2002) sono testi paradigmatici. 
Sempre medesimi i temi su cui lo scrittore all’avanguardia della narrativa inglese – nato nel 1930 a Shangai, internato in un campo di prigionia a seguito dell’attacco a Pearl Harbour e tornato in patria solo nel 1946 – si interrogò spesso nelle sue opere: 
  • la violenza con connotazione non individuale ma sociale, specie se espressa in un contesto fortemente strutturato (il campo di prigionia, il condominio, il residence di lusso) che al contrario dovrebbe limitare i propri istinti antisociali garantendo e preservando la quotidianità 
  • la ricontestualizzazione del brutto e del fuori moda rispetto allo stile, alla pulizia delle linee (degli oggetti e… delle persone), e al design, quasi che il dilagare degli aspetti primitivi dell’esistenza fosse, piuttosto che da rifuggire, quasi da desiderare 
  • il mondo nuovo tendente al caos, attraverso la costituzione di un nuovo ordine sociale frutto di una re-interpretazione del presente 
  • la malattia mentale come strumento d’eccellenza per la comprensione della realtà mutata di cui al punto 3 
E quindi? Quindi prendiamo a prestito qualche nota qua e là, pescando nell’infinito mare dell’avventura di Yogesh A. Murthy detto Masterji, professore in pensione, vedovo da poco più di un anno, una figlia morta bambina a causa di un incidente ferroviario e un figlio sposato ad una moglie acida che limita al minimo i contatti tra padre e figlio e tra nonno e nipote. Avventura che inizia nel momento in cui lo scaltro costruttore edile (il “palazzinaro”) Dharmen Shah offre ai condomini dello stabile A della Vishram Society due volte e mezzo il valore dei loro appartamenti; stabile che Shah desidera abbattere per poi costruire al suo posto un super complesso residenziale in stile “gotico” con tanto di tocchi indu e Art Deco. Quel che accade è noto, se ci riferiamo sempre al nostro Ballard d’annata (1975 & 2002): 
Le differenze di ricchezza fra i condomini non passavano inosservate – l’estate prima Mr (…) aveva portato la famiglia nel (…), e l’agente immobiliare Mr (..) aveva una Toyota Qualis – ma si trattava di semplici alti e bassi nell’uniformante squallore (…). La vera distinzione consisteva nell’andarsene dallo stabile” (pag 31) 
Qual è la definizione di una città morente (…)? Glielo dirò, visto che lei non lo sa: una città che smette di sorprendere” (pag 47) 
Nei vecchi condomini la verità è una cosa comunitaria, un consenso d’opinione (…) a prezzo di una certa quantità di rabbia accantonata, di una certa quantità di orgoglio ingoiato, sarebbe stato riammesso nella vita comunitaria dello stabile” (pag 203 e 206) 
Strattonò il cavo del telefono per staccarlo dal muro” (pag 220) 
Bloccò la porta con il tavolino di tek (…). ‘Dunque sono rimasto l’ultimo uomo del condominio’, pensò” (pag 242) 
Ora (…) usciva solo due volte al giorno (…). Prese a concedersi un sonnellino pomeridiamo” (pag 253) 
Non lo consideravano più un essere umano… uno che ha bisogno di acqua e di luce” (pag256) 
Sta trasformando delle brave persone in cattive persone. Sta cambiando la nostra natura. Perché vuole che siamo noi a farlo (…). Quello che gli altri costruttori fanno a quelli come lui in situazioni come questa” (pag 297) 
(…) spinse il divano contro la porta, per barricarsi in vista di un secondo attacco. (…) Riempì una pentola d’acqua, accese un fornello e mise l’acqua a bollire. Gliel’avrebbe versata in testa quando fossero tornati. In ginocchio, esaminò la bombola del gas. Magari poteva fargliela esplodere in faccia?” (pag 318) 
La polizia non è venuta. Perché non l’ha chiamata?” (pag 324) 
Ma (…) si rischia di finire in prigione! (…) E vivere in questo edificio per il resto della vita sarebbe meglio che finire in prigione?” (pag 336) 
Il merito di Adiga è indubbiamente quello della contestualizzazione. Ex corrispondente del “Times” direttamente da Mumbai, dove risiede, e vincitore del prestigioso Man Booker Prize nel 2008 con “La tigre bianca” (Einaudi), Adiga possiede la capacità di scrutare con occhio clinico e imparziale una città in costante e continuo mutamento, rendendone esplicite tutte le intrinseche contraddizioni. La Mumbai del cemento e dei fantasmagorici centri residenziali in divenire, progettati dai più valenti ingengneri nazionali e internazionali ma costruiti, mattone dopo mattone, da innumerevoli (e sacrificabili) schiere di immigrati senza fissa dimora che in cambio di una paga irrisoria si intossicano i polmoni con le fibre di amianto. La Mumbai degli slum cresciuti catapecchia dopo catapecchia ai margini dell’aeroporto intenazionale, tra gli scarichi dei 747, le cloache a cielo aperto e le mille antenne paraboliche montate sui tetti di lamiera. La Mumbai del sistema delle caste, oramai in declino, il cui “ordine” viene ora sostituito dall’anarchica corruzione dei pubblici uffici e dalla burocrazia anglo-indiana, infinita e inestricabile. 
Che poi, la questione delicatamente inquietante è pure un’altra; che in certi casi si potrebbe avere il sentore sì di un déjà-vu, ma non ballardiano, stavolta: 
Guarda i treni di questa città. Guarda le strade. I tribunali. Niente che funziona, niente che si muove; ci vogliono dieci anni per costruire un ponte” (pag 61) 
(…) sedurli con sorrisi e strette di mano, arruffianarsi i bambini piccoli come fanno i politici” (pag 86) 
Odiava quelle assemblee condominiali: ogni volta che tenevano la riunione annuale della cooperativa, lui si sentiva in imbarazzo per i battibecchi fra vicini, le accuse meschine (…). Come donne al mercato del pesce” (pag 103) 
(…) era iniziata una stagione di forza di volontà: l’alleanza di corruzione, filantropia e inerzia che li aveva protetti così a lungo si stava disintegrando” (pag 136) 
L’area (…) come avrebbe retto a tutte quelle nuove abitazioni… e cosa ne sarebbe stato della viabilità?” (pag 155) 
(…) questi vecchi dissidi, queste vecchie mechinità… devono finire. E’ questo il motivo per cui nel nostro paese non concludiamo mai niente” (pag 170) 
(…) Tutti lo sanno, ma nessuno vuole prendersi la responsabilità di dire: ‘Rallentiamo. Fermiamoci. Pensiamo a quel che sta succedendo” (pag 213) 
Siamo un popolo cavilloso (…) un popolo melodrammatico (…) vediamo troppi film” (pag 244) 
Buona lettura 🙂