“Il figlio delle sorelle”, di Leonardo G. Luccone

“Nella testa hai solo sbucciature. Nella testa hai solo trucidature. Nella testa hai solo mancature. Solo troncature. Smangiucchiature, tramature, stancature, sbavature, sporcature, strozzature, smerigliature, annaspature, sgommature, abbandonature. Abbandonature.”

“Il figlio delle sorelle” sfregia in faccia, amabilmente e si spera con cicatrice duratura, il modo falso onnisciente di svolgere il romanzo familiare. Se i ricordi sono per definizione lacunosi, imperfetti, modificati e modificabili e se altrettanto evidentemente il romanzo familiare racconta il ricordo, allora va da sé che l’unico modo per avvicinarsi alla materia della famiglia in maniera verosimile, onesta e coerente sia farla raccontare da un pazzo.

Il matto in questione è proprio il protagonista senza nome di questo romanzo breve a firma Leonardo G. Luccone (il secondo dopo “La casa mangia le parole“): un uomo comune, personaggio senza particolari pregi o difetti, che la moglie Rachele – con cui condivide una vita tranquilla e il mestiere nel negozio di proprietà – spinge a una paternità tardiva. Il figlio tuttavia non vuol palesarsi e la ricerca, dalle diete alle pratiche del santone, dal sesso calendarizzato fino alla procreazione assistita, è così tortuosa che l’arrivo di questo bambino (che poi è una bimba, Sabrina) destabilizza il protagonista sino a farlo ammalare. In realtà, come sappiamo e come sa bene anche Luccone, il disturbo psichiatrico, quello vero, qui raccontato finalmente libero cioè senza patetismi né tentativi di celebrazione dello straordinario, ha origine ben anteriore all’evento materiale che spesso lo scatena.

“Cammina gattoni sul prato sparito, sul verde striato di scie biasimate. Tu della coppia solitaria gattoni sul prato di lenzuola rimbalzato, sul prato rimboccato e candeggiato, il prato della coppia solitaria, il prato inanimato della coppia amidata, il prato soggiogato, il prato paralizzato per la coppia imbambolata, la coppia baciata dalla cicogna sparata, la coppia legata nel prato pregato per la coppia mutata, il prato scavato per la coppia strozzata, mutilata, rintanata, la coppia gattonata, sul prato spugnato la coppia mutilata rintanata gattona sul prato imbellettato.”

Tant’è che il tema della diagnosi nemmeno ci deve interessare: sappiamo solo che il protagonista senza nome sente voci ed è vittima di ossessioni e paranoie sempre più invalidanti. A un certo punto si ricovera addirittura in una clinica psichiatrica e di lui la piccola Sabrina perde le tracce, salvo poi ritrovarle molti anni più tardi, all’avvento della maggiore età e del tutto casualmente, per una serie di algoritmiche amicizie su Facebook che le fanno incontrare Carlotta, figlia della nuova compagna del padre. Di nascosto da Rachele, Sabrina si mette in contatto con il papà nella speranza di riannodare i fili, recuperare la storia della famiglia, ottenere risposte alle molte domande che la assillano da quando era bambina: perché mamma e sorella si fingevano gemelle? E perché questa cara zia, così presente nell’infanzia di Sabrina, a un certo punto viene allontanata dalla casa di famiglia? Perché Rachele ha sempre zittito con sdegno la figlia quando domandava dettagli sul suo concepimento e come mai dei nove mesi di gravidanza non esistono fotografie? Come si vede, di ombre sulla nascita di Sabrina ve ne sono effettivamente parecchie: ombre che il racconto del padre, con le sue ossessioni complottiste, non sarà d’aiuto a dissipare (saranno poi solo i vaneggiamenti di una persona instabile o c’è dell’altro, derubricato dall’inganno di una sorellanza disturbata?).

“Anch’io ho le mie colpe, perché pretendo di diluire il passato. Non lo faccio perché spero di migliorare il presente. Voglio sfumare qualche pezzo, voglio che gli altri mi dicano che l’hanno sempre vista dall’angolatura sbagliata.”

Il punto del romanzo di Luccone non è l’analisi della malattia mentale, che nella sua precisa e scientifica dimostrazione risulta in realtà il pretesto-contenitore per parlare ancora una volta (come era stato per “La casa mangia le parole” ma da un’ottica diversa) di famiglia tradizionale, del suo disfacimento e dei problemi legati alla figura genitoriale contemporanea. In specie paterna quando, per cause esterne e interne, essa dismette l’abito di pater familias senza aver ancora pienamente recuperato una bella cesta di vestiti nuovi e finisce per restare nuda (e figlia), come l’imperatore della favola. Non sfuggirà il dettaglio del protagonista quale unico maschio all’interno di un gineceo (Rachele, Sabrina, Silvia sorella di Rachele, la compagna Gilda, Carlotta, Rebecca sorella di Gilda, Corinna figlia di Silvia) che ribalta la prospettiva patriarcale mainstream consegnando al lettore un racconto familiare di sostanziale agentività femminile, all’interno del quale però ciascun membro conserva responsabilità individuali e proprie, coerenti ragioni. A dimostrazione di ciò, Luccone adotta tecniche di narrazione mista: il punto di vista si mescola in un continuo gioco di specchi, perché un medesimo episodio viene ricordato e raccontato da mani diverse ciascuna delle quali ritrova un dettaglio, una parte, un luccichio, un’ombra – nell’inevitabile impossibilità di poter recuperare un tutt’uno organico. D’altra parte, si diceva, raccontare di famiglia significa spolverare cimeli e spesso anche appropriarsi di impressioni: quasi mai un ricordo è frutto di un’operazione oggettiva e condivisa.

“«Perché non sei mai venuto a prendermi se lo sapevi?» «Così è difficile, Sabrina». «Oggi dobbiamo fare un bel passo in avanti, l’abbiamo detto». «Questa cosa possiamo riprenderla la prossima volta?» «Va bene». «…» «Che sei diventato papà, lo senti?» «…» «Che ci sono io, ora lo senti un po’ più di prima?» «Sì». «Però voglio sapere cosa sentivi prima». «Non lo so». «Come non lo sai, papà? Uno lo sa se è padre. Lo sa, no?» «…» «Lo sa?»”

Lo strumento scelto dall’autore per approfondire il dipanarsi di questo nuovo riconoscersi tra padre e figlia è il dialogo, messo in scena alla maniera teatrale: senza orpelli e abborracciato all’apparenza, è frutto degli incontri clandestini tra il protagonista e Sabrina che costruisce all’interno dell’abitacolo dell’automobile una sorta di stanza delle parole in cui il padre cercherà di rispondere alle tante domande che gli rivolgerà la figlia ritrovata: domande il cui scopo non sarà tanto quello di far luce sul passato familiare (bravo chi ce la fa – ma è questione che niente vien via semplice come vogliono farci credere i romanzoni, suvvia) quanto di mettere a fuoco, paradossalmente, l’inutilità del linguaggio in certi momenti di relazione.

Sono pagine sfidanti, perché se da una parte spingono alla sospensione dell’incredulità di fronte a una trama del tutto verosimile, dall’altra orientano il lettore verso il dubbio, perché è sempre rischioso dar credito al matto del paese. D’altro canto la tensione narrativa spinge a una risoluzione (ecco il danno del romanzo familiare tradizionale, sembra suggerire Luccone: vuole il chiarimento, la spiegazione, il consolatorio ricucirsi dei fatti) che non può prescindere dall’interlocuzione con i diretti interessati. La malattia mentale, questo è il fatto, è esemplare – non di un significato ma proprio della nostra impossibilità a recuperarlo, narratori o protagonisti poco importa. Non possiede afflato divino né capacità di comprensione privilegiata e per una volta è trattata per ciò che è: non una a-normalità un poco bizzarra ma tutto sommato interessante e romantica ma un demone che distrugge mondi, avvelena relazioni, sconcerta, indispone, allontana. Ciò non significa che il matto non sia capace di sentimento o di acuta osservazione: tuttavia, all’interno di una percezione distorta, e non saprà mai fino a che punto tale, in un non-luogo di spazi e tempi che non appartengono al ritmo comune, il matto risulterà sempre scarto, fastidio e irraggiungibile.

Questa decostruzione dei fatti a cui segue poi la loro re-interpretazione, d’altra parte, è anche una delle tracce fondative del mito, a cui l’autore per propria ammissione attinge sia nell’impianto narrativo sia nella struttura formale: la seconda parte del testo, “La discesa”, è interamente costruita sulla mitologia di Persefone dominatrice mentre i brani di delirio che racchiudono le voci, dalle quali il protagonista è ossessionato, per ritmo e virtuosismi linguistici ricordano l’entrata in scena del coro tragico – a cui, guarda il caso, almeno sino all’età della tragedia greca classica il tragediografo affidava le proprie riflessioni morali e finanche lo status di …personaggio.

“Dove si torna quando non c’è più né infanzia né casa, quando non ci sono più le persone? Abbiamo bisogno d un posto dove concentrare qualcosa. Per me il presente è solo il passato in prima approssimazione. Il tempo si ripiega dentro di me, mentre le onde della sofferenza i sparpagliano indisturbate, la memoria avvelenata agogna un passato di comodo.”

Nota: interessante il tema del Doppelgänger suggerito già dalla foto di copertina, scatto di Anka Zhuravleva.

“La casa mangia le parole”, di Leonardo G. Luccone

Ripongo sempre fiducia nei libri che vengono dal destino – l’ho già detto. “La casa mangia le parole” arriva da lì, un incontro creato dalla sorte. Ma io all’occasionalità dei libri non ho mai creduto.

“31 dicembre 2011

E’ uno di quei giorni che non si ricordano mai se non perché è un giorno di partenza, quei giorni dove il tempo si mette a fare le bizze e ingrigisce pure quel residuo che a Roma si chiama sole d’inverno, un sole che rende meno cupe e umide le giornate della stagione triste e sembra che ci siano troppe poche occasioni per far succedere qualcosa, e si procede così, per inerzia o a strappi, e alla fine della giornata ci si ritrova ammaccati per niente” (pos.40)

Nelle favole di Esopo i protagonisti non hanno nome. C’è la volpe furba, la cicala ingenua, la tartaruga saggia, l’uomo sciocco che grida al lupo al lupo. Esopo evita di identificare i suoi personaggi attraverso i nomi propri perché ha l’intenzione dell’universalità; i protagonisti delle sue favole non sono casi particolari: al contrario non devono mai passare di moda, come non deve mai passare di moda il messaggio che ciascuno di essi porta.

Per i De Stefano è lo stesso: di loro finiremo per conoscere soltanto il cognome perché i De Stefano siamo un po’ tutti noi, a quanto pare indegni di essere nominati per quel che siamo – i veri nomi – ma solo per quel difetto (o più raramente per quella virtù) che ci distingue gli uni dagli altri. I De Stefano saranno sempre lui e lei, neoborghesi quarantacinquenni e qualcosa, un figlio grande, la bella casa dalle cui finestre entra Roma in tutto il suo fulgore di impero condannato; le cene con gli amici, le piccole neghittosità, i silenzi annodati, le ombre di quel che non si è più capaci di dire. Questa è la storia di una famiglia come tante: di noi che ci avviciniamo alla mezza età, del modo in cui lo spavento ci prende, della resa dei conti. Ci chiamano Generazione X (ove X, pare, sta a significare la mancanza di una identità sociale definita), quelli che sono venuti dopo il babyboom ma prima degli echo boomers, quelli cresciuti con MTV, quelli che hanno screditato i propri genitori – senza tuttavia riuscire a recuperare la concretezza di intenti in grado di eliminare il senso di subalternità.

Eppure, perverso gioco di specchi, i veri nomi qui ci sono – ma ce li hanno tutti gli altri, ad alimentare un senso di infinita attrazione gravitazionale per cui ciascuno non è specificato da quel che è ma da quel che gli sta intorno. Graziano Fauci, Fernando Pomarici, Bernardo Vaciaghi, Michele Giuli Capponi, Carlo Alborghetti, Ezio Carmasciani, Franco Terracciano. Matilde. Moses Sabatini. In una girandola di personaggi di finzione mescolati al reale, di avvenimenti soltanto verosimili avvinghiati a quella Storia che noi, ultima generazione del nostro tempo, portiamo a marchio indelebile – qualcosa che ci è fatto divieto cancellare – Leonardo Luccone trascina il lettore nel gorgo di un racconto che da individuale (la crisi matrimoniale a seguito dell’emancipazione del figlio) diventa canto collettivo.

Lascio qui una nota, tre fumetti azzurri incastrati nella memoria del mio telefono – buttati lì imprecisi com’è questo mio lavoro, per come lo sento io: precario, randagio, dai confini scomposti. Dicevano che spesso nei libri vedo parole e qui mi piace pensare a redenzione o affrancamento – che c’è per assenza nel senso che non c’è. Il fatto è che non si può tornare indietro da un certo tipo di lingua se scritta in un certo modo (e menomale). E non si può tornare indietro da certe questioni, specie per noi: un po’ solo pars destruens, se non ce ne fosse anche un’altra di parola che mi gira in testa, che si avvicina a consapevolezza. Poi c’è di nuovo la conferma di quella mia idea, che di genitorialità riescano a parlar bene soltanto le persone intelligenti. E alla fine c’è Matilde, l’ultimo vero nome. Mi annotavo: Matilde è l’idea del tempo perduto, di quello non goduto, sottovalutato, o sopravvalutato e goduto troppo, senza merito, senza necessità.

“Le cose esistono quando vengono nominate. Si creano quando viene pronunciato il nome. Poi diventano ingombranti. Hanno spigoli da tutte le parti, un colore fluorescente, che si vede pure di notte. Quando le cose vengono nominate per la prima volta diventano vere” (pos2979)