“Il cerchio perfetto”, di Claudia Petrucci

Roma/Milano, 2035. Irene Sartori è un’immobiliarista di successo, specializzata nella vendita all’asta di proprietà storiche e di lusso. Si occupa di rilevare palazzi sontuosi appartenuti a nobili caduti in disgrazia, beni pubblici abbandonati, lasciati a marcire nella muffa, penthouse ricolme di opere d’arte – proprietà di sconsiderati investitori di cui si sono perse le tracce, che poi rivenderà al miglior offerente.

La guidano, oltre all’abilità negli affari, la passione per l’architettura e un inspiegabile, curioso intuito per il genius loci, “la percezione della natura della casa, del sentimento con cui è stata costruita e poi abitata. Il ricongiungimento con lo stato originale”. Nulla di strano, quindi, nella richiesta di contatto che così all’improvviso le arriva da un misterioso e raffinatissimo imprenditore milanese: l’anziano uomo d’affari le domanda una perizia su un’abitazione che ha ricevuto in gestione da alcuni anonimi investitori. Si tratta di una casa padronale, su più piani, progetto davanguardia che si incastra in quel triangolo di silenzio assoluto dell’alta borghesia milanese che è il retro di Brera, al confine con viale Gadio: al margine di via Saterna dormono di sonni inquieti le camere appartenute a Lidia Castelli, ventenne rampolla della Milano bene, morta suicida in una notte di bagordi del 1986. Si gettò dalla terza e ultima rampa di scale – racconta la cronaca, sul quotidiano dell’epoca – forse sotto l’effetto dell’alcool, forse vinta dal dolore per il padre appena mancato, forse traumatizzata dall’improvvisa rottura con il promesso sposo: dritta filata sino al piano terra, non un grido, non un rumore, la testa spaccata contro la materia solidissima che compone la vasca rotonda che fa da corrispettivo al lucernario centrale di questa casa avveniristica.

“Roma, lunedì mattina. Nelle ultime ore il cielo si è tinto di un giallo denso. La nube tossica proviene dalle campagne aride di una provincia meridionale a centinaia di chilometri dalla capitale, dove, da giorni, un incendio sta consumando i resti di una acciaieria: stando agli esperti, le polveri resteranno imprigionate nell’atmosfera fino alla prossima pioggia.”

“Sullo sfondo, la base nera del Duomo si distingue come il ventre di una nave madre in attesa; i profili sono sfocati, e la facciata è dissolta.”

Irene Sartori non esita dunque a imbarcarsi da Roma per Milano, sua città natale; questa consulenza le porterà una cospicua parcella e l’ennesimo giro di referenze ma sarà anche l’occasione per una visita ai genitori e alla sorella, ancora residenti a Milano malgrado le condizioni proibitive del luogo, offrendole allo stesso tempo il pretesto per prendersi una pausa dalla relazione con il fidanzato. Forse, pensa Irene, potrà anche esserci modo di un riavvicinamento col padre, anziano, e allettato, con il quale da tempo non va molto d’accordo. Naturalmente nulla andrà come preventivato: la casa di via Saterna spalancherà le porte e inghiottirà Irene nell’inferno di un racconto nero, di fantasmi e scambi di persona, intrighi familiari, vendette, spettri e – come ovvio – di un amore illecito e feroce. Sullo sfondo è dipinta una Milano cupissima, assediata da orde di tanaturisti, furgonati della polizia, bande di disperati rivoltosi e avvolta nella nebbia di una catastrofe climatica irreversibile.

“Le transenne si distinguono solo da vicino, somigliano a una recinzione: si chiudono sull’affaccio al Duomo e si perdono nella nebbia, muri di metallo alti tre o quattro metri, sorvegliati dai militari – quattro camionette parcheggiate da entrambi i lati, soldati a pattuglia.”

Sulla trama ci è concesso dir poco: siano sufficienti alcune domande. A chi la giovanissima Lidia Castelli diede mandato per costruire quell’abitazione, riguardo alla quale nacque l’irrecuperabile dissidio con il fidanzato? Perché il progetto fu modificato così all’improvviso, passando dalla linearità schietta della tradizione borghese a una visione d’estetica pura, tra strutture concentriche e panopticon, marmi e smalti, intarsi di pavimenti, gallerie, vetri e giochi di luce? Cosa c’entra in tutto questo l’anziano procacciatore dell’incarico – e cosa significano i silenzi del padre, al quale Irene appare come un’arrivista prezzolata, ignara del senso ultimo di ciò che significa casa, pagata per offrire a miliardari senza scrupoli preziosissimi beni immobili, privati e pubblici, a cui, per causa della sua azione, mai più nessuno riuscirà ad accedere?

“Com’è tremendo il futuro senza una casa. Per quanto sia ormai rassegnata, per quanto sia cosciente di far parte del trend negativo inevitabile della mia generazione, e per quanto è certo che noi, un numero imprecisato, milioni di individui nel pieno delle forze della vita non potremo mai permetterci di comprarne una, per quanto la flessibilità, la condivisione, l’abbandono della tradizione borghese, la libertà, la libertà di viaggiare, di spostarci, per quanto tutta questa narrazione nauseante miri a farci sentire meno soli, meno dispersi, parte di un insieme di milioni di individui pronti alla fuga, per quanto la nostra giovinezza ci venga raccontata come una dote irrinunciabile lo sento di aver perso tutto. Lo dico con pace, cons serenità, e senza alcun rancore, perché era inevitabile: abbiamo perso tutto.”

Claudia Petrucci costruisce un giallo in puro stile milanese, all’interno del quale tutti gli elementi di genere, pur presenti – dalla narrazione d’atmosfera al gioco degli equivoci – sono rivisitati in chiave contemporanea. E così, la scighera compatta, che rende il silenzio invernale della notte meneghina così denso che quasi si trattiene il respiro per paura di rovinarlo, non è più fenomeno atmosferico tipico della pianura padana ma il risultato di un non precisato, drammatico cataclisma che ha reso Milano una città in costante penombra, dove i pedoni circolano armati di speciali occhiali da vista, maschere e luci lampeggianti atte a segnalare la propria presenza e a evitare incidenti. E così, le domande esistenziali che nascono nella protagonista Irene prendono la forma di una società di consulenza per la procreazione assistita a cui la donna si rivolge, nell’ansia incipiente del tempo che sfugge. E così, i panni dell’antagonista vengono indossati non da un genio del crimine o da un assassino ma da una ragazzina timida e minuta, una squatter che abita di frodo le stanze appartenute a Lidia, che si immerge nella sua vasca da bagno, che indossa i suoi vestiti, che dorme fra le sue lenzuola di seta pregiata, che insomma ne assume l’identità fantasmatica. E così, infine, la crisi delle generazioni più giovani è identificata con l’incapacità di trovare radici, in un continuo andare e venire, un affitto dell’abitare che al senso dello sradicamento pone come alternativa quello della ri-occupazione.

Il cerchio perfetto simboleggia la pozza nell’oculus in cui Lidia specchiava sé stessa, il corpo nudo e bianchissimo e un’ombra accanto, racchiusa in una foto sgualcita. Ma è anche il passato che torna a bussare alla porta del giardino d’inverno, lì dove Lidia usava lasciare la chiave di scorta, nello sguardo di una ragazzina spaurita. Ed è anche il destino di Irene, compiuto per mano di altri, a guidarla come marionetta proprio al centro di quell’inspiegabile che lei non si attende. Sono le cifre che compongono le proporzioni all’interno della casa di via Saterna: inusuali, precisissime, a voler dirci qualcosa: come una celebrazione, una lettera d’amore, forse un testamento (“La casa è austera nella struttura, sensuale nelle finiture. Alcune stanze sembrano essere state progettate come degli scrigni.”)

La trama di questo giallo raffinato (si perdona volentieri l’unico difetto: un po’ di accelerazione improvvisa nel finale) potrebbe irritare – per l’ardire del chiamare in causa addirittura Buzzati, a far da rimpiazzo a una presunta mancanza di inventiva. Ma non ci si deve trarre in inganno: “Il cerchio perfetto” è un omaggio lieve e sentito alla leggenda di via Saterna e a certi spicchi di Milano. È il rendere onore ai luoghi della memoria individuale, alle storie sui misteri di periferia che abbiamo ascoltato da ragazzi, a quella luce dorata che emanano certe stanze milanesi, nel buio delle sei e mezza, quando la minestra è già sul fuoco e il parquet scricchiola al calore del termosifone.

“La desolazione di Milano Ovest, durante i brevi ritorni per le visite familiari o le trasferte, non si era mai sedimentata nella sua coscienza. Per Irene, tornare a vivere nella casa della sua adolescenza, compiere tutti i giorni lo stesso tragitto fino a via Saterna, ha significato essere costretta a soffermarsi sulla percezione dell’assenza.”

Lo scarto nello sguardo di Irene è familiare ed estraneo insieme: cammina parallelo a quello dell’autrice, milanese ma da tempo residente in Australia – come un’occhiata fuori fuoco, dentro ancora ma nello stesso tempo già al di là dell’esperienza, ormai ancorata al ricordo. L’escamotage dell’ambientazione distopica esalta queste modalità di osservazione, creando anche nel lettore l’impressione di un mondo al contrario in cui tutto pare identico al prima, ma completamente diverso. (NB: le parti relative alla torre Velasca e a villa Necchi sono piccoli gioielli, dedicati – davvero – a noi milanesi).

“In via Saterna nella città vecchia / esiste una villa con un grande / giardino da moltissimi anni / apparentemente abbandonata / dalla strada / però non / si vede / che il muro / di cinta e / il culmine / della casetta del custode.” Dino Buzzati, Poema a fumetti, 1969