“Erosione”, di Lorenza Pieri

“Qui tutto mi rassicurava, era sempre estate, era come se il buio non esistesse. Tutta la luce che mi circondava, gli alberi, le cicale, il vento, il ritmo ipnotico della risacca da cui provavo a farmi incantare nelle notti in cui non riuscivo a prendere sonno, facevano pensare che niente di brutto sarebbe mai potuto accadere finché ero lì.” (Scatola N°2. Geoff)

“Le dispiaceva per esempio non ricordare l’ultima volta che con i fratelli si erano abbracciati “a pinza di granchio”, agganciandosi tutti e tre per le braccia come facevano da piccoli” (Scatola N°1. Anna)

Sabato sera ci siamo ritirate presto, io e il gatto, e abbiamo finito “Erosione”. Che è un romanzo a tre voci – anzi a pensarci forse pure di più, ma partiamo dall’inizio. Tre fratelli ormai adulti, Anna, Geoff e Bruno, in una giornata di tempo brutto e freddo si ritrovano a Cape Charles, amena località turistica adagiata sulla Chesapeake Bay, in Virginia, per dare l’ultimo saluto alla villa di famiglia appena passata nelle mani di nuovi proprietari. Anna ha avuto l’idea di portare con sé anche la madre, Margaret, trascinando la carrozzina dalla casa di riposo sino al soggiorno della villa e sistemando l’anziana donna, ormai quasi del tutto incosciente a causa dell’Alzheimer di cui soffre da tempo, di fronte al panorama costiero.

[Un passo indietro.] Se ci si prende la briga di curiosare sui siti di promozione turistica della Chesapeake Bay si potranno ammirare decine di queste tipiche abitazioni a disposizione per l’affitto stagionale: grande folklore statunitense – tanto legno, veranda rialzata, colori brillanti alle persiane, tradizionale pianta quadrata, due piani, arredi d’epoca, in alcuni (ormai rari) casi accesso diretto alla spiaggia con pontile riservato – e una “storia da raccontare” che risale, di solito, ai primi del ‘900. “Per i turisti che intendono passare le vacanze a Cape Charles una casa in affitto è una popular choice“, recita la caption di un sito di intermediazione immobiliare (dove con “popular” si intende una cosa che sta a metà strada fra il “lo fanno tutti” e lo “stai sereno, è sofisticato”: potremmo tradurlo con di tendenza, forse). La scelta è vasta, costruita per assecondare le necessità di diverse tipologie di fruitori: si va dall’intimo e isolato cottage per coppie alla “massive beach mansion” che può accogliere agevolmente anche le famiglie più extended. L’importante è che si possa “apprezzare la storia senza rinunciare a tutte le comodità moderne”.

[Riprendiamo.] Non fa eccezione la casa di nonno Joe, arrivato a Baltimora da bambino insieme al padre e allo zio – muratori e titolari della “Amenta bros.“, impresa di costruzioni – e poi imprenditore di successo nel commercio delle automobili durante la ripresa economica dei Sixties. “Aveva fiuto per gli affari e una discreta prepotenza, ma più di tutto un’innata capacità di convincere gli altri.” (Scatola N°1. Anna)

“Il nonno andava pazzo per tutto quello che lo affrancava dal suo status di migrante italiano. Era orgoglioso delle sue radici ma si vergognava della povertà. Del resto era cresciuto tra gli americani, in un posto dove essere poveri veniva vissuto come una colpa.” (Scatola N°1. Anna)

Sicché, ecco la casa sulla punta del promontorio: completa di veranda, terrazzo, vasche per i fiori e pontile a cui erano attraccati il motoscafo Siracusa e il barchino in vetroresina Tender to Siracusa con cui i fratelli usavano spostarsi per raggiungere le ville degli amici. Ed ecco il rito del trasloco estivo, con la nuora – mamma Margaret, rimasta vedova in giovane età – che stipava in macchina i fiori nuovi da trapiantare in giardino e i figli, a cui consegnava ogni anno tre scatole di legno di cedro all’interno delle quali i fratelli dovevano infilare tutto quello che ognuno intendeva portarsi dietro per i due mesi al mare, “imparando l’arte della selezione e a provare la soddisfazione tutta cattolica della rinuncia.” (Scatola N°1. Anna)

[Un passo di lato.] Non so se avete mai sentito parlare del “blight”. Di solito si rende con morìa, o anche decomposizione, e indica, come spiega bene Cal Flyn in “Isole dell’abbandono”, quel particolare stato di degrado urbano progressivo tipico della città di Detroit in seguito al tracollo dell’industria automobilistica. Il termine in realtà viene dall’agricoltura ed era utilizzato nel XVI secolo per indicare la morte improvvisa e devastante di un raccolto. L’Oxford English Dictionary, racconta Flyn, traduce “blight” come influsso malevolo: “[è] un malessere socio-economico che aleggia per le strade come un miasma, insinuandosi attraverso le finestre o negli spazi sotto alle porte, dilaga nei quartieri come l’influenza, in certi posti, come la peste.” Ecco. Se nel deterioramento tipico di Detroit c’entra la (de)industrializzazione, nella casa di nonno Joe quel che ficca il naso tra le crepe è il lento e inesorabile dilavamento delle coste dovuto alla cementificazione dell’estuario del Susquehanna, ai cambiamenti delle correnti atlantiche e infine all’uragano Floyd – il primo di molti altri successivi – che si è portato via tutta la fetta di spiaggia accessibile, pontile compreso.

[Riprendiamo.] La questione, in sostanza, è che la casa di nonno Joe, nel frattempo mancato per infarto, non assomiglia più – come sta capitando anche tante altre, vittime del “blight” – né a quelle in foto sui siti di renting on line né all’immagine impressa nella memoria dei tre nipoti che, chi per una ragione chi per un’altra, da tempo hanno smesso di frequentarla e non possono o non vogliono più accollarsi le cifre astronomiche che occorrono per amministrarla, anche perché fra loro i rapporti non sono idilliaci e ciascuno ha della propria infanzia e degli eventi successivi un ricordo personale alquanto differente (“[…] la memoria degli altri è un mezzo di persuasione difficile” [Scatola N°1. Anna]). Dunque, il legno dell’impiantito è ora impregnato di umidità, la vernice degli infissi è scrostata, lenzuola e coperte odorano di muffa, il caminetto è ingolfato, l’approdo precluso da un terrazzamento d’emergenza, fatto costruire dall’azzeccagarbugli Bruno non tanto per limitare i danni delle maree quanto per ottenere una copertura assicurativa meno onerosa.

“(…) ormai. Un avverbio italiano che ci ha insegnato il nonno e di cui in inglese non esiste un corrispondente preciso. Significa che da questo punto non si può più tornare indietro. Dentro ormai c’è ora e al suo interno è entrato il mai. In genere quando nonno lo diceva voleva dire che per me era ormai troppo tardi per evitare una punizione.” (Scatola N°3. Bruno)

Bruno, il maggiore, Anna, la figlia di mezzo, e Geoff, il minore sembrerebbero a prima vista rappresentare, ciascuno per proprio conto, una delle forme tipicamente americane in cui può prendere sostanza l’adultitudine. Anna è la quarantenne fricchettona ecologista, fissata con la mistica, maestra di scuola e madre di una figlia melting-pot, concepita a quindici anni con un dipendente scapestrato – e nero – di suo nonno, in un momento di ribellione-illuminazione. Bruno è avvocato di successo, in banca un patrimonio folle derivato dal suo mestiere (vincere in maniera spregiudicata cause di divorzio miliardarie e particolarmente audaci) e dai beni della moglie, rampolla di una delle famiglie più in vista di Cape Charles, conosciuta sin dall’infanzia (“due ciliegie di plastica” che le fermano le treccine bionde – [ndr: ricordi anche tu quel suono? Quel cloc che facevano le due biglie rosse?]. E infine abbiamo Geoff, l’unico di nome americano a testimonianza dello sgretolamento che rovina anche l’eredità linguistica, il self made man che non ce l’ha fatta, nel più puro spirito a stelle e strisce che vuole l’incompetenza personale come unica causa dell’insuccesso: sfigato padre single di un novenne mezzo irlandese-mezzo italiano cresciuto senza madre, si arrabatta fra lavori precari e stagionali, giri di scommesse clandestine, debiti e richieste di asilo presso la madre.

Dico sembrerebbero perché in realtà nessuno dei tre fratelli obbedisce pedissequamente al proprio cliché, dal momento che l’acqua del Susquehanna si infila non solo fra le assi del pavimento in cucina ma anche nelle fessure della personalità di ognuno, rendendo evidente la vacuità dello stereotipo – procedimento manifesto nella struttura stessa del romanzo, organizzato su un arco temporale di un’ora, tre capitoli e altrettante …scatole. L’idea di Anna infatti è quella di radunare la famiglia consegnando a ognuno dei fratelli, lei compresa, la medesima scatola di legno di cedro utilizzata durante l’infanzia; il compito però sarà all’inverso: le scatole non verrano svuotate in casa, all’arrivo, ma riempite, prima della partenza definitiva, con gli oggetti che ciascuno riterrà più opportuni. È proprio qui, nell’elenco delle cose, nel modo in cui i tre fratelli, separatamente, vagano per le stanze che hanno segnato infanzia e giovinezza (Anna guidata da luminosi spiriti invisibili; Bruno con la fretta nei nervi e l’auricolare all’orecchio, al telefono con l’amante; Geoff strascicando i piedi, anima pesante di nostalgia) – recuperando coltellini a serramanico, scialli tarmati, fumetti scoloriti, ciondoli e tappetini scendiletto, una scatola di fiammiferi, delle tazze spaiate – che si evidenzia lo scarto tra personaggio e individuo, nel risaltare della discordanza tra apparire ed essere, fra atti decisionali e ragioni sottese.

Ecco perché per me “Erosione” non possiede solo tre voci ma decine: quelle degli oggetti – umidi, ammuffiti, scoloriti, polverosi, abbandonati, inutili che improvvisamente riprendono vita fra le mani dei fratelli e nei loro ricordi.

E Margaret? Che fine ha fatto la sua, di voce? Perché l’erosione non mangia solo la sabbia delle fondamenta e le stecche delle persiane ma anche la mente, trascinando via con sé le ricette di cucina, oralità di misure e gesti irrecuperabili, le citazioni dai Vangeli, la memoria della lingua e del padre. Eppure – La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comprati lei. I fiori.

[Nota – a proposito di voci. Giovedì sera, per una coincidenza fortunata tra amici, ho incontrato Lorenza Pieri; abbiamo parlato di tante cose (figli, traslochi, scuola, mal di testa ricorrenti, il freddo di Milano) e di una questione mi sono stupita, perché è preziosa e capita poche volte: dentro a “Erosione” c’è proprio anche la sua, di voce.]