“La sola autonomia è l’incidente”

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“Il virus trasportato dalla foresta di cristallo avanza di quattrocento metri al secondo, quando dall’oscurità Sanders vede emergere una chimera abbacinante: l’uomo illuminato: con braccia e petto incandescenti passava correndo tra gli alberi, seguito da una cascata di particelle che si diffondevano nell’aria dietro di lui.”

Durante il periodo dell’internamento a Lunghua (1943-1945) JG, ragazzino, con gran frequenza si adopera per sfuggire ai controlli: esce dal campo e si perde nelle risaie, fra le carcasse dei Ki-43 mentre all’interno del centro di detenzione gli adulti, nel frattempo, “si erano prodigati per conservare consuetudini british” e “si preoccupavano del decoro, dell’ora di latino”. Shangai Jim, nello sguardo di Christian Bale, ci parla di cosa significa per JG Ballard l’essere adulti. Per tutta la vita Ballard porterà con sé il ricordo di quelle giornate e lo utilizzerà quale metodo di narrazione nel tentativo – pervicace, tormentoso, ossessivo – di raccontarci questo sistema di sguardo: dell’essere umano che decide, con pensiero autonomo e consapevole, di smettere di “piegare il mondo alla verità che non conosce”*. Non la banalità del return to innocence quanto una chiamata alla “contraddizione” e all'”ambivalenza di pensiero”, al sottrarsi dal pensare la realtà del mondo come qualcosa di definibile in base a certe categorie fisse, conosciute – sino al punto da starci così bene, lì dentro, da averne anche un po’ orrore del fuori o di dimenticarsene completamente e chi lo sa, quale di due finali sia peggio. JG Ballard chiama a una nuova forma di maturità: terrorizzato dal ricordo dei suoi connazionali che, alla notizia della liberazione, preferirono restare all’interno del campo di prigionia anziché affrontare l’ignoto del postbellico (e postcoloniale), e parimenti sconvolto dalla finzione (intendiamola proprio come fiction, la messa in scena) a cui l’adulto dell’epoca, egli stesso incluso, decideva di sottoporsi, dichiara – programmaticamente – la necessità di un uomo nuovo, illuminato. Come Edwards Sanders, il protagonista scienziato di The Crystal World che risalendo il fiume Matarre in Camerun alla ricerca di un antico amore è vittima di una misteriosa mutazione, un essere – fenomeno alieno, forse, chi lo può sapere (l’indederminatezza del distopico è d’obbligo, in Ballard) che attacca fauna e flora ricoprendola di cristalli. Jeff VanderMeer non è poi così lontano (dico con Hummingbird Salamander non con la trilogia, che è qualche passo più indietro), e nemmeno è così lontana Christiane Vadnais.

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“La vita familiare, immagina Ballard, una volta liberata dalla presenza fisica, priva dell’impegnativo, deludente scambio di emozioni, si ridurrà alla sua proiezione e condivisione video. La parentela sullo schermo mette al sicuro dall’ostilità. E la casa non è più il luogo dove torniamo perché siamo certi di essere riconosciuti: è un contenitore individuale da cui protenderci soltanto attraverso uno schermo.”

Nel 1977 JG pubblica The Intensive Care Unit, un breve racconto distopico all’interno del quale lo scrittore mette in scena la realtà di una famiglia costretta, verosimilmente per motivi sanitari legati a un qualche agente infettivo, a interagire unicamente tramite schermi e telecamere (non sfugga la consueta provocazione dell’autore, laddove identifica come “scelta patologica” la condizione descritta e come pazienti ospedalieri i protagonisti del racconto). Millenovecentosettantasette.

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“Nella nostra storia, c’è mai stato qualcosa di simile al feed?” chiede M. Neri a Kyle Chayka, giornalista del New Yorker esperto di cultura digitale, ora in libreria con Filterworld – How Algorithms Flattened Culture. “«No [risponde Chayka]. Finché ci limitiamo ai contenuti che scorrono davanti a noi su siti come Facebook o Instagram, abbiamo un’idea di cosa succeda: pensiamo a un flusso. Ma appena proviamo a intuirne identità e portata, percepiamo solo una cosa più grande, soprannaturale perché intangibile; né possiamo interloquire con le raccomandazioni scelte dagli algoritmi: questi non sono trasparenti, non possiamo metterli in discussione. Ne deriva una forma d’angoscia, quella che nasce quando dobbiamo affrontare processi tecnologici non controllabili». Da ciò, da questo rischio, JG Ballard ci aveva messo in guardia almeno sessant’anni fa, quando la televisione trasmetteva senza interruzione, scardinate da qualsiasi principio gerarchico, le immagini della guerra in Vietnam, della conquista allo spazio, del suicidio di Marylin Monroe e happy birthday mister president.

Perché Chayka si è occupato di consumi culturali? chiede Neri. «(…) è in questo settore che la nostra esperienza è più diretta e l’impatto è maggiore [risponde l’autore]. Per strani motivi non ce ne siamo accorti per troppo tempo, intanto gli algoritmi sono diventati dominanti, difficili da aggirare, troppo influenti per liberarcene (…)». Il punto è quindi comprendere perché questo rischio sia stato sottovalutato o francamente ignorato, nonostante i numerosi avvertimenti. Il problema non è tanto la «singola espressione artistica» (dice Chayka) quanto la promozione della stessa – che nel prima era frutto, evidentemente, di una serie di processi decisionali derivati da opera umana ma che ora, invece, è frutto di modelli AI rispetto ai quali l’essere umano di cui sopra ha scarso controllo e cognizione.

“Il rombo non è l’annuncio di un’apocalisse naturale o di un disastroso errore umano, ma la richiesta di non restare indifferenti al richiamo di un imprevisto che, proprio perché inclassificabile, potrebbe rivelare uno scopo, quando questo è nascosto da un contesto che disorienta attraverso ripetute imposizioni di certezza.”

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(Note. Il virgolettato del titolo e le citazioni in grassetto sono tratte da Ballardland – M. Neri, Italo Svevo ed. 2024 / Il virgolettato con * è di chi sta leggendo Ballardland con me [sempre grata]. / I virgolettati su Chayka sono estratti dal dialogo di Chayka con M. Neri [d La Repubblica]. Su La Lettura in edicola questa settimana [31/03/2024] trovate l’articolo “Sì, la Terra è davvero piatta”, intervento inedito di Chayka a proposito di alcuni temi trattati in “Filterworld”, ROI ed. 2024. / A margine: la “sorta di immane materia oscura con i prodotti culturali esclusi dagli algoritmi” di cui parla Chayka nell’intervista a M. Neri esiste già; è già fuori dai radar, continuerà a restarci – occorre saltare sulla canoa e andare a cercarla: è lì, che sta l’anomalia. Kurtz non smetterà mai di indicare la strada. / In aggiunta: non sfugge qui la questione tecnica relativa al modello AI e alla sua finalità, che deve essere identificata anteriormente al training. L’autonomia del modello esiste, il tema della potenza della AI è ben presente ma non si può trattare qui; come non si può trattare qui il tema della fidelizzazione alle piattaforme, finalità parallela e potenzialmente concorrente al consumo culturale.)

“There’s no past, no future”

Stanisław Lem in Ritorno dall’universo (1960) fa dire a uno dei personaggi qualcosa di curioso, sulle tragedie che non esistono più: “Abbiamo eliminato l’inferno delle passioni”, dice, “ora tutto è tiepido”. Ritorno dall’universo non è un’epopea fantascientifica, nemmeno distopica, ma il mezzo attraverso cui Lem vuole raccontare sia il tema del rientro del reduce sia la disillusione nei confronti della conquista spaziale – e in generale il rapporto con la tecnologia. Lo sfondo fantascientifico, di fatto, serve a Lem per raccontare il presente.

“Con La mostra delle atrocità, [JG] aveva insistito sugli effetti nevrotizzanti di un incombente paesaggio mediatico: uno scenario concepito come un territorio dominato da progetti immaginari, che impregnano, schiacciano lo spazio nevrotico, alterandone l’evoluzione. In quegli anni televisione, radio, giornali popolari, una pubblicità che è propaganda politica e dello star system valorizzano la spettacolarizzazione, la resa tecnica, così da provocare, come aveva sostenuto, la morte dell’interesse. Questa, con il tempo, si tradurrà nella sfiducia di poter esercitare una volontà sul futuro.”

JG non ha mai nascosto il fascino che i media generavano in lui e, di conseguenza, era molto ben consapevole dei rischi insiti nella fruizione. Non se ne è mai sottratto, però, preferendo la necessità/urgenza di osservare gli effetti dell’esposizione (mai intesa come sovra-esposizione, che non esiste, anzi il punto è proprio quello di andare a toccarne il fondo) rispetto all’escapismo. L’autoesclusione dai fenomeni di massa non porta, secondo JG, a una maggior coscienza – che fastidio, vero?

“«C’è un minimo di ore di tv che dovresti vedere ogni giorno», disse nel 1978 a Jon Savage di  «Search and Destroy».  «E a meno che tu non ne veda almeno tre o quattro ore al giorno, significa che stai chiudendo gli occhi davanti a uno dei principali flussi di coscienza in circolazione!».”

Il sistema-Ballard proprio per questo motivo irrita: perché non offre strumento di conforto. Nemmeno la fantascienza lo è – spiace, dice JG: lungi dal garantire un guilty pleasure da gita apocalisse zombi, biglietto di ritorno incluso, il sistema-Ballard scardina sé stesso dall’aesthetic: one-way ticket. Personaggio-simbolo è Kerans, lo scienziato di The Drowned World (1962) che contro ogni senso di raziocinio abbandona la spedizione organizzata su quella laguna radioattiva che un tempo era Londra per procedere a sud, verso il clima tropicale, primordio di un mondo nuovo, chi può sapere se davvero invivibile o meno, nell'”impossibilità di accontentarsi di una finzione inefficace” creata da chi tenta di “avocare a sé ogni cambiamento” e così facendo depriva l’essere umano del principio di scelta.

“Parlando con Lukas Barr nel 1994, puntualizzerà:  «Quando i numeri di pixel sottoposti all’occhio umano supereranno la nostra capacità di processarli, la realtà ordinaria sembrerà piuttosto squallida.»

“There’s no past, no future” lo dice JG nell’intervista inclusa in London Orbital, riferendosi all’autostrada britannica M25 (ma non solo a quella), uno dei raccordi anulari più lunghi al mondo, costruita in epoca Tatcheriana. Nel 2000 Chris Petit and Iain Sinclair girarono un docufilm sulla M25, uno degli esperimenti di analisi psicogeografica più visionari mai realizzati, e in proposito – su alienazione e meccanismi di alterazione spazio-temporale – intervistarono anche Ballard che, ovviamente, rispose a modo suo.

[TBC – grazie a chi sta leggendo Ballardland con me – di nuovo, privilegi]

Maino reload

Maino indubbiamente fa due cose: 

1) rende evidente l’ovvietà delle pulsioni che ci governano; desiderio di soldi, cibo, sesso, riconoscimento sociale, appartenenza alla comunità eccetera, e le tratta come sintomo.

2) dice che abbiamo abdicato a strutture di pensiero complesse.

Per arrivare a 1. e 2. usa: 

A) il mito, trasformando l’Alcesti, dramma (?) con focus sull’altezza del sentimento in una bieca narrazione di miseri fattucci di provincia da cui nessuno – per ora – esce bene (a parte i veri poveri ma questo è un altro punto, perché è lì che Maino appunta la critica sociale)

B) il linguaggio del tribunale: queste pochezze, dice Maino, vengono dal fatto che per chissà quali motivi (lui ne ha idea, ovvio) abbiamo abdicato a strutture di pensiero più complesse, e lo dice in più punti, esplicitamente.

“… disistimare le qualità universali della Patata DOP dei Territori della Virile Valle della Piaga, fiume che ha reso dominanti le Tre Venessie del Mondo, veniva sanzionato con il carcere a vita, l’assassinio premeditato del vicino o della sgualdrina di cupo carruggio, veniva depenalizzato in pinzillacchera(…)”

Sta lì in bilico, tra:

– il giudizio (pietosa, questa storia eh: l’omosessuale borghesotto, non dichiarato, che si innamora del gay sciupamaschi pure lui col piede un po’ di qui un po’ di là, il sesso in macchina, la figlia malcurata, la moglie che prima va a pilates e poi pensa al suicidio… ve’. ) 

“…ciò lascia intendere quale sia la durezza della giustizia superiore che non conosce le circostanze generiche né l’obbligatorietà della difesa tecnica nel processo penale sulle stelle nane, e non sconta mai niente a nessuno, Padreterno incluso.”

– la presa di coscienza che di fatto queste pochezze regolano la vita e ce ne dobbiamo fare una ragione. E’ lo sguardo di chi vorrebbe leggere la realtà con intento del comprenderla e magari far qualcosa per tirarsi fuori in senso evolutivamente migliorativo, rispetto a quello dell’avvocato, che fintanto che uno sta nei bordi della legge (per ogni punto c’è l’andare oltre e lui li descrive tutti: iva esclusa, reati sessuali, sfruttamento) beh che ci vuoi fare, l’essere umano è un coglione, sticazzi. Ma nessuna delle due opzioni lo soddisfa.

Quindi Maino usa due impianti formali, quello del mito e quello del diritto, come impalcature per la difesa, tramite cui riesce a scrivere ciò che non cessa di non scriversi.

(Ndr: Quaranta, per spiegare l’incapacità dell’esprimere a parole i meccanismi dissociativi legati alla depersonalizzazione, usa il linguaggio della psicoanalisi – che arriva alla spiegazione tecnica ma non al fenomeno – e quello del realismo magico – che riesce nell’esemplificare la gravità del fenomeno ma non riesce a dare la definizione della patologia). 

“Poi capita finalmente qualcosa di abbastanza bizzarro, i fatti che non ti aspetti, e come fa sapere il coro Monta Sualba attivissimo nella Zaponatide (richiestissimo dagli ateniesi): Sono molte le sorti che il cielo ci dà e gli dèi compiono eventi inattesi né ciò che abbiamo creduto diviene realtà ma un dio risolve cose incredibili.”

[Thanks to A. e FM, FT, MG, Sorelle Ramonda e altri ancora – sono privilegi, va detto.]

Maino on the road

Ovvero appunti a margine, nel mentre. Vengono dalle email, giri di oggetti su questa lettura condivisa – ma in realtà sono io: alzo la mano, chiedo l’aiuto da remoto©, come al solito quando su certe pagine ho bisogno di sistemare i pensieri.

“Piccola digressione, a beneficio del lettore, su cosa valga di più: lo scrittore ovvero il suo destino? L’ordito dei suoi libri o la trama della sua vita? Saper scrivere o saper vivere? Tra le tante vaccate espresse prima del ricovero, Ferrari ha potuto confermare come lui, il Della Marca, ultimamente andasse dicendo in giro d’essere scrittore30.”

30 Essere scrittore importa immediata dignità, essere avvocato conduce a sicuro stigma: una delle massime teorizzate da Alfonso Della Marca.

Narratore: nei tarocchi il matto è la carta zero, quella che spariglia le questioni: si è infilata lì e nessuno sa perché. Tant’è che è fuori dal conteggio: non appartiene al mazzo tradizionale ma nemmeno ai trionfi, ecco perché lo zero. È la carta di colui che cerca. Dice: nella nostra vita è entrata una persona un po’ ingenua ma di intuito, che può portare saggezza agli altri; oppure siamo noi, qui a scalpitare per affrontare nuove attività artistiche, qualcosa di spirituale. (A me piace guardarla come la carta del rischio, perché se si affrontano cose nuove non è detto che vada tutto bene. Sicché prende dentro, di taglio, anche la possibilità del rimorso o del rimpianto). Se a testa in giù: stiamo facendo cavolate. Come lo vede Maino il narratore, questo sistema di far dire la verità alla persona meno credibile – ndr: espediente noto, regala al matto quell’aria da saggio-svagato che tanto ha inciso sulla rappresentazione della malattia mentale. Un tranello in cui Maino non cade – “screziature psicologiche” / “Cioè secondo le valutazioni delle stimate Michela Mair di Bressanone e Barbara Bolzan di Fortelibero, una licenza media in due, più master in Sugodramma e Psicominzione all’Università di Cazzano Scuirto”.

Trama: per ora questa mi interessa, non il virtuosismo toponomastico – non è vero, che la trama non c’è o è secondaria. Ci interessa capire se il mito divora sul serio, se possiamo ritrovare nella giudice Toffoletto (che accetta di sacrificare la propria vita per salvaguardare quella del marito) il dramma di Alcesti. Ad esempio, nella questione dei pretendenti, quel mi era possibile prendere in sposo uno di loro – dei Tessali uno qualsiasi and-the-pro-mi-sestheyhold – e [avrei potuto avere pure] una casa in cui vivere (ναιω è proprio abitare, io lo vedo spesso come uno starci dentro), e vivere come tiranna, alla guisa di regina nera di vedovanza, potere e spregio, nell’intraducibile luogo protostorico del greco che sta fra la sovrana illuminata e il buio del dispotismo più cupo. E infine sui figli: lascia che restino, riconoscili padroni delle mie (εμων) stanze (lei intende: che saranno mie per sempre, anche dopo la morte, come una specie di spirito sempre presente – cioè gliele indica proprio – sono le mie, indica sia la casa dietro di lei sia se stessa – la vedi?). Insomma, c’è in Maino questo sovrapporsi di strutture logiche di significato? Per me sì, ma alla rovescia, e sta qui il punto, il rovesciare.

“Odiava il suo appartamento in villa, la megalomane Idea-Attico per talpe di nobiltà provvisoria, pacchianamente borghesizzato nonostante il tentativo tentennante d’apparire riservato e riparato.”

Personaggi: noi spettatori di Un giorno in pretura, (pure il linguaggio lo racconta), Maino preciso ci aspetta sulla riva del fiume. Dice: resto in attesa e guardo chi mi passa davanti. Gli salta all’occhio il negativo, ché punta all’effetto commedia (l’Alcesti è dramma satiresco o non si sa cosa alla fine, di certo non tragedia), tira all’eccesso ma vuole altro ecco perché si preoccupa di fermarsi lì sempre proprio al bordo di quel particolare che non scende mai nella caratterizzazione da commedia dell’arte: instillare il dubbio della colpevolezza, della Legge che tutto vede, bilancia alle spalle. Al lettore sale l’ansia dell’autoanalisi: non c’è scampo per lo sfigato che a Maino capita davanti. E se fossi io, il prossimo? Sicché cominciamo a guardarci le spalle, sempre paura che un Maino faccia capolino da dietro l’angolo. Non c’è scampo ma non c’è giudizio – quello spetterà ad altri – perché alla fine spiace, dice Maino, ma sei così, io mi limito a raccontare, questi i fatti, giudice – che ci posso fare. Qua sta il punto, nei Morticani (ndr: le tombe dei poveri guardate dalle bestie di casa, scarne e impidocchiate, in mancanza di sguatteri), cosa ha spinto il lavoro estremo sul testo: l’idea che se la critica a certo modo deve farsi feroce, ecco deve essere spiegata perfetta, perché altrimenti i lettori s’appenderanno alle sbavature, idrofobi, alla ricerca del capro espiatorio.

“Sarà anche il caso di fare alcune considerazioni politiche o di politica criminale sulla veniente circostanza: veda, dottore, mentre l’attentato all’integrità dell’Impero Chiavinmano, ad esempio, disistimare le qualità universali della Patata DOP dei Territori della Virile Valle della Piaga, fiume che ha reso dominanti le Tre Venessie del Mondo, veniva sanzionato con il carcere a vita, l’assassinio premeditato del vicino o della sgualdrina di cuoi carruggio, veniva depenalizzato in pinzillacchera, (…)”

[To be continued]

Notizie da bordo piscina/3. Dalla casalinga disperata alla tradwife: storia di un fenomeno (parte terza)

Foto di Elana Selvig su Unsplash

Click qui per la prima parte dell’approfondimento, qui per la seconda.

La vita di ogni giorno

Le tradwife non parlano di politica e si tengono ben lontane dai fatti di attualità; perfino le questioni femministe, pur così centrali nella teoria-tradwife, restano spesso in sospeso: all’attivismo si preferisce il racconto della vita quotidiana, sottintesa migliore rispetto alla precedente. In realtà è la presenza on line a essere centellinata, perché la tradwife ha, per definizione, poco tempo da perdere/da spendere attaccata al telefono (1). Sono inoltre esclusi dalla narrazione argomenti sensibili come per esempio l’aborto, dal momento che le tradwife si dichiarano per la maggior parte credenti e praticanti, e la medicina (2). Anche per quanto riguarda le questioni economiche l’approccio è vario, per certi versi ambiguo: se da una parte si esaltano valori quali sobrietà e morigeratezza nell’ottica di una visione anticapitalistica e di salvaguardia ecologica, dall’altra è innegabile che la vita quotidiana delle tradwife sia determinata, per una certa percentuale, dalla disponibilità economica in essere. In sostanza, il messaggio che il movimento tradwife sembra voler trasmettere appare per certi versi vicino a un ripiegamento più che alla dichiarazione di intenti vòlta al proselitismo.

(Nota per gli interessati: 1. attenzione a non confondere il movimento tradwife con il fenomeno delle #stayathomegirlfriend, ossia di quelle fidanzate/mogli che nella lingua vecchia potremmo definire… “mantenute”; trend (più Tiktok, meno Instagram) che coinvolge un ambito sociale differente, ad esempio le donne di cultura islamica con elevatissima disponibilità economica. (2) Alcune si dichiarano affette da qualche patologia (“chronic illness”) e dicono di essere “seguite dal medico giusto”, ma difficilmente si entra nel dettaglio a parte il reel-narrazione del quotidiano in cui la protagonista, appena sveglia, si preoccupa di prendere i propri “supplements” (non ben identificati integratori).

Orsacchiotti in camicia nera

Nel 2018 (1) Annie Kelly, all’epoca studentessa Ph.D. con focus sulle subculture digitali in relazione ai fenomeni di antifemminismo, dalle colonne domenicali del NYTimes mette a tema l’analisi un certo movimento sociale la cui diffusione sul web, non disgiunta da un indubbio aesthetical appeal, correrebbe il rischio di appoggiare/promuovere oltre che comportamenti sessisti e di abuso domestico anche ideologie di estrema destra. Per dar corpo a questa tesi, Kelly si basa sui dati di affiliazione ai movimenti politici conservatori la cui presenza femminile sta registrando da qualche anno un tasso di crescita che, seppure di dimensioni modeste, è saltato all’occhio agli addetti ai lavori (2). Questa tendenza positiva, osserva Kelly, è rappresentata per la maggior parte da donne che incarnano con orgoglio il valore di una specifica tipologia di famiglia tradizionale (3). Se da una parte Kelly non si dice stupita riguardo a quella che di fatto è una mera tecnica di marketing dall’altra dichiara la necessità di comprendere quali siano i motivi di insoddisfazione verso alcuni aspetti della vita moderna alla base del movimento tradwife (4) e perché questo tipo di subcultura finisca per… virare a destra.

Qui si apre, inutile nasconderlo, il vaso di Pandora.

(Note per gli interessati: 1. Siamo nel 2018: elezioni USA concluse, Era Trumpiana Uno in pieno svolgimento . Dati gli ultimi, recentissimi exit pools, non è scontato che non si arrivi a una… Fase Due. 2. La percentuale di donne presenti all’interno di questo tipo di associazioni è da sempre minima, sfavorita da usi e costumi (linguaggio violento, ambiente for boys only, atteggiamenti squadristi ecc). (3) I valori tradizionali comprendono, ad esempio, l’esaltazione dell’atto procreativo il cui esito è usualmente una nidiata di figli bianchi & devoti alla bandiera. La rappresentazione morbida, materna e iperfemminista e delle donne, inoltre, – per certi versi studiata a tavolino – va a costituirsi quale contraltare alla rudezza intrinseca dei movimenti di estrema destra: “The deliberately hyperfeminine aesthetics are constructed precisely to mask the authoritarianism of their ideology”. 4. Alla base di ogni movimento di massa c’è sempre il desiderio di rompere uno status quo considerato di svantaggio, finanche ingiusto e prevaricatore.

Foto di Brooke Lark su Unsplash

Tradimenti – betrayed

Dice Kelly: in un momento in cui per i giovani sta diventando sempre più difficile costruirsi un futuro professionale solido, il vagheggiamento di un’età passata in cui un lavoro dignitoso, con orario fisso e contratto long-term, era più che sufficiente a sostenere la famiglia intera, sfizi compresi, “non è una questione di genere”. Tanto ai maschi quanto alle femmine (certo, per le donne sussistono aggravanti non da poco; ci arriveremo) vengono offerte opportunità lavorative spesso povere dal punto di vista di salario/contenuto, insalubri, temporanee, che abbisognano di un allontanamento fisico dalla terra di origine e dalla propria famiglia a cui segue spesso il peggioramento delle condizioni materiali e anche, talvolta, di quelle psicofisiche (1).

In questo modo il mito della famiglia felice e radicata sul territorio, che vive di mestieri non per forza illustri (2) ma solidi e longevi – parlo di mito perché, pur trattandosi di fatti realmente accaduti, la narrazione di fatto viene a-storicizzata e decontestualizzata – torna vivo nell’immaginario di giovani adulti che, dopo la bulimia della città che non dorme mai, della dura gavetta e della tanto agognata carriera, si ritrovano molto più vicini ai valori famigliari dei loro genitori che a quelli dei protagonisti di “Friends” (3).

Tornando alla condizione femminile, sarebbe ridondante approfondire questioni come il salary gender gap e le infinite varianti di vessazioni che le donne devono subire sul lavoro. D’altra parte, dice Kelly, non è da sottovalutare neppure la percezione dei maschi nei riguardi di certa narrazione mainstream che spinge a lasciare indietro chi, fra loro, non corrisponde a precisi canoni di genere all’interno dei quali paradossalmente l’oggettivazione della donna è di fatto ancora viva e vegeta (4). Non poche donne, infine, si percepiscono “betrayed” da un femminismo third-wave che da una parte invita a crescere le proprie figlie come “del tutto indipendenti dagli uomini” (5) ma dall’altra pare aver mancato di proteggere le donne dalla pervasività maschile (6).

La sottocultura tradwife punta il dito contro la modernità come causa ultima di questo imbroglio e in cambio offre come soluzione al problema (“escape” dice Kelly) uno stile di vita improntato sui valori della morigeratezza, del matrimonio religioso e della maternità.

Il problema è che l’escapismo… bisogna poterselo permettere.

(Nota per gli interessati: 1. Negli USA, la percentuale di giovani adulti ancora residenti in casa con i genitori ha toccato il 52% nel 2020. Questo valore è il più alto nei 120 anni recensiti e l’unico superiore al 50%. Il Covid ha sicuramente influenzato il risultato ma le testimonianze puntano a considerare questa variazione come un trend in diminuzione dalle cause multifattoriali, tra cui esborso economico insostenibile, senso di solitudine, lontananza dagli affetti, carenza di opportunità lavorative stabili. Le tradwives insistono sull’inapplicabilità e sull’obsolescenza del modello “Carrie Breadshow”: la ragazza in carriera che rientra in appartamento solo per dormire – ragnatele in bagno e pittura scrostata – ha il frigo perennemente vuoto, si nutre di piatti pronti al bar e macina una serie infinita di relazioni che non la lasciano mai sazia ha terminato di generale quell’appeal di cui tante giovani donne si erano cibate sino a un decennio fa. 2. Malgrado la narrazione mainstream del Campus come luogo privilegiato per la crescita personale e l’affermazione professionale, l’istruzione secondaria statunitense non sembra godere di buona salute: le fonti raccontano di un calo di iscritti al College pari al 38% nel 2021. La rinuncia agli studi superiori è cavallo di battaglia di alcune delle tradwife influencer più quotate, che dichiarano espressamente di aver abbandonato il College dopo essersi rese conto che non avrebbero mai voluto/potuto portare avanti la professione per la quale si stavano preparando, vuoi per difficoltà economiche, vuoi per gender gap o riduzione dell’offerta, vuoi per mutata scelta personale. Altre influencer più giovani dichiarano di non essere nemmeno interessate alla laurea, poiché non utile ai fini del progetto di vita che stanno perseguendo. 3. In USA, corporations e aziende più quotate si avvalgono da decenni di robuste politiche basate sulla diversity – l’impegno a creare un ambiente professionale costituito da una forza lavoro composta da individui provenienti da vari sistemi culturali e di origini geografiche differenti. Kelly inserisce le politiche aziendali di diversity fra le motivazioni del malcontento di cui sopra, poiché di fatto hanno ridotto il numero di opportunità professionali a disposizione degli americani – o almeno questa è la percezione di una fetta di popolazione. Ormai insomma s’è capito: la carta della flessibilità è la tremendous opportunity di chi ci propone il precariato a vita. 4. Da “Working girl” [1988], la storia della segretaria di Staten Island – Melanie Griffith – che grazie al proprio genio e alle proprie capacità scavalca la referente [una incarrierata e presissima Sigourney Weaver] scalando le vette della società di brokers presso cui lavora [storia d’amore inclusa con uno dei soci, interpretato da Harrison Ford] fino a “The Secret of My Success” [1987], in cui il neolaureato Michael J. Fox, assunto come fattorino nella società assicurativa di un parente, grazie alla propria intraprendenza e conoscenza della materia salva la ditta dalla bancarotta, è tutta una celebrazione dell’atavico mito del self-made men, il giovane americano che facendo affidamento unicamente su se stesso riesce ad affermarsi nel mondo, crescita esponenziale del conto in banca inclusa. 5. Uno dei punti che il movimento tradwife più spesso sottolinea è la necessità di normalizzare il bisogno del maschio: non si fa riferimento alla soddisfazione sessuale ma a una generale necessità intima, potremmo dire di completamento emotivo, che le tradwives invitano a tornare a considerare come naturale e fisiologico. 6. Si vedano dati/notizie sulle molestie sul lavoro oppure le recenti problematiche sorte dalla presenza transgender in ambiti che nel tempo e con tante lotte e sacrifici si era faticosamente riuscite a rendere ad accesso esclusivamente femminile.

Foto di Annie Spratt su Unsplash

Soldi soldi soldi tanti soldi

Un contributo del 2023 su USA Today a firma Elizabeth Grace Matthew si impegna a confutare in maniera precisa le cause storiche che il movimento tradwife porta a giustificazione paradigmatica della scelta homesteader (1). Per il movimento, la ricollocazione indoor della moglie, che di fatto si impegna a trascorrere la maggior parte del proprio tempo all’interno dell’abitazione nella cura di casa, alimentazione e prole (2), è corretta e auspicabile perché recupera la natura stessa della donna che – in una sorta di universale convergenza evolutiva – da sempre e in ogni dove avrebbe spontaneamente ricoperto il ruolo di domesticity and child-rearing.

Niente di più falso e ahistorical, dice Matthew (che è madre di quattro figli e si definisce una moglie tradizionale ndr), perché il contributo alla produzione economica da parte delle donne è una costante che attraversa epoche e culture diverse, almeno fino alla rivoluzione industriale (3) ossia fino al momento in cui le donne bianche appartenenti alla middle- and upper-class cominciarono ad auto-escludersi dal mondo produttivo.

“L’idea che il posto di una donna sia sempre in casa è fuori portata per tutti, tranne che per un piccolo gruppo di élite ricche e prevalentemente bianche” (4) perché “nel frattempo le donne nere, le donne immigrate irlandesi e le donne bianche più povere senza la sicurezza finanziaria per concentrare la loro attenzione esclusivamente sulla casa furono escluse da questa nuova definizione di femminilità”. Poiché una donna che lavora fuori casa ed è per di più in possesso del breadwinning status (5) non è per definizione meno materna di una casalinga, chiosa Matthew, è evidente che il movimento tradwife non faccia nient’altro se non “pigeonhole-[ing] our cultural conceptions of manhood and womanhood”, espressione che mi ha sempre incuriosita moltissimo e che potremmo neolinguisticamente tradurre come: “rafforzare, incasellandoli, i ruoli di genere maschio/femmina”.

(Note per gli interessati: 1. Con “homesteader” si indica, letteralmente, una famiglia di coloni, coloro che coltivano la propria terra. 2. “A woman’s place is always in the home”. 3. Quando nelle società occidentali il lavoro, dice Matthew, si trasferì alla fabbrica dai campi – nei quali le donne sono sempre state impegnate al pari dei maschi, con mansioni che certo tenessero conto, ad esempio, di gravidanza e puerperio ma non meno impegnative/fondamentali – le famiglie operaie passarono da un’economia di sussistenza a un’entrata a salario fisso: in questo modo quelle mogli i cui mariti guadagnavano a sufficienza per sostenere il proprio nucleo familiare cominciarono a “ladyhood-izzarsi”: l’auto-esclusione dal mondo del lavoro diventa così espressione di distinzione sociale, a imitazione delle donne delle classi abbienti e aristocratiche, che la catena di montaggio l’hanno vista sempre e solo in fotografia o quando accompagnavano in fabbrica il coniuge-padrone per il giro di auguri natalizi agli operai – ma che nemmeno hanno mai preso la mano sulle attività domestiche: ce le vedete Elizabeth Bennet o Rose DeWitt Bukater rifarsi il letto da sole, alla mattina? Appunto. 4. “Old-fashioned and non viable model” fa notare Matthew. 4. Le statistiche dicono che in USA il 16% delle donne sposate [analisi su matrimoni “opposite-sex”, cioè fra eterosessuali] detiene lo status di breadwinning – ossia guadagna più del compagno; il 29% guadagna una cifra pari.

Carrie Bradshaw e Olivia Pope: l’inganno dei fictional characters

Non è un caso che il movimento tradwife, nato fra la popolazione femminile bianca della Bible belt, stia prendendo piede fra le donne afroamericane. Malgrado alcune differenze terminologiche e di concetto (1) sembra che la scelta di aderire al movimento dipenda dal desiderio delle donne afroamericane di “ritirarsi dalle pressioni professionali”, dopo decenni di trattamenti iniqui ricevuti sul luogo di lavoro (2). Anche nella narrazione black torna con frequenza il tema del tradimento (“scammed”) da parte dell’attivismo femminista, nella proposizione di una donna emancipata, altamente scolarizzata, economicamente autonoma che avrebbe fatto la differenza. Nel caso delle donne afroamericane, la virata verso il movimento tradwife identifica sì un ripiegamento ma anche un momento di critica profonda nei confronti del white feminism (3). Abbracciare temi tradwife definisce quindi l’intento, in certi contesti chiaramente esplicitato, di riappropriarsi di una dimensione di femminilità personale e familiare, comprensiva anche dello stare in casa ad occuparsi dei propri figli e del proprio marito, di cui le donne afroamericane sono state defraudate di fatto e da sempre.

(Note per gli interessati: 1. il movimento delle black tradwives preferisce il tag #blackhousewife e tende ad esaltare l’aspetto biblico del matrimonio rispetto alla visione tradizionale. (2) Vale la pena ricordare, così en passant, che in certi periodi della storia americana alle donne nere era stato fatto perfino divieto di restare a casa […si lamentava la penuria di cuoche, cameriere, domestiche, lavapiatti…]. L’alto tasso di incarcerazione/morte violenta dei maschi afroamericani ha fatto in modo che le donne assumessero su di sé anche il ruolo maschile sia da nubili sia da mogli e madri, negandosi così una parte importante della propria dimensione femminile e che le madri afroamericane, in percentuale maggiore accompagnate da più di un partner nell’arco della vita dato quanto sopra, fossero esposte a fenomeni di critica collettiva nei riguardi della loro presunta amoralità.)

Conclusioni (più o meno)

“Quelli di noi che apprezzano la famiglia con due genitori dovrebbero investire nell’ampliare il suo fascino, non fare il contrario accreditando un ideale di esclusione per vantaggi immeritati e poco pratici”, chiosa Matthew in conclusione al suo approfondimento, sottolineando di come il ripiegamento di fronte a una difficoltà socio-economica collettiva sia meccanismo ormai noto e studiato dalla sociologia che ha ampiamente dimostrato come esso non porti ad alcun mutamento delle condizioni di partenza, anzi. D’altra parte, rimbalza Kelly, non è che le donne percepiscano come realmente emancipata la loro vita da bossy girls, fra difficoltà economiche, mobbing e sessismo sul lavoro, solitudine e una struttura che di fatto rende il worklife balance più vicino al mito che a un diritto che si pensava ormai acquisito.

La riflessione – individuale, collettiva, nella vita reale e sui social – è quindi apertissima.

“Whenever someone is selling you aspiration, I think alarms should be going off saying ‘I should be consuming this with a critical eye.” (Nylah Burton)

I temi sono molti e certo non possono esaurirsi su un blog. Ho pensato potesse essere utile sistemare tutto qui perché è il mio spazio, quello che uso per riordinare le idee. Spero possa essere utile anche ad altri, nel modo che ho avuto di presentare la questione. Grazie per essere arrivati fino a qui. Alla prossima.

“La sindrome di Ræbenson”, di Giuseppe Quaranta

Durante una cena a casa di amici, nel chiarore lunare che rischiara le cupole della città eterna mentre l’odore dell’antizanzare si sparge in terrazza, il quarantenne psichiatra Antonio Deltito è preso da un grande spavento: all’improvviso si rende conto di non rammentare la presenza stessa del collega Berra, congedatosi in anticipo dalla tavolata perché vittima di uno sfogo di pianto dovuto al divorzio appena ratificato. La figura stazzonata del Berra, sul quale gli amici stanno spettegolando, gli si è come cancellata dal ricordo. A questa repentina amnesia seguono confusione mentale e tremori; nella notte si aggiunge l’emicrania, che necessita del pronto soccorso. Attacco di panico, sentenziano i medici. Eppure, all’atterrito Deltito sorge il sospetto – dopotutto è medico – che la questione non sia derubricabile a certe forme cliniche. La serie di analisi a cui ossessivamente comincia a sottoporsi non rivela tuttavia alcuna patologia fisica, eccetto una lieve disfunzione alla vista e uno stato generale di stress acuito dalle pratiche compulsive che Deltito mette in atto al fine di prevenire nuovi attacchi.

“Ebbe la sensazione che qualcosa di molto importante fosse successo nella sua vita senza che lui ne avesse più memoria, e che le pareti la stessero per sussurrare. (…) Ricordare qualcosa che forse non aveva mai vissuto: era mai stato formulato un paradosso più assurdo di quello?”

Come stabilire, con quali strumenti misurare la circonferenza della propria sanità mentale?” chiede Deltito al migliore amico, compagno di studi universitari, anch’egli psichiatra di reparto – ovvero il narratore senza nome che per quasi trent’anni continuerà a indagare l’insieme di sintomi che a cadenza via via più stretta e invalidante affliggeranno il collega per tutto il resto della vita e sino alla morte, che per Deltito arriverà nella forma del suicidio. Sintomi riconducibili alla misteriosa Sindrome di Ræbenson di cui Deltito stesso, in conclamata autodiagnosi, a un certo punto dichiara di essere sicura vittima.

“Io ho sempre avuto l’impressione, in quei momenti di sconvolgimento dei sensi, che qualcosa di fortemente malvagio lo stesse attraversando, come una spada.”

La caratteristica principale di questa fantomatica affezione è la perdita del ricordo, la cui consapevolezza arriva naturalmente a cose fatte. Immaginiamo cosa significhi renderci conto di aver dimenticato intere fette della nostra vita, dall’amico d’infanzia a un importante traguardo professionale, fino alla cancellazione totale degli anni trascorsi insieme a un’amatissima fidanzata. Queste prese di coscienza portano Deltito a un progressivo sgretolamento mentale e fisico ([come se] “lo scompiglio creato da un disordine mentale fosse solo il capriccio di un bambino che mette a soqquadro una stanza, e non un terremoto che lascia crepe nei muri, pavimenti vacillanti e detriti”) sia per la violenza dirompente degli attacchi sia perché nessun piano terapeutico, dalle medicine all’elettroshock, pare in grado di risolvere la questione. Amnesia dissociativa, “brain fog, stato di assenza”, demenza precoce, epilessia, disturbo dell’attenzione con iperattività: per il Deltito vengono tirate in causa le ipotesi più pertinenti, anche sulla base di alcuni episodi giovanili riconducibili a disturbi di questo genere e per una certa allure svagata di cui Deltito non ha mai fatto mistero. L’eziologia della sindrome di fatto però resiste: pare che la malattia ne escogiti sempre una nuova per scappar via dalla propria definizione. Deltito perde il lavoro, i contatti con il mondo professionale, gli amici; anche la relazione con la compagna Delia comincia a scricchiolare: la fragilità mentale – a cui Quaranta non si permette di concedere il guilty pleasure d’una stranezza affascinante – distrugge non solo chi ne soffre ma anche chi le gravita intorno. (1)

“Tutti concepiscono a un certo punto dei loro giorni che se c’è qualcosa che rende vivi è sentire di avere dei ricordi che sono propri e di nessun altro. Pensiamo che il tempo passerà e lo farà all’infinito, ma nulla toccherà quei ricordi, niente li violerà. Noi resteremo una traccia, per quanto flebile, irripetibile.”

Durante gli attacchi, Deltito sperimenta gravissime manifestazioni dissociative, il cui carattere depersonalizzante (l’uscire da sé) diventa, nell’economia del romanzo, il filo rosso a legare i temi sui quali Quaranta intende ragionare. “La sindrome di Raebenson” infatti gioca su due livelli paralleli, lavorati separatamente sia sulla trama sia nella forma. Da una parte, si tratta di un romanzo di ricerca all’interno del quale il protagonista, il narratore senza nome, racconta della propria vita professionale spesa – fra visite, convegni, papers, conferenze tra colleghi – a documentare lo stato clinico dell’amico e nell’analisi della sindrome; dall’altra, ci troviamo di fronte a una narrazione a scatole cinesi in cui il protagonista stesso si trova a indagare una serie di flashback temporali relativi alla vita e alle memorie non solo dell’amico ma anche di tutti coloro – familiari, colleghi, amici, compagne – che della vita di Deltito hanno fatto parte.

“E io stia sicuro che, se avessi il minimo dubbio di scrivere a un fantasma, userei tutte le accortezze del caso. Le ombre che ci hanno preceduto meritano che si usi con loro il massimo rispetto.”

“La realtà aveva un frastuono che la notte e i sogni mal sopportavano.”

Al primo livello si accompagna uno stile narrativo pulito, che accarezzando con un’ironia misurata, mai fuori luogo, la forma del saggio accademico lascia trasparire competenza professionale e conoscenza del contesto, pur senza scivolare nei tecnicismi. Qui si innesta la riflessione che mi pare più significativa per Quaranta: mettere a tema l’incapacità di accedere alla piena conoscenza di un fenomeno, nel caso in cui il sistema di indagine dipenda esclusivamente da un metodo a classificazione.

L’analisi sulla sindrome di Deltito ne è esempio paradigmatico – e provocatorio: in psichiatria il tema della diagnosi, difatti, è di grande rilevanza e complessità, poiché dipende per tanta percentuale da ciò che il paziente è in grado di comunicare di sé e del suo disturbo; è concreta la possibilità che la diagnosi, pur corretta e utile a dare un nome al proprio disagio, sia di fatto insufficiente (perché limitata ai sintomi classificati) a rendere totale evidenza della dolorosa fragilità esperita da molti pazienti, come concreto il rischio che per varie motivazioni lo specialista operi pericolose inversioni di metodo.

Ad ampliare il senso di straniamento c’è il divertissement di Quaranta, che a suffragio delle tesi esposte dal narratore senza nome produce una serie di documenti bio-iconografici in una voluta e caleidoscopica mescolanza fra testi, scatti fotografici realmente esistenti ma re-interpretati (quanto è facile talvolta far dire a uno scritto unicamente quello che si vuole che dica!), scampoli di conversazioni estrapolate e manipolate.

“La realtà aveva un frastuono che la notte e i sogni mal sopportavano.”

Al secondo livello corre parallelo il viaggio di tenebra conradiana che il narratore senza nome compie all’interno della memoria dell’amico. Nutrendosi di ricchi riferimenti letterari l’autore costruisce una propria cornice di conforto formale, a metà strada fra romanzo gotico, thriller psicologico e realismo magico (suggestive le pagine sul viaggio a Taranto, per esempio) all’interno della quale il narratore senza nome si muove fisicamente alla ricerca delle origini della sindrome, per le parti che appaiono legate a questioni genetiche. In una serie sempre più articolata di matrioske, i capitoli scivolano l’uno dentro l’altro nel recupero delle testimonianze familiari, fra racconti di prima mano e aneddoti di bisnonni centenari, anomalie scheletriche, gravidanze gemellari, sparizioni improvvise, gesti anticonservativi e terrori di complotto.

“Ho avuto come la sensazione di essere un aereo che decolla e rimane a pochi metri dal suolo. Ho iniziato a immaginare i rettangoli degli appezzamenti di terreno che si vedono dagli oblò, solo che tutto rimaneva così poco distante. Non c’era decollo, non c’era volo. A un certo punto, anziché vedere attorno a me i colori brillare nel pulviscolo, o le immagini impreziosirsi di riflessi argentei, ho cominciato a percepire in maniera più densa, non so come esprimerla, l’oscurità della notte dietro le cortine. Mi è sembrato di vedere, se non suona troppo paradossale come espressione, l’oscurità, quel buio visibile (a darkness visible) di cui ha parlato Milton. E’ stato come concepire il vuoto.”

“Cos’è, dunque, mi sono chiesto, la sindrome di Ræbenson, è davvero un’epifania demoniaca? Una torre oscura e una prigione del dolore senza fine? O è, piuttosto, la maschera per celare una menzogna, un sistema per occultare una verità ai limiti del terrore?”

La sindrome di Raebenson possiede infatti altre due caratteristiche: sembra donare a chi ne soffre una longevità inconsueta – tanto da sfiorare l’immortalità (2), nonostante le terribili sofferenze fisiche che questo progressivo decadimento produce, e pare oggetto di studio di una setta di scienziati maledetti, i Ræbensonologi, che impiegano ogni sforzo nel tentativo di rintracciare e studiare chi è affetto dal male e che, per qualche oscuro motivo che qui non si può anticipare, non hanno intenzione di rendere pubblici i risultati delle ricerche. E’ Deltito stesso a rivelare all’amico – confessione che al principio viene derubricata a delirio maniacale, come ovvio – di sentirsi braccato da alcuni di questi studiosi.

Nel momento in cui il narratore senza nome riuscirà nel compito di assegnare alla sindrome di Raebenson una propria definizione, e quindi a renderla reale, inserendola all’interno del DSM-7 – aggiornata e distopica versione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders – ecco allora l’umanità si troverà nella condizione di avere a che fare con un sé inedito – forse davvero altro.

“La maschera che indossiamo è la scelta della nostra rappresentazione agli occhi del mondo. Forse la vecchiaia, con il suo corteo di corruzione, non è altro che questo lento calare del velo, dell’immagine fittizia che siamo soliti portare.”

Note a margine: (1) all’inizio del libro pensavo che la sindrome fosse un tentativo a giustificazione di certe fragilità mentali ancora insolute o dal quadro complesso – come un pensiero consolatorio; solo poi ho capito che di mezzo c’era l’idea dell’accettare l’inspiegabile, dello sforzo per arrivare a toccare certi punti che però restano comunque sospesi, per quanta fatica e struggimento si impieghino; una lotta titanica d’equilibrio fra l’assumersi l’obiettivo di tirar fuori senso, soluzioni e cure ed educarsi all’osservare, come un tirarsi indietro, prender distanza – senza abbandonare. (2) Credo che la riflessione dell’autore non sia tanto sul modo in cui parlare di salute mentale (al limite, sulla sua definizione) quanto su temi filosofici dell’identità, a cui si aggiungono i pensieri  sull’invecchiamento. E’ questo in realtà secondo me il tema che forse ha più affascinato l’autore, su cui rivela tratti di una particolare tenerezza e compassione: cosa accade quando l’essere umano smette di crescere e comincia a modificarsi, una trasformazione che agli occhi appare come un ripiegamento (tornare bambino, retrocedere in sé, chiudersi al mondo tramite la sospensione dei sensi e l’immobilità fisica) ma che, in un’ipotesi suggestiva quanto misteriosa, potrebbe definirsi come la preparazione a un salto ulteriore, che esiste già ma che ancora non siamo in grado né di vedere né di spiegarci. Ps. “La sindrome di Raebenson” va letto con impegno, di notte, tutto in fila.

“L’immortalità, ma chi potrebbe mai volerla? Il solo pensiero di non morire in tutto e per tutto, corpo e anima, mi farebbe impazzire. Che io continui a essere qui mentre tutto il resto passa. È una cosa che proprio mi annienta.”

Notizie da bordo piscina/2. Dalla casalinga disperata alla tradwife: storia di un fenomeno (parte due)

Trovate qui la prima parte di questo fantastico excursus!

Una mucca per il congelatore

Nel reel apparso ieri sulla timeline di Instagram, la mia tradwife preferita è ripresa mentre maneggia una pagnottella di lievito madre e farine con una destrezza che neanche la nostra prozia di Aci Castello. L’inquadratura, di taglio professionale, la vede al bancone della cucina – legno grezzo, luce naturale dalla finestra – e mette in evidenza l’outfitas a 22 years old housewife: maniche rimboccate ai gomiti, apron a rouches rosa antico, gonna lunga con balze, foularino ai capelli. Al filmato si accompagna una colonna sonora peaceful orchestra e in sovrimpressione scorre il breve testo: Save for what we value” (“Risparmia per ciò che vale!”), seguìto da un elenco di punti tra cui spese sanitarie, pneumatici per l’automobile e “a cow for the freezer”.

Un altro video recente la presentava assediata da pentoloni di marmellate fumanti, abilissima esperta del Lid-vacuum (la macchina per il sottovuoto); in un altro filmato la si vede separare dalla panna il latte appena ritirato presso il fattore. Nella didascalia: “Pov: you eat seasonally, source locally, grow your own & preserve as much as you can” (“Punto di vista: mangi secondo stagione, usufruisci di risorse locali, coltiva il tuo [necessario] e metti da parte quanto più possibile”).

Acqua potabile

In USA, terra di gente che in media cambia città di residenza 11.7 volte nel corso della vita, con un tasso di permanenza che raramente supera i cinque anni, è consolidata abitudine consultare i website di ranking (“classifiche”) per verificare che nel luogo in cui ci si intende trasferire i parametri di interesse corrispondano alle proprie necessità. La reportistica è varia e accanto ai temi più quotati, relativi alla dimensione professionale, compaiono anche sezioni dedicate all’analisi ambientale, con indicazione dei luoghi nei quali è più agevole e garantito l’accesso a un’alimentazione sana e “local (chilometro zero) e a fonti di acqua potabile verificate; a ciò si aggiungono, infine, i dati sulla disponibilità di offerta in fatto di vita comunitaria, laica o religiosa.

(Nota per gli interessati: le statistiche di argomento professionale vertono sulla verifica delle opportunità di carriera e dei tassi di disoccupazione, su costi e disponibilità degli immobili, in vendita o locazione, e sulle modalità del commuting [tempi e modi del tragitto casa-lavoro]. Molto consultate anche le stats sulla presenza di microcriminalità e sul tasso medio di istruzione locale. Last but not least: per le statistiche relative alla potabilità dell’acqua, “Drinking Water Violation Rate” è la dicitura specifica: tutto un programma, vero?)

Numeri alla mano, si capisce che per gli americani sapere cosa c’è di preciso nel liquido che esce dal rubinetto o cosa sia davvero finito dentro alla famigerata cheesburger soup servita avant’ieri per cena non siano questioni derubricabili a una fissa da viziati hippie primomondisti. Le ragioni vanno cercate nella scarsa fiducia del consumatore statunitense verso il comparto alimentare, che per quadri normativi non sempre trasparenti e conclamate vicende giudiziarie risulta spesso ormai inaffidabile dal punto di vista della qualità sanitaria dei prodotti. Questo nuova consapevolezza coinvolge sempre più individui, spingendo le comunità locali a riformulare il modello di approvvigionamento: ove possibile si tende a virare su microimpresa domestica a chilometro zero, consumo secondo stagione, agricoltura organic indipendente dal biologico in scala (che ha prezzi inaccessibili). La produzione homemade su terreni controllati e materie prime verificate è passata da alternativa cozy a improrogabile necessità, non priva di una certa ossessione; ma, come si vede, gli americani hanno i loro buoni motivi.

(Note per gli interessati: L’offerta di testi che raccontano i disastri ambientali statunitensi è ampia e variegata e va dalla realistic fiction alla saggistica divulgativa. Su Goodreads, al tag “environment” sono associati, ad esempio, il romanzo “L’America sottosopra” di Jennifer Haigh [2018, Bollati Boringhieri] che affronta attraverso personaggi di finzione le drammatiche vicende di una certa parte rurale della Pennsylvania sottoposta alle attività estrattive per mezzo della tecnica del fracking, o le opere narrative-non-fiction di Elizabeth Kolbert e Naomi Klein).

Foto di Rob Wicks su Unsplash

One-income tradfamily

Non deve quindi destare stupore che il movimento tradwives dedichi tanto spazio agli argomenti relativi all’alimentazione. Per mezzo di video a estetica variamente romanticizzata (“homemade meals aesthetic”), le nuove casalinghe tuttavia celebrano – o giustificano, a seconda di come si voglia vedere la questione – il ritorno alla tradizione del cibo fatto in casa quale strumento di valore per ottenere non solo salubrità del prodotto/salvaguardia ecologica ma anche un consistente risparmio di denaro (sfruttando anche lo scambio comunitario di baratto/vendita solidale) e, ultimo ma non ultimo, per riappropriarsi della propria dimensione femminile.

Lo stile utilizzato per raccontare la scelta di vita che si basa su un reddito solo – che Ça va sans dire corrisponde all’entrata procurata dal maschio di casa – è su per giù quello del “SI PUO’ FARE” di Brooks-eniana memoria e le modalità con cui far fronte all’indiscutibile complessità del tema convergono sui concetti chiave della sobrietà, della rinuncia consapevole a beni definiti voluttuari e dei vantaggi che ne derivano (diminuzione dello stress legato a orari e responsabilità, possibilità di gestire meglio casa e famiglia, evitando la delega – donne delle pulizie, tintoria, spesa on line, babysitter, giornata scolastica lunga 12 ore ecc.). Sui social la descrizione delle pratiche saving si limita per necessità a qualche accenno ma niente paura: per una cifra solitamente inferiore ai 50 dollari, 40% off nel Black Friday, è spesso possibile acquistare l’ebook “Our affordable life as a one-income basic family” (titolo che invento, giusto per non tirare in ballo nessuno in particolare), una guida rapida e accessibile che tramite tips and tricks basati sull’esperienza pratica aiuterà chi lo desidera a “tagliare le spese e gestire il denaro in maniera più saggia”, definendo le proprie priorità e costruendo piani di risparmio.

(Note per gli interessati: la struttura organizzativa di questi testi è più o meno univoca. Si parte da un capitolo introduttivo sul “da dove cominciare”, dedicato a chi sente la necessità di un cambio di passo/nuovo modello di vita, per poi scendere nel dettaglio dell’analisi delle priorità. Interessante il punto sull’autocoscienza: quasi mai compaiono elenchi di spese dichiarate inutili a priori; è presente piuttosto un generale invito alla riflessione – “la verità è già dentro di noi” – sui temi del capitalismo, della teoria della creazione del bisogno sempre insoddisfatto e della scelta consapevole e che si auto-limita. A seguire di solito i capitoli più tecnici, con tabelle e conteggi, e alcuni compendi sull’utilizzo di prodotti alternativi e più economici per la gestione della quotidianità, dalla spesa ai detersivi, dai vestiti al parrucchiere. Accanto a osservazioni e piani di risparmio interessanti convivono suggerimenti che a prima vista ci possono apparire francamente banali del tipo “non usare la carta di credito se sai di avere il conto in rosso”: se però confrontiamo questa osservazione con gli ultimi dati usciti per FED New York – che dichiara per il secondo trimestre 2023 un debito USA  di 1.000 miliardi USD sulle carte di credito e un tasso di morosità superiore a quello degli 11 anni precedenti – si capisce come la questione sia concreta ed emergenziale.)

Sottomessa al marito

Il movimento tradwives insomma celebra abitudini nuove pescando a piene mani nella sedicente convergenza evolutiva secondo cui le donne di tutto il mondo sin dalla preistoria sarebbero state esclusive protagoniste dell’organizzazione domestica, in specie per quanto riguarda raccolta, produzione e conservazione alimentare; niente di più che un back to the origins, quindi. Master and commander di tutto ciò è il marito che di fatto tiene i cordoni della borsa e che ha la facoltà – magari non la userà mai, però ce l’ha – dell’ultima parola in fatto di amministrazione del denaro di famiglia. Marito a cui la moglie sta in rapporto di amore reciproco e submission.

Il concetto di “sottomissione” è biblico e a questo contesto si rifà, volente o nolente, la maggior parte delle tradwives influencer. Infilarsi in Google alla ricerca di “definition of submission”, però, è un atto per cuori impavidi perché le questioni filologiche, non da poco, si sovrappongono come si può facilmente intuire alle traduzioni interpretative. Il problema nasce anche dalla circolarità delle definizioni che talvolta, specie nei siti di target più ampio, faticano ad andare oltre il recupero della parola sacra. Per la maggior parte vengono citati i testi biblici di riferimento – il passo più quotato è Pietro, 3:4-6 – a cui spesso segue l’associazione con brani che indicano Dio come termine ultimo di sottomissione.

Il dubbio è che tramite queste associazioni si finisca per suggerire una sorta di identità semantica fra l’obbedienza che deriva dal riconoscimento di un’autorità sociale/politica (capoufficio/individui l’uno verso all’altro come comunità) e il rapporto di sottomissione moglie/marito – procedura che come si può intuire esclude a priori tutti i temi di relazione maschio/femmina, dall’erotismo fino alle questioni del patriarcato e dell’abuso; tant’è che, onde smussare il senso di “unconfortability” che ne deriva, con frequenza ci si sente in dovere di porre l’accento sugli aspetti “mutual” (“reciproci”) della subimission: “selflessness, service, accountability, and respect” (“altruismo, servizio, responsabilità e rispetto per il proprio partner” nell’ottica di una generale accettazione della volontà divina). Ove richiesti approfondimenti, le definizioni spesso utilizzano la formula al negativo, elencando ciò che NON significa submission: la sottomissione “non pretende che la donna dimentichi il suo cervello sull’altare”, “non significa che la donna non possa avere opinioni”, “non apre la porta alla violenza domestica”, “non è un rapporto legato al valore individuale” ed è difficile (o almeno, io per ora ne ho trovato scarso riscontro) che si faccia riferimento alla sostanziale estraneità del messaggio di Cristo nei confronti di una certa tipologia di cultura patriarcale.

(Note per gli interessati: il termine greco utilizzato è Υποτάσσω, che è in realtà d’uso militare [Υπο: sotto, τάσσω: mettere] e letteralmente indica la maniera in cui le schiere di soldati vengono sistemate in assetto da battaglia, ciascuna sotto il proprio generale. Nella Bibbia il termine compare 12 volte e sempre a voce verbale, mai come sostantivo, il che è già degno di nota perché rende più esplicita la necessità della contestualizzazione spazio-temporale. Nb: Non si pretende qui di offrire una panoramica esaustiva su questioni di esegesi biblica tanto complicate. In questi paragrafi ho voluto unicamente evidenziare alcune delle criticità più evidenti della questione, senza pretesa di esaurire in poche righe un argomento la cui complessità parte addirittura da questioni filologiche.)

Di fatto – per tornare alla concretezza del frigorifero – è difficile trovare una tradwife influencer che sui social risponda candidamente, con sì o no, alla domanda: “Se mio marito mi dice che non posso comperare verdura questa settimana, posso acquistarla ugualmente se lo ritengo necessario per la mia salute o per quella dei miei figli?”. E’ su tale, semplice questione che gli animi delle commentatrici si infiammano, costruendo volumi di engagement di dimensioni considerevoli.

Nel prossimo e conclusivo episodio di questa deep dive saga: differenze tipologiche e, da qui, breve cenno agli argomenti tabù (oh sì, ce ne sono). Analisi presenza e posizionamento di tradwives a etnia non bianca / minoranze. Clicca qui per andare alla terza e ultima parte.

Notizie da bordo piscina/1. Dalla casalinga disperata alla tradwife: storia di un fenomeno (parte uno)

Con questo articolo si dà il via a una piccola rubrica di pezzi semiseri ad argomento vario: approfondimenti su notizie che ho letto su internet, annotazioni recuperate da articoli di giornale o da programmi radio. Io le chiamo: le cose che non sono libri ma che mi possono servire per capire i libri – e quello che sta dietro, e dentro.

Foto di Chloe Skinner su Unsplash

Retroscena

Alcuni mesi fa, mentre cercavo la ricetta della “cheeseburger soup” – quindi sì, posso dire che di fatto è tutta colpa mia – l’algoritmo di Instagram mi offrì, tra un video e l’altro di pentole a cottura lenta, il reel appena pubblicato da una giovane donna del Missouri.

(Nota per gli interessati: le pentole per la cottura lenta di preparati tradizionali quali appunto la cheesburger soup si chiamano Crock Pot: medesima questione per cui noi ai bastoncini per la pulizia delle orecchie ci riferiremo sempre col nome di Cotton Fioc indipendentemente dalla marca acquistata).

Attraverso un’estetica dichiaratamente vintage, pulita e priva di ridondanze, con un’accuratezza professionale sui seppia ma senza darci dentro troppo nei filtri, questa ventiduenne acqua e sapone – che si auto-definisce “retired” dal mondo del lavoro (ndr: era fotografa matrimonialista, ecco il perché della competenza tecnica e lo so: dirsi “pensionata” a 22 anni suona bizzarro; ci arriveremo) – da circa un anno si impegna nella cronaca della sua nuova quotidianità tramite i canali social Instagram e Youtube.

Insomma, senza rendermene conto mi ero appena imbattuta – maledette furono le pentole – nella mia prima “Tradwife” e “Homesteaderinfluencer (così self-identified in bio).

Foto di Elisa Calvet B. su Unsplash

La tana del Bianconiglio

Scorrendo il feed, francamente attrattivo (66mila follower), scopro che la signora di cui sopra è sposata da poco e si dice molto innamorata del marito; la coppia vive in una piccola abitazione rurale nella Phelps County (44mila abitanti per circa 1700kmq); i due sono di fede cristiana e per il momento non hanno figli anche se il progetto è di allargare la famiglia.

(Nota per gli interessati: la contea di Phelps, situata nella parte centrale del Missouri, è terra di coloni europei dai primi dell’800. Cittadina di riferimento è Rolla, teatro di alcune battaglie importanti durante la Guerra Civile. L’economia si basa su agricoltura intensiva e allevamento ma il posizionamento industriale – automobili e macchinari – è ampio e variegato. La contea fa parte della cosiddetta “Bible belt” a maggioranza protestante anche se il cattolicesimo è ben rappresentato, secondo diverse confessioni. Racial composition: 85% bianchi, 2.8 latinos, 2.3 black/african. A maggioranza repubblicana, ça va sans dire.)

Le attività giornaliere in cui la donna si impiega mentre il marito è al lavoro riguardano per la maggior parte la gestione della casa e del coniuge: sveglia alle 6, preghiera e studio della Bibbia, toilette, preparazione della colazione e della pietanziera per il marito e poi rassetto delle camere, lavatrice, stenditura, cura degli animali (oche e galline) e del piccolo orto, spesa e dispensa con auto-produzione alimentare inclusa (pane e prodotti di pasticceria, conserve, burro).

Vengo a sapere inoltre che in casa non è presente la televisione. Nel tempo libero la donna si dedica alla lettura: l’attualità pare esclusa, conclamata invece la predilezione per narrativa di impronta vittoriana e il romancenot spicy” (ovvero privo di scene di sesso esplicito), saggistica e compendi teologici.

(Nota per gli interessati: esistono termini specifici per indicare la narrativa romance contemporanea scevra da contenuti sessuali espliciti. Su Goodreads possiamo trovare, per esempio, elenchi di varie reading suggestions per letture “non steamy” (letteralmente: “senza vapore”!) o “no spicy” (come si intuisce: “non piccante”) e, ancora, “no smut” (prive di… “fuliggine”, sostantivo che in senso astratto assume il significato di “oscenità”).

A dormire si va rigorosamente non oltre le 21, dopo aver passato la serata in attività di “sewing” (ricamare, rammendare e cucire vestiti, riadattando alla propria misura quelli comperati nei negozi dell’usato). La giovane donna non segue particolari dress code, tiene a precisare – ogni tanto posta scatti in jeans o abiti di foggia contemporanea -, ma per gusto personale preferisce gonne ampie e lunghe, aprons (grembiuli), cardigan e camicette, fiocchi e intrecci ai capelli. Si definisce “nata nel tempo sbagliato”. Appassionata di pottery, frequenta con curiosità mercatini e vendite di beneficienza, da cui recupera piccoli pezzi spesso dipinti con rappresentazioni di anatroccoli e papere; è attrice dilettante per i musical messi in scena dalla comunità parrocchiale.

(Nota per gli interessati: nel linguaggio della Tradwives subculture uno degli aggettivi più utilizzati a proposito del vestiario è thrifty, ovvero “economico” nel senso di “parsimonioso, frugale”, che obbedisce anche, se possibile, ai dettami della sustainability ambientale).

Da qui a seguire almeno un’altra ventina di profili simili costruendomi, va detto, una certa addiction, è stata questione di pochi click.

Il fenomeno: definizione

In linea generale, quando parliamo diHomemakers ci riferiamo a donne bianche nella fascia d’età 30-40 che hanno abbandonato lavoro o carriera dopo un numero variabile di anni di servizio per dedicarsi a tempo pieno a casa e famiglia oppure a giovanissime ventenni che a lavorare non hanno nemmeno cominciato, piccole occupazioni estive a parte, e che intendono percorrere la strada dell’homesteading (“metter su famiglia”).

Parafrasando Wikipedia, possiamo definire il fenomeno tradwives come un “neologismo per traditional wife o traditional housewife che nella cultura occidentale contemporanea indica in maniera specifica una donna che fa propri e mette in pratica i tradizionali ruoli di genere, anche all’interno della relazione matrimoniale”. Questo movimento possiede tratti distintivi e comuni ma rivela anche declinazioni diverse, sia per contenuto sia per target di riferimento.

Il fenomeno: caratteristiche web

Per la maggioranza delle tradwives la formula preferenziale di comunicazione social breve è il reel, accompagnato da linee di testo sovraimpresso e sottofondi musicali rural folk piano o stage and screen: video brevi e accattivanti, insomma, costruiti al fine di dare testimonianza di uno o più aspetti di ciò che queste influencer interpretano come parte integrante della propria nuova vita di casalinga tradizionale. Eventualmente segue in calce una caption (didascalia) esplicativa, non obbligatoria – perché queste tradwives non è che abbiano così tanto tempo da spendere (si legga “perdere”) sui social.

La community di riferimento è composta da donne che già condividono la tradwives subculture e – chi più chi meno – ne mettono in atto le linee guida (il punto è quindi offrire “tips and tricks” per la corretta cura di casa/marito/figli/finanze/alimentazione e per darsi man forte dell’affrontare il senso di isolamento e di stigma sociale che può derivare da una quotidianità all’apparenza solitaria e poco stimolante), o che desiderano avvicinarsi a questo stile di vita (si parla allora di “empowering women to take back their roles”).

Argomenti

A una prima osservazione, sembra possibile raggruppare questi micro-filmati in base ad alcune linee tematiche:

  1. Economia e finanza: accento sulla tematica dell’one-income, ossia sul fatto che la famiglia si trovi a contare su un’unica fonte di reddito (ndr: l’occupazione professionale del marito)
  2. Società: rivendicazione dei ruoli di genere e della dimensione di famiglia tradizionale all’interno della quale il marito si reca quotidianamente al lavoro mentre la moglie si occupa della casa e dei figli
  3. Valori morali e dimensione religiosa: viene dichiarata apertamente l’appartenenza a un credo, solitamente cristiano (differenti poi le confessioni), a cui segue la necessità di attenersi a determinati principi morali; a questi principi deve corrispondere uno stile di vita consono, anche in relazione alla comunità parrocchiale di riferimento, che spesso viene riassunto con il termine modesty (per grandi linee traducibile con “sobrietà”).

Da queste macroaree discendono altri sotto-argomenti, che approfondiremo in seguito.

Spoiler: uno dei temi che provocano maggiore engagement e momenti triggering fra le accanite commentatrici è l’argomento sociale, che come si può facilmente intendere porta con sé la riflessione sulle tematiche femministe e dell’autodeterminazione della donna, dal rifiuto del modello “bossy girl” a quello, spinosissimo, della “submission” – ossia della sottomissione della donna al marito. “Feminine, not feminist”, recita la bio di una delle maggiori – e criticate – tradwife IG influencer.

Foto di Fleur su Unsplash

Benvenuti, insomma, nel fantastico mondo delle tradwives!

Un movimento anglosassone non nuovissimo ma in forte ascesa (dal post-Covid, e non è un caso), di donne – single, fidanzate, sposate, madri, età varia (false: il range non è così lasco), ceto sociale ampio (anche qui c’è da rifletterci) ed etnia ininfluente (idem come sopra) – che promuovono uno stile di vita quotidiano legato in maniera “ultra-tradizionale” ai ruoli di genere.

Cosa potrà mai andare storto? Probabilmente tutto. Attenzione però a non derubricare questo fenomeno all’ennesima fissa ossessivo-escapista di una specifica parte di mondo occidentale, bianca e privilegiata o, ancora peggio, all’esito di certa cultura patriarcale, di maschilismo interiorizzato.

Cosa sottende questo movimento, cosa ci racconta dell’ansia sociale che pervade da sempre, sebbene declinata in modi differenti a seconda del contesto storico, la parte femminile dell’umanità tutta? Perché la tradwives subculture è stato avvicinata, in specie per quanto riguarda gli Stati Uniti, agli ambienti dell’ultradestra trumpiana? E infine: c’è chi ne sta parlando, in letteratura – e se no, perché?

In questo momento, su IG sono presenti 62.5mila post con hashtag #tradwife, 17.8mila per #traditionalwife e 731mila con tag #homemaker.

Grazie per essere arrivati fino a qui. Nella prossima puntata (sentitevi liberi di commentare con un sereno “gentilissima, ma anche no”) approfondiremo a grandi linee i tre punti a tema: dalla gestione delle finanze domestiche, strettamente legata al principio della “submission” fino all’aspetto religioso, passando per …il fare l’orto e il consumo di alimenti “organics”.

Trovate qui e qui i link alla seconda e alla terza parte dell’approfondimento.

NB: bibliografia su richiesta; se interessati, scrivete al solito appuntidicarta@gmail.com

“Java Road” – “Il regno di vetro”, di Lawrence Osborne (trad. Mariagrazia Gini)

Nota: longform – tempo di lettura 10min

A ogni nuova uscita mi domando cosa significhi leggere Osborne, di cui, va detto, sono grande appassionata. Credo sia perché è così irritante che a volte faccio fatica a sostenerlo, per quel suo modo che ha di prenderci tutti in giro: sicché per me è una questione di puntiglio, oltre che di fascino.

“La storia da raccontare non era lunga ma ero certo che vi potessero cogliere un nonsoché di esotico. E la loro distanza dai fatti la rendeva adeguatamente pornografica.”

Nato nel 1958 in Inghilterra, Lawrence Osborne studia al Fitzwilliam College di Cambridge e poi ad Harvard. Comincia con il mestiere di giornalista-viaggiatore subito dopo il diploma: percorre tutta l’Europa (per l’Italia passa più volte: in Toscana vivevano dei parenti acquisiti dai quali andava per l’estate), si sposta nella penisola balcanica, poi Nord Africa ed Estremo Oriente. Per molti anni risiede a New York, luogo in cui la sua carriera di columnist e reporter spicca il volo. Nel dettaglio, Osborne è autore di long-form journalism: per anni ha scritto su diverse testate, tra cui The New York Times Magazine, The New Yorker e Condé Nast Traveller; su Gourmet e Men’s Vogue ha curato, inoltre, valide e seguitissime rubriche di enogastronomia. Dal 2011 risiede a Bangkok. Al romanzo (“breve”, come tiene spesso a sottolineare) arriva quasi per caso, al successo pure: consapevole della sua abilità come narratore ma abbastanza incredulo, almeno all’inizio, di fronte all’impatto dei suoi testi narrativi.

La sua storia professionale, come si vede, è già di per sé intrigante; lontano dallo stereotipo dello scrittore escapista, Osborne deve parte della propria fortuna a questo punto di rottura con la tradizione: se l’America difatti lo riconosce erede della spy story internazionale (viene spesso avvicinato a Graham Greene e Patricia Highsmith), l’Europa d’altra parte lo elegge a esponente di quell’odi et amo usualmente dedicato agli autori che, appunto, si discostano dal venerato cliché di cui sopra. A ciò si aggiunga, carico da novanta, la spinosa questione del romanzo esotico.

“Era scesa una tregua, come se gli studenti, con le loro ultime volontà e i testamenti cuciti nelle giacche, avessero deciso di fermarsi qualche giorno per recuperare, e dunque le strade erano tornate a essere luoghi di tranquillità consumistica. Oppure, nel caso di Java Road, una distesa di pompe funebri piene di drappi scuri e insegne in bianco e nero, infestate dagli spettri dei magnati dello zucchero che si erano arricchiti con il commercio da Giava e i cui imponenti uffici un tempo troneggiavano proprio qui, come simboli della magnanimità coloniale.”

Pare incredibile data la varietà delle trame, eppure c’è caso che i Leitmotiv osborniani sempre a uno si riducano: l’enigma della stanza chiusa, ove per stanza chiusa si intende un ambiente altro all’interno del quale l’autore ha piacere di collocare le statuine dei suoi personaggi e stare a vedere cosa succede. In sostanza si tratta di protagonisti che per i più svariati motivi – e qui sta il nodo: la capacità di scovare varianti – vengono removed (così le recensioni oltreoceano) dall’ambiente geografico, sociale e politico di appartenenza per nascita e transplanted, ossia trapiantati, all’interno di contesti del tutto alieni all’esperienza. Questo “divorzio dall’abituale” crea nel protagonista una sorta di depersonalizzazione che trova concretezza di simbolo in alcuni punti fermi: solitudine, esclusione sociale, alterata percezione del tempo cronologico, incapacità di comprendere la dimensione politica, difficoltà di adattamento alle condizioni climatiche, resi tangibili attraverso la tecnica del romanzo d’atmosfera. Approccio narrativo che in questo caso si identifica, tornando al punto sopra, nell’ambientazione esotica: dalla Grecia a Macao, da Bangkok 2014, nella stagione del colpo di stato (“Il regno di vetro”) alla Hong Kong dei tumulti studenteschi al momento del ritorno alla Cina (“Java Road”) Osborne non smette di solleticare il lettore col guilty pleasure del mondo allo specchio, raccontando una realtà parallela che da sempre è oggetto di fascinazione e sempre lo sarà. Con un dettaglio: l’autore conosce per davvero i luoghi descritti, perché lì ha vissuto e lavorato; ne comprende le dinamiche sociali, ne ha scovato pregi, difetti, crepe e sintonie, ne ha approfondito la dimensione politica, economica, fisica.

“La vita del giornalista sfigato è pittoresca fin verso i quarant’anni. Dopo, si fa vivo lo squallore.”

“Ci avevano surclassati. Noi ci trascinavamo come un branco di elefanti semidormienti al seguito di notizie divulgate altrove al triplo della velocità. Servivamo ormai solo a dare un senso di legittimità a informazioni che credevamo degne di essere sancite dalla stampa, fosse anche solo digitale. Ma era diventata una specie di truffa. Noi mentivamo come tutti gli altri, pur essendo assolutamente certi di non mentire, e disprezzando chi, secondo noi, mentiva.”

L’abilità di Osborne, di fatto, è la capacità di inserire il resoconto di viaggio(1) all’interno della struttura narrativa di finzione, ove – per sua stessa ammissione – le vicende sono immaginate (…ci sarà da credergli?) ma i personaggi ni. Peter Kemp del Sunday Times definisce questo sistema di scrittura “atmospheric reportage of a place and time” identificando così uno sguardoche tramite l’osservazione di dettagli concreti riesce a dare l’idea del tempo storico che scorre attraverso un luogo specifico. Una dimensione spaziotemporale da cui Osborne taglia fuori il lettore, così di netto – ecco da dove viene l’irritazione! – rendendolo di fatto fruitore passivo riguardo a situazioni rispetto alle quali, va detto, in pochi al momento possono dirsi più consapevoli di lui. Conoscenza di luoghi e di temi attraverso cui, per altro, riesce a evitare il rischio di “latent orientalism”.

“Il tutto non avrebbe spostato di una virgola la mia marginalità.”

I personaggi messi in scena da Osborne, solitamente americani o inglesi (“maladjusted white protagonists”), sono i più vari. Ne “Il regno di vetro” c’è Sara, una giovane assistente personale in fuga dagli Stati Uniti; con sé porta una valigia di banconote, frutto di un raggiro ai danni dell’anziana celebrità per la quale prestava servizio. Convinta che il sistema migliore per farla franca sia far perdere le proprie tracce, si rifugia a Bangkok, affittando sotto falso nome (e tinta ai capelli compresa) un appartamento di pregio all’interno del Kingdom, un complesso residenziale abitato principalmente da farang – così vengono chiamati dalla popolazione locale gli stranieri ricchi e viziati. Fra prostitute euroasiatiche di alto lignaggio, inglesi espatriati dediti ad affari loschissimi, domestici silenziosi e prezzolati alla bisogna, Sara scoprirà ben presto, mentre i tumulti del colpo di stato si avvicinano pericolosamente alla recinzione del Kingdom, che nessuno è come appare e che disturbare il sonno degli animali preistorici addormentati nel fondo di certe piscine può risultare fatale, come ben ci insegna J.C. Ballard (3).

“«Siamo arrivati da laggiù, noi come tutti. Mio padre era un contrabbandiere. Non è passato poi così tanto tempo. Eravamo amici dei britannici, però. Lei è uno di quegli expat con la nostalgia di casa o uno di quelli che non torneranno mai?». «Sono un emigrato, quindi del secondo tipo». «Allora lo siamo tutti e due, per così dire. Migranti. Lei mi sembra più un esule. Di quelli volontari. È un destino fortunato, in qualche modo. Io dico sempre che poteva andar peggio. Potevamo non farcela».

In “Java Road”, invece, il protagonista è annoverato fra i “professional observers” – ossia personaggi dalla connotazione lavorativa ben specifica, che dà loro modo di osservare la realtà da vari punti di vista, interagendo con individui di circuiti sociali particolari. Alla vigilia della restituzione di Hong Kong alla Cina, le strade della metropoli sino-britannica sono invase dagli studenti universitari. Mentre la polizia utilizza lacrimogeni e manganelli per sedare la rivolta, Adrian Gyle, giornalista inglese di mezza età, expatried a Hong Kong da almeno vent’anni, talento in declino ma agganci formidabili nell’alta società, viene in contatto con Rebecca To, brillante studentessa e attivista nonché amante di Jimmy Tang, rampollo di una delle famiglie più influenti e ricche della capitale, amico intimo di Gyle dai tempi dell’università. Gyle, ben integrato nel microcosmo del quartiere, Java Road appunto, ma sempre prigioniero della propria intrinseca natura di gwai, (“fantasma bianco”, nomignolo lievemente dispregiativo con cui la gente del luogo chiama gli occidentali), si addentrerà nei meandri di una metropoli sull’orlo del declino, fra corruzione politica, “laissez-faire economics” e fanatismo imperiale, atmosfere da bar anni ’40, delitti irrisolti e il più classico dei triangoli d’amore non corrisposto. Chi è, davvero, Jimmy Tang? Cosa sarebbe disposto a fare, nel momento della caduta e del tracollo, per preservare l’unico bene che ancora gli appartiene e di cui può servirsi, ossia la reputazione?

“Intorno a me e dentro di me prese a crescere la confusione. Fu uno sconcerto amplificato dalla dissoluzione della città. Si può dire che l’intera società era diventata paranoica mentre oscillava su fondamenta sempre meno solide e so avviava alla disintegrazione. Per questo io e chiunque altro diventavamo paranoici. Non era eccezionale nemmeno la paranoia di Jimmy. Era la nuova realtà, e c’eravamo dentro tutti. I confini rimasti in piedi tra polizia, governo, famiglie potenti e media, eliminati nel giro di un mese. La vecchia Hong Kong delle leggi e dei giudici britannicamente imparruccati decostruita in una notte, e al suo posto era spuntato un mondo totalitario cupo e selvaggio nel quale regnavano dicerie, esagerazioni, odio, tribalismo, supposizioni.” (4)

Insomma, volevo farla breve per una volta e invece eccoci qui a parlare di Osborne in un modo in cui, secondo me, dovremmo andare avanti per ore. Leggete Osborne se volete immergervi in mondi incredibili, di una realtà concreta eppure inafferrabile, magnifica e terribile, al di là del nostro modo di sentire – e comprendere. Il meccanismo del thriller resta sempre valido, e nessun finale sarà come sarete stati in grado di immaginarlo.

Note: / (1) Sempre parlando di reportage come strumento di narrazione, bisogna osservare che in Osborne il narratore onnisciente non esiste: all’interno di una struttura a dialogo, i personaggi espongono la propria, personale visione del contesto; in tal modo il punto di vista si risolve nel parziale e l’analisi politica e sociale è sempre di parte. Sono i protagonisti stessi a fornire al lettore il quadro generale che in questo modo pur restando sempre sospeso, non oggettivato né oggettivabile, acquista valore di testimonianza del sentire locale, auto-validandosi. / (2) Di Osborne mi affascina l’abilità nel seminare easter eggs: piccoli gioielli che si riferiscono a eventi storici o citazioni letterarie rispetto ai quali il lettore si percepisce curiosamente sempre, o quasi, in difetto di conoscenza.  Di seguito giusto due esempi, recuperati in “Java Road”. 1. “Jimmy raccontò la storia terribile del medico personale di Mao (…) convocato (…) per eseguire la mummificazione della salma (…)”. Questo fatto, fondativo del pensiero transumanista russo, è ben raccontato dal divulgatore e giornalista Michel Eltchaninoff nel suo “Lenin ha camminato sulla Luna” ed. E/O. 2. “Nel 1938 alle cene altolocate del Surrey avresti sentito i medesimi argomenti sulla Germania.” È riferimento ai rapporti che il Duca di Windsor e la consorte Wallis intrattenevano con Ulrich Friedrich-Wilhelm Joachim von Ribbentrop, ministro degli Esteri tedesco, fidatissimo di Hitler. Pochissimi sono a conoscenza del fatto che nel Surrey Ribbentrop avesse preso possesso di una dimora di pregio: saranno questioni del lettore arrangiarsi a scoprirlo, pare ci suggerisca Osborne. Il dialogo sulle sorti gloriose della Germania nazista riportato da Osborne ricalca quasi perfettamente quello realmente accaduto e riportato fedelmente dai presenti, avvenuto fra il Duca, Wallis Simpson, Churchill e alcune altre personalità di spicco, proprio nel 1938, allo Château de l’Horizon, costa Azzurra (cfr “Côte d’Azur”, di Mary S. Lovell, ed. Neri Pozza). / (3) Osborne rende tangibile il meccanismo attraverso cui la crisi sociale e politica della città pervade, come mai accaduto, l’esistenza di Gyle per mezzo di un espediente stilistico alla coup de théâtre: una ferita alla guancia – frutto di un pugno che un insospettabile attivista sferra al giornalista lungo la via, all’uscita di un ristorante – che non vuole guarire e va in suppurazione (cfr. nella nostra recente narrativa il mal di denti del milite Cesco Magetti, protagonista di “Ferrovie del Messico” ed. Laurana, che ha la stessa funzione). / (4) Tutte le citazioni nel post sono tratte da “Java Road”.

“Il giudizio universale”, di Luc Lang (trad. Maurizio Ferrara)

“Quanto a me, credo nell’ira degli spettri all’approssimarsi della morte! «Così la notte fosse già venuta! Fin allora, tieniti tranquilla anima mia: le turpi azioni risorgono, benché tutta la terra le sopraffaccia, agli occhi degli uomini».”

Nel 1998 il romanzo “Mille six cents ventres” del quarantaduenne Luc Lang, scrittore e professore di estetica all’École nationale supérieure d’arts de Paris-Cergy, vince il Prix Goncourt des lycéens.

Creato nel 1988 da Fnac, rettorato di Rennes e accademia Goncourt, il premio Goncourt des lycéens viene assegnato annualmente da una giuria di circa 2000 studenti scelti fra tutte le scuole superiori francesi a partire dalla seconda classe e chiamati a votare l’opera preferita fra una lista di libri proposti dall’accademia Goncourt stessa. I volumi vengono distribuiti nelle scuole, senza distinzione d’ordine anzi includendo in maniera dichiarata e specifica tutti quegli istituti, tecnici e professionali, “notamment ceux les plus éloignés d’une culture littéraire” tra cui scuole francesi all’estero e, per dire, istituti penitenziari. Nel corso degli anni il Goncourt des lycéens è divenuto uno dei premi più ambìti nel panorama letterario francese1.

Milleseicento ventri” arriva da noi in Italia due anni più tardi, nel 2000, pubblicato da Passigli in traduzione di Maurizio Ferrara. La casa editrice decide di mantenerne il titolo originale che si riferisce – e qui sta il punto di questo giro introduttivo – al numero dei detenuti presenti fra le mura di Strangeways, il carcere cittadino di Manchester, al momento della rivolta dell’Aprile 1990.

Le proteste di Strangeways, con i detenuti in sommossa a denunciare le condizioni insostenibili della vita quotidiana all’interno della prigione, le vessazioni subìte dal personale, l’ingiustizia delle pene comminate (Strangeways in origine doveva essere un luogo di recupero per detenzioni non superiori ai cinque anni, ma poi – come prevedibile – divenne ben altro), diedero il via, in piena epoca Thatcheriana, a un fenomeno mediatico imponente le cui conseguenze furono una serie di rivolte all’interno di altri centri di detenzione fra Inghilterra, Galles e Scozia e svariate inchieste che toccarono punti nevralgici della struttura governativa dell’epoca2.

“Le ragioni invocate dai carcerati non sono del resto totalmente dei falsi pretesti”

Ricapitoliamo: uno dei più promettenti scrittori francesi, da poco professore di filosofia alla ENSAPC, sceglie di ambientare il suo quarto romanzo – quindi l’opera con cui o la va o la spacca – tra le casupole che compongono la zona suburbano/residenziale sorta alle pendici di uno dei penitenziari più problematici dell’intero Regno Unito, mettendo in scena, come su un teatro, uno degli episodi più drammatici di lotta sociale avvenuti in Gran Bretagna durante il governo di Margareth Thatcher: la rivolta di un manipolo di giovani uomini imbestialiti contro il sistema – perché di fatto la popolazione di Strangeways era composta per la maggior parte dai figli del sottoproletariato urbano fra abbandono scolastico, disoccupazione, microcriminalità e spaccio – chiusi in un carcere di massima sicurezza per reati di furto e ricettazione (“giovani che vanno dentro per una macchina rubata ed escono tossicomani”), costretti a condividere la cella con criminali della peggior specie in condizioni di detenzione disumane, abusi, malagiustizia. E in che modo decide di strutturare il racconto di questi venticinque giorni di sommossa, il nostro Luc Lang? Tramite la prima persona singolare, prendendo come protagonista uno dei residenti del quartiere: il sessantenne, raffinatissimo Henry Blain – proprietario di una delle casette più graziose del sobborgo, gran estimatore di donne e vini, mobili d’antiquariato e miscele di tè, nonché capocuoco della prigione di Strangeways e avvelenatore seriale dei detenuti; milleseicento ventri, appunto, su quali Blain regna incontrastato.

Fra spedizioni punitive – potenti lassativi nel minestrone dei carcerati giudicati maleducati o molesti, somministrazione di alimenti avariati a gruppi etnici di specifico taglio – e smerci di derrate consone in cambio di cibi etichettati come mangime animale, Blain da anni governa nell’ombra le cucine del penitenziario così come per anni aveva esercitato le proprie, disgustose perversioni sul personale delle navi da carico a bordo delle quali era arruolato. Abile manipolatore, malvivente astutissimo, meticoloso trafficante, Blain si ritrova al centro dell’azione che, come un miracolo letteralmente sceso dal cielo (i rivoltosi occupano i tetti, scagliando giù nella strada qualsiasi oggetto capiti a tiro: dalle pesantissime tegole di ardesia che vanno a infrangersi nei giardini delle casette fino a delicati e meravigliosi origami, farfalle che in mezzo allo spettacolo pirotecnico di lampeggianti, fuochi e sirene atterrano sulle teste del pubblico pagante), gli dà modo – unica volta nella vita – di autocelebrare pubblicamente il narcisismo patologico di cui è pregno: sfruttando l’indubbio vantaggio topografico, Blain apre la propria casa a cameramen e giornalisti che, previo pagamento, possono godere di una posizione di favore per riprendere gli scontri, nonché della testimonianza di un prezioso insider (che ovviamente se ne guarda bene dal proclamarsi parte del problema).

Riassumiamo (di nuovo): in Francia, un neoassunto professore universitario decide di giocarsi l’appena avviata carriera di scrittore mettendo insieme un romanzo basato su un fatto di cronaca dolorosissimo, che riguarda un Paese terzo e che ha per protagonista un lurido infame. Il romanzo tratta di violenza minorile, stupri, droga, delinquenza, abbandono scolastico, malattia mentale e femminicidio. Il libro esce, viene proposto a un pubblico adolescente/liceale – e vince il Prix Goncourt des lycéens.

“Louise sembra una zitella emancipata, sa quel che vuole, è lei a condurre il gioco, ma non è insensibile ai complimenti di un uomo. (…) Ha inoltre ritrovato in individui cosiddetti spacciati, lei predica fiduciosa, slanci di compassione verso gli altri, la natura umana è insondabile. (…) La compagnia di Louise un po’ brilla mi conveniva benissimo un attimo fa, ma davanti ai miei amici distinti ho una voglia quasi incontrollabile di schiaffeggiarla, un paio di sberle ben assestate, l’impronta viola della mano sulle guance bianche, si svegli dunque, si riprenda!”

Pausa – perché potremmo addirittura finirla qui, già sarebbe sufficiente (la domanda provocatoria potrebbe essere quale dei nostri attuali scrittori sarebbe in grado di osare tanto, ma ce la teniamo per un altro momento). Il punto in realtà è un altro e sta tutto nella figura di Henry Blain, che sotto la maschera di un’elegante normalità, fra aperitivi e merende nel salotto-tinello, nel profumo delle copertine di pellame pregiato con cui sono rilegate le edizioni dell’opera Shakespeariana di cui è avido collezionista, nasconde il più abominevole degli orrorie no, non stiamo parlando dei suoi maneggi avvelenati.

“«È un fior di donna, la sua fidanzata», mi confessano. «Sì, ma è di origine tropicale, ha sete e debbo innaffiarla spesso», rispondo per fargli piacere.”

Fra le meravigliose aiuole di aeonium e tillandisia, beloperona guttata, azalee e camelie che compongono il suo giardino – l’unico della strada a non essere invaso dai detriti di una vita ai margini e dai rifiuti della depressione economica, ecco sta lì, il raccapriccio mortale di un individuo scellerato rispetto alla cui moralità nessuno, nemmeno noi che leggiamo (con l’eccezione del pubblico femminile adulto, forse) avremmo potuto nutrire il benché minimo sospetto. Henry Blain è, in sostanza, l’uomo perbene: un vicino di casa un po’ fissato con l’ordine e la disciplina (“Dio solo sa quanto detesto che mi scompiglino le ondulazioni dei capelli pazientemente rifatte ogni mattina”), ma così premuroso all’occorrenza; il compagno di bevute forse un po’ eccentrico, ma a chi di noi, se ciucco tradito, non scappa lo sproloquio razzista e misogino? L’amante esigente, certo, ma così attento, e facile allo scatto d’ira ma figuriamoci, si pensi a cosa deve sopportare, poveretto, sul posto di lavoro e via così, con quei tratti che oggi nella neolingua si chiamerebbero red flag ma che nel linguaggio vecchio del racconto scritto bene entrano spogliati da qualsiasi orpello woke (linguaggio politicamente scorretto e scene triggering incluse) a indicare l’analisi sapiente dello scrittore sul tema del predatore sessuale – sul modo che ha di prendere di mira gli strati deboli del tessuto sociale mascherandosi da benefattore (allenatore, maestro, zio acculturato, metteteci chi volete), sulle maniere subdole che mette in atto al fine di penetrare la fragilità di donne scelte appositamente per la loro intrinseca debolezza.

Luc Lang, con una lingua colta e affilatissima e un sistema di romanzo a scene che prende a piene mani dal teatro antico, costruisce un giallo sociale che fa della normalità percepita il proprio cardine. La domanda, quindi, risulta ancora più delicata, spinosa da affrontare: se sia possibile, oggi, nel momento attuale, proporre un testo come “Il giudizio universale” al medesimo pubblico a cui era stato proposto vent’anni fa e se addirittura si dovrebbe sentire la necessità di proporlo, in tutto il suo scabroso e didascalico orrore di vomito e diarree, corpi mutilati e sangue, sciacallaggio mediatico e turismo dell’orrore – insomma nulla che non appartenga all’oggi – scrittore maschio bianco incluso che per altro afferisce a un sistema culturale completamente differente dal retroterra descritto (giusto per rimarcare bene il fatto che se uno è bravo a scrivere può scrivere della qualunque).

“Il giudizio universale” esce ora per Clichy, rivisto direttamente dall’autore nella traduzione – e la scelta di questo nuovo titolo è conveniente e adeguata, non solo perché riprende uno dei temi ricorrenti del libro, quello della differenza fra pena e giustizia, ma anche perché segna bene il riferimento a un aspetto interessantissimo della vicenda: la trasformazione finale del protagonista in un moderno Ebenezer Scrooge che, costretto a letto e divorato dalla febbre e dai sudori, viene visitato dagli spiriti degli orrori commessi, in una notte senza fine per la quale forse esisterà giustizia, ma non redenzione.

“I suoi capelli sono stringhe di cuoio, sembra che abbia passato sul viso un lucido da scarpe, quando ride le rughe e le guance scavandosi le screpolano la maschera, immagino la pelle lattiginosa di sotto. È sempre così arrogante, tende una mano verso di me, le sue unghie smaltate sono coltelli smisuratamente lunghi, dice: «Ricordati di Eleanor nel momento della tua caduta. Il tuo corpo non ha raggiunto il suolo ma si è già separato dal suo zoccolo, sta cadendo, le leggi della gravità sono più forti delle legge del tempo. Quando ti spappolerai, miscuglio di ossa e carne, pensa alla tua sposa davanti a Dio».”

Luc Lang non piace a tutti: è un autore che sceglie di trattare temi difficili utilizzando una scrittura raffinata e nello stesso tempo rarefatta, su cui occorre tornare più volte, e delle strutture temporali complesse, pluridimensionali, che necessitano di un impegno mentale importante. Non è certo uno scrittore della buonanotte, insomma. Eppure io lo trovo geniale: precisissimo nella forma, riduce all’osso le necessità del dire, strapazza il lettore, rendendolo allo stesso tempo dipendente dalle allusioni e dai sottintesi e libero di ampliare le proprie, personali riflessioni relative alla materia analizzata. In questo guinzaglio lungo, tirato e smollato con sapienza filosofica, nell’invenzione caleidoscopica di protagonisti grotteschi e disperati, esaltati o depressi, vittime e carnefici, ecco proprio lì sta per me il talento dell’autore.

  1. L’edizione 2023 appena trascorsa è stata vinta dalla scrittrice Neige Sinno con “Triste tigre” (di cui Neri Pozza ha giusto acquisito i diritti), un memoir in cui l’autrice francese trapiantata in Messico racconta le violenze sessuali e gli abusi domestici a cui fu sottoposta durante l’infanzia da parte del padre adottivo. ↩︎
  2. Ancora oggi, la Strangeways Prison riot è oggetto di acceso dibattito interno. ↩︎