"Il castello dei Pirenei", di Jostein Gaarder

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Abbiamo preferito procrastinare di qualche giorno l’analisi critica di quest’ultimo J Gaarder, poiché, indubbiamente, è libro per cui di necessità dovrebbe ritenersi fondamentale una riflessione attenta, puntuale e anche, diremmo, quasi “cross-funzionale”, oltre che lievemente strutturata.

Cominciamo prima di tutto col definire il genere letterario a cui appartiene, o meglio, a cui vogliamo far appartenere quest’ultima fatica dello scrittore-professore Gaarder. E’ romanzo, opera di fantasia e immaginazione; ma è anche trattato, opera di divulgazione, saggio interdisciplinare, così come gran parte dei suoi scritti.

Si è detto molto, nelle rassegne stampa e sul web. Romanzo lento e dal sapore posticcio, stile piatto e di empatia quasi nulla, personaggi inverosimili e costruiti a tavolino. Trattato dal sapore eccessivamente divulgativo per alcuni; per altri, al contrario, pagine ridondanti di dissertazioni filosofico-scientifiche di difficile comprensione / fruizione per i lettori (la maggior parte) non avvezzi alla materia.

Affrontiamo prima di tutto la questione genere letterario, dalla quale siamo partiti. Affrontare questo tipo di analisi relativamente a quest’opera significa abbandonare in parte i preconcetti, tipici del genere “romanzo”, a cui per certi versi ci hanno abituato le ultime letture della medesima tipologia. Non ci troviamo di fronte ad una sceneggiatura da film e di ciò occorre, come dire, farsene una ragione. Questi personaggi riflettono molto e agiscono poco, anzi per nulla. Il romanzo non è racconto di avventura, azione, sentimento, passione alla stregua di best sellers internazionali – o di una loro trasposizione cinematografica da colossal Holliwoodiano. Anzi, probabilmente ci troviamo di fronte ad uno dei libri meno cinematografici degli ultimi anni.
Ecco il perché, in parte, di una delle maggiori critiche portate al volume. Il lettore medio ha per certi versi perduto quella capacità di fruire di un romanzo da lettura lenta e ponderata, all’interno del quale sia preponderante l’utilizzo del pensiero e dell’immaginazione piuttosto che quello dell’azione e della descrizione dettagliata (fisica soprattutto, e poi emozionale), di personaggi e atmosfere. 
Abbiamo bisogno, a tutt’oggi, di avere ben in evidenza le fattezze di un personaggio, per innamorarcene o per disprezzarlo. Ci occorre avere un’idea che risulti quanto meno vaga possibile del suo corpo, dei suoi capelli, del suo sguardo, di ciò che vive, e dove; di ciò che sente, e come. La nostra capacità immaginifica è, per certi versi, andata perduta.
Eppure, di esperimenti di questo tipo ne è piena la letteratura. Basti pensare ai Dolori del giovane Werther, oppure alla “copia italiana” opera di U. Foscolo (le ultime lettere di Jacopo Ortis). La tradizione dei romanzi epistolari è lunga e attraversa ogni cultura e ogni epoca. 
Forse qualcosa è andato perduto, e occorrerebbe recuperare qualche antica tradizione letteraria che potrebbe offrire, ancora, diversi e notevoli spunti di riflessione.

Abbandoniamo per un momento la questione genere e personaggi per passare ad una breve analisi sulla parte più specificatamente didattica. Quel che ci preme qui sottolineare non è tanto la validità o meno delle tematiche espresse, su cui ci permettiamo di sospendere il giudizio, quanto la tecnica espositiva, che rivela, tendenzialmente, un approccio perfettamente scientifico votato ad una completa “analisi e accettazione del dubbio”.
Le dissertazioni filosofiche di Steinn non hanno alcuna pretesa di verità insindacabile o di inequivocabile giudizio morale. Semplicemente, Steinn esprime con valida e congruente arte dialettica ciò di cui ha fatto tesoro ed esperienza nel corso di decenni di vita: studi, esperienze, affetti, delusioni.

Prova evidente di questa posizione di estremo dubbio e totale apertura allo scibile, non soltanto la sua riflessione in quanto tale (il sogno della navicella spaziale, per esempio) ma anche l’agitazione, la riflessione continua, l’irrequietezza con cui Steinn, a mano a mano, affronta la corrispondenza con la (ex)amata Solrun.

Se dovessimo consigliare una tematica di base, sottesa, o meglio una chiave di lettura attraverso la quale affrontare questo volume, consiglieremmo una riflessione attenta sulla “liberazione dal pregiudizio”.

Prima di tutto con valenza endogena: entrambi i personaggi, dopo un percorso di crescita e maturazione, che Gaarder non manca di esporre con coscienziosità di giudizio, si liberano (in parte) da tutte quelle sovrastrutture intime, mentali e fisiche che avevano così caratterizzato (e condannato) la loro giovinezza.
Gaarder ammette, candidamente verrebbe da sostenere, se non fosse che le ammissioni sono da ricercare tra i meandri della scrittura e della “cultura giovanile” che lo scrittore dipinge in maniera sottile e si direbbe quasi incurante – dicevamo Gaarder ammette l’immaturità di certe tesi e di certi atteggiamenti tipici, se vogliamo, di una certa età anagrafica ma anche di certi ambienti e di talune epoche storiche.

La chiusura mentale del giovane Steinn, che per un gioco di specchi, irritante e menzognero, si ritrova da una parte ad assaporare la libertà fisica, mentale, di giudizio e di azione (tipica spavalderia di giovane uomo agli albori dell’esistenza) e dall’altra a rifiutare categoricamente non soltanto una via alternativa, ma addirittura, gli individui che di questa via alternativa si fanno profeti.
In questo senso, non ha miglior fortuna Solrun, che, dopo un’esperienza sensoriale certamente di dubbia origine, converge ogni sua energia nella ricerca di una realtà immateriale intrisa sì di religione, ma anche di mistica ed esperienze parapsicologiche.

La difficoltà di approccio per noi sussiste invero anche a causa della nostra “visione esterna della problematica” (un tantino pregiudiziale, vien da dire).
Indubbiamente la cultura nordica, per certi versi molto simile a quella anglosassone, si distacca in parte dalla nostra per quanto riguarda vari aspetti tra cui, per esempio, la concezione della famiglia, della religione, della società, il rapporto con la natura e/o l’ambiente che ci circonda.
Fatichiamo a comprendere questi due personaggi che ai nostri occhi potrebbero rischiare di apparire solamente quali sciocchi post-adolescenti girovaghi e irresponsabili, alla ricerca di emozioni adrenaliniche estreme per sfuggire alla noia dell’esistenza (e alle responsabilità che derivano da una vita adulta: scuola, lavoro, famiglia): la vita in una caverna ad imitazione degli uomini primitivi, le fughe in lande desolate, organizzate all’ultimo minuto, prive di qualsivoglia meta e omogeneità strutturale, i “colpi di testa”, le distrazioni (fatali, verrebbe da dire).

Il rapporto intenso, quasi viscerale, con la natura, l’acqua, la terra, il cielo, i fenomeni atmosferici; relazione unica con la natura e l’ambiente tipica di popolazioni che da millenni debbono fare i conti, al nostro contrario, con una natura selvaggia e indomita; una relazione di assoluta reverenza che porta ad una compenetrazione profonda, di completo rispetto e venerazione, per l’universo circonda l’Uomo le lo compenetra.
Potemmo pensare che il libro di Gaarder sia poco riuscito proprio per questa sua mancanza di adattabilità al contesto globale. Indubbiamente è un libro di nicchia, di certo non corrispondente ai canoni estetici più in voga. Anche qui, credo che la tematica dello “scampato pregiudizio” sia l’unico mezzo per riappropriarsi di una propria identità, unica e inalienabile, di lettore consapevole.

Per quanto riguarda il capitolo finale (da molti indicato come posticcio e inconcludente):
vorremmo lasciare libera interpretazione, con un solo, marginale spunto di discussione. In tutta la vicenda, il marito di Solrund rappresenta in un certo senso l’uomo di mezzo. Colui che, avulso da un contesto prettamente accademico, di conoscenza approfondita di tematiche e materie, si accosta al mondo con l’innocenza tipica dell’Uomo e la sua ingenuità.