Notizie da bordo piscina/3. Dalla casalinga disperata alla tradwife: storia di un fenomeno (parte terza)

Foto di Elana Selvig su Unsplash

Click qui per la prima parte dell’approfondimento, qui per la seconda.

La vita di ogni giorno

Le tradwife non parlano di politica e si tengono ben lontane dai fatti di attualità; perfino le questioni femministe, pur così centrali nella teoria-tradwife, restano spesso in sospeso: all’attivismo si preferisce il racconto della vita quotidiana, sottintesa migliore rispetto alla precedente. In realtà è la presenza on line a essere centellinata, perché la tradwife ha, per definizione, poco tempo da perdere/da spendere attaccata al telefono (1). Sono inoltre esclusi dalla narrazione argomenti sensibili come per esempio l’aborto, dal momento che le tradwife si dichiarano per la maggior parte credenti e praticanti, e la medicina (2). Anche per quanto riguarda le questioni economiche l’approccio è vario, per certi versi ambiguo: se da una parte si esaltano valori quali sobrietà e morigeratezza nell’ottica di una visione anticapitalistica e di salvaguardia ecologica, dall’altra è innegabile che la vita quotidiana delle tradwife sia determinata, per una certa percentuale, dalla disponibilità economica in essere. In sostanza, il messaggio che il movimento tradwife sembra voler trasmettere appare per certi versi vicino a un ripiegamento più che alla dichiarazione di intenti vòlta al proselitismo.

(Nota per gli interessati: 1. attenzione a non confondere il movimento tradwife con il fenomeno delle #stayathomegirlfriend, ossia di quelle fidanzate/mogli che nella lingua vecchia potremmo definire… “mantenute”; trend (più Tiktok, meno Instagram) che coinvolge un ambito sociale differente, ad esempio le donne di cultura islamica con elevatissima disponibilità economica. (2) Alcune si dichiarano affette da qualche patologia (“chronic illness”) e dicono di essere “seguite dal medico giusto”, ma difficilmente si entra nel dettaglio a parte il reel-narrazione del quotidiano in cui la protagonista, appena sveglia, si preoccupa di prendere i propri “supplements” (non ben identificati integratori).

Orsacchiotti in camicia nera

Nel 2018 (1) Annie Kelly, all’epoca studentessa Ph.D. con focus sulle subculture digitali in relazione ai fenomeni di antifemminismo, dalle colonne domenicali del NYTimes mette a tema l’analisi un certo movimento sociale la cui diffusione sul web, non disgiunta da un indubbio aesthetical appeal, correrebbe il rischio di appoggiare/promuovere oltre che comportamenti sessisti e di abuso domestico anche ideologie di estrema destra. Per dar corpo a questa tesi, Kelly si basa sui dati di affiliazione ai movimenti politici conservatori la cui presenza femminile sta registrando da qualche anno un tasso di crescita che, seppure di dimensioni modeste, è saltato all’occhio agli addetti ai lavori (2). Questa tendenza positiva, osserva Kelly, è rappresentata per la maggior parte da donne che incarnano con orgoglio il valore di una specifica tipologia di famiglia tradizionale (3). Se da una parte Kelly non si dice stupita riguardo a quella che di fatto è una mera tecnica di marketing dall’altra dichiara la necessità di comprendere quali siano i motivi di insoddisfazione verso alcuni aspetti della vita moderna alla base del movimento tradwife (4) e perché questo tipo di subcultura finisca per… virare a destra.

Qui si apre, inutile nasconderlo, il vaso di Pandora.

(Note per gli interessati: 1. Siamo nel 2018: elezioni USA concluse, Era Trumpiana Uno in pieno svolgimento . Dati gli ultimi, recentissimi exit pools, non è scontato che non si arrivi a una… Fase Due. 2. La percentuale di donne presenti all’interno di questo tipo di associazioni è da sempre minima, sfavorita da usi e costumi (linguaggio violento, ambiente for boys only, atteggiamenti squadristi ecc). (3) I valori tradizionali comprendono, ad esempio, l’esaltazione dell’atto procreativo il cui esito è usualmente una nidiata di figli bianchi & devoti alla bandiera. La rappresentazione morbida, materna e iperfemminista e delle donne, inoltre, – per certi versi studiata a tavolino – va a costituirsi quale contraltare alla rudezza intrinseca dei movimenti di estrema destra: “The deliberately hyperfeminine aesthetics are constructed precisely to mask the authoritarianism of their ideology”. 4. Alla base di ogni movimento di massa c’è sempre il desiderio di rompere uno status quo considerato di svantaggio, finanche ingiusto e prevaricatore.

Foto di Brooke Lark su Unsplash

Tradimenti – betrayed

Dice Kelly: in un momento in cui per i giovani sta diventando sempre più difficile costruirsi un futuro professionale solido, il vagheggiamento di un’età passata in cui un lavoro dignitoso, con orario fisso e contratto long-term, era più che sufficiente a sostenere la famiglia intera, sfizi compresi, “non è una questione di genere”. Tanto ai maschi quanto alle femmine (certo, per le donne sussistono aggravanti non da poco; ci arriveremo) vengono offerte opportunità lavorative spesso povere dal punto di vista di salario/contenuto, insalubri, temporanee, che abbisognano di un allontanamento fisico dalla terra di origine e dalla propria famiglia a cui segue spesso il peggioramento delle condizioni materiali e anche, talvolta, di quelle psicofisiche (1).

In questo modo il mito della famiglia felice e radicata sul territorio, che vive di mestieri non per forza illustri (2) ma solidi e longevi – parlo di mito perché, pur trattandosi di fatti realmente accaduti, la narrazione di fatto viene a-storicizzata e decontestualizzata – torna vivo nell’immaginario di giovani adulti che, dopo la bulimia della città che non dorme mai, della dura gavetta e della tanto agognata carriera, si ritrovano molto più vicini ai valori famigliari dei loro genitori che a quelli dei protagonisti di “Friends” (3).

Tornando alla condizione femminile, sarebbe ridondante approfondire questioni come il salary gender gap e le infinite varianti di vessazioni che le donne devono subire sul lavoro. D’altra parte, dice Kelly, non è da sottovalutare neppure la percezione dei maschi nei riguardi di certa narrazione mainstream che spinge a lasciare indietro chi, fra loro, non corrisponde a precisi canoni di genere all’interno dei quali paradossalmente l’oggettivazione della donna è di fatto ancora viva e vegeta (4). Non poche donne, infine, si percepiscono “betrayed” da un femminismo third-wave che da una parte invita a crescere le proprie figlie come “del tutto indipendenti dagli uomini” (5) ma dall’altra pare aver mancato di proteggere le donne dalla pervasività maschile (6).

La sottocultura tradwife punta il dito contro la modernità come causa ultima di questo imbroglio e in cambio offre come soluzione al problema (“escape” dice Kelly) uno stile di vita improntato sui valori della morigeratezza, del matrimonio religioso e della maternità.

Il problema è che l’escapismo… bisogna poterselo permettere.

(Nota per gli interessati: 1. Negli USA, la percentuale di giovani adulti ancora residenti in casa con i genitori ha toccato il 52% nel 2020. Questo valore è il più alto nei 120 anni recensiti e l’unico superiore al 50%. Il Covid ha sicuramente influenzato il risultato ma le testimonianze puntano a considerare questa variazione come un trend in diminuzione dalle cause multifattoriali, tra cui esborso economico insostenibile, senso di solitudine, lontananza dagli affetti, carenza di opportunità lavorative stabili. Le tradwives insistono sull’inapplicabilità e sull’obsolescenza del modello “Carrie Breadshow”: la ragazza in carriera che rientra in appartamento solo per dormire – ragnatele in bagno e pittura scrostata – ha il frigo perennemente vuoto, si nutre di piatti pronti al bar e macina una serie infinita di relazioni che non la lasciano mai sazia ha terminato di generale quell’appeal di cui tante giovani donne si erano cibate sino a un decennio fa. 2. Malgrado la narrazione mainstream del Campus come luogo privilegiato per la crescita personale e l’affermazione professionale, l’istruzione secondaria statunitense non sembra godere di buona salute: le fonti raccontano di un calo di iscritti al College pari al 38% nel 2021. La rinuncia agli studi superiori è cavallo di battaglia di alcune delle tradwife influencer più quotate, che dichiarano espressamente di aver abbandonato il College dopo essersi rese conto che non avrebbero mai voluto/potuto portare avanti la professione per la quale si stavano preparando, vuoi per difficoltà economiche, vuoi per gender gap o riduzione dell’offerta, vuoi per mutata scelta personale. Altre influencer più giovani dichiarano di non essere nemmeno interessate alla laurea, poiché non utile ai fini del progetto di vita che stanno perseguendo. 3. In USA, corporations e aziende più quotate si avvalgono da decenni di robuste politiche basate sulla diversity – l’impegno a creare un ambiente professionale costituito da una forza lavoro composta da individui provenienti da vari sistemi culturali e di origini geografiche differenti. Kelly inserisce le politiche aziendali di diversity fra le motivazioni del malcontento di cui sopra, poiché di fatto hanno ridotto il numero di opportunità professionali a disposizione degli americani – o almeno questa è la percezione di una fetta di popolazione. Ormai insomma s’è capito: la carta della flessibilità è la tremendous opportunity di chi ci propone il precariato a vita. 4. Da “Working girl” [1988], la storia della segretaria di Staten Island – Melanie Griffith – che grazie al proprio genio e alle proprie capacità scavalca la referente [una incarrierata e presissima Sigourney Weaver] scalando le vette della società di brokers presso cui lavora [storia d’amore inclusa con uno dei soci, interpretato da Harrison Ford] fino a “The Secret of My Success” [1987], in cui il neolaureato Michael J. Fox, assunto come fattorino nella società assicurativa di un parente, grazie alla propria intraprendenza e conoscenza della materia salva la ditta dalla bancarotta, è tutta una celebrazione dell’atavico mito del self-made men, il giovane americano che facendo affidamento unicamente su se stesso riesce ad affermarsi nel mondo, crescita esponenziale del conto in banca inclusa. 5. Uno dei punti che il movimento tradwife più spesso sottolinea è la necessità di normalizzare il bisogno del maschio: non si fa riferimento alla soddisfazione sessuale ma a una generale necessità intima, potremmo dire di completamento emotivo, che le tradwives invitano a tornare a considerare come naturale e fisiologico. 6. Si vedano dati/notizie sulle molestie sul lavoro oppure le recenti problematiche sorte dalla presenza transgender in ambiti che nel tempo e con tante lotte e sacrifici si era faticosamente riuscite a rendere ad accesso esclusivamente femminile.

Foto di Annie Spratt su Unsplash

Soldi soldi soldi tanti soldi

Un contributo del 2023 su USA Today a firma Elizabeth Grace Matthew si impegna a confutare in maniera precisa le cause storiche che il movimento tradwife porta a giustificazione paradigmatica della scelta homesteader (1). Per il movimento, la ricollocazione indoor della moglie, che di fatto si impegna a trascorrere la maggior parte del proprio tempo all’interno dell’abitazione nella cura di casa, alimentazione e prole (2), è corretta e auspicabile perché recupera la natura stessa della donna che – in una sorta di universale convergenza evolutiva – da sempre e in ogni dove avrebbe spontaneamente ricoperto il ruolo di domesticity and child-rearing.

Niente di più falso e ahistorical, dice Matthew (che è madre di quattro figli e si definisce una moglie tradizionale ndr), perché il contributo alla produzione economica da parte delle donne è una costante che attraversa epoche e culture diverse, almeno fino alla rivoluzione industriale (3) ossia fino al momento in cui le donne bianche appartenenti alla middle- and upper-class cominciarono ad auto-escludersi dal mondo produttivo.

“L’idea che il posto di una donna sia sempre in casa è fuori portata per tutti, tranne che per un piccolo gruppo di élite ricche e prevalentemente bianche” (4) perché “nel frattempo le donne nere, le donne immigrate irlandesi e le donne bianche più povere senza la sicurezza finanziaria per concentrare la loro attenzione esclusivamente sulla casa furono escluse da questa nuova definizione di femminilità”. Poiché una donna che lavora fuori casa ed è per di più in possesso del breadwinning status (5) non è per definizione meno materna di una casalinga, chiosa Matthew, è evidente che il movimento tradwife non faccia nient’altro se non “pigeonhole-[ing] our cultural conceptions of manhood and womanhood”, espressione che mi ha sempre incuriosita moltissimo e che potremmo neolinguisticamente tradurre come: “rafforzare, incasellandoli, i ruoli di genere maschio/femmina”.

(Note per gli interessati: 1. Con “homesteader” si indica, letteralmente, una famiglia di coloni, coloro che coltivano la propria terra. 2. “A woman’s place is always in the home”. 3. Quando nelle società occidentali il lavoro, dice Matthew, si trasferì alla fabbrica dai campi – nei quali le donne sono sempre state impegnate al pari dei maschi, con mansioni che certo tenessero conto, ad esempio, di gravidanza e puerperio ma non meno impegnative/fondamentali – le famiglie operaie passarono da un’economia di sussistenza a un’entrata a salario fisso: in questo modo quelle mogli i cui mariti guadagnavano a sufficienza per sostenere il proprio nucleo familiare cominciarono a “ladyhood-izzarsi”: l’auto-esclusione dal mondo del lavoro diventa così espressione di distinzione sociale, a imitazione delle donne delle classi abbienti e aristocratiche, che la catena di montaggio l’hanno vista sempre e solo in fotografia o quando accompagnavano in fabbrica il coniuge-padrone per il giro di auguri natalizi agli operai – ma che nemmeno hanno mai preso la mano sulle attività domestiche: ce le vedete Elizabeth Bennet o Rose DeWitt Bukater rifarsi il letto da sole, alla mattina? Appunto. 4. “Old-fashioned and non viable model” fa notare Matthew. 4. Le statistiche dicono che in USA il 16% delle donne sposate [analisi su matrimoni “opposite-sex”, cioè fra eterosessuali] detiene lo status di breadwinning – ossia guadagna più del compagno; il 29% guadagna una cifra pari.

Carrie Bradshaw e Olivia Pope: l’inganno dei fictional characters

Non è un caso che il movimento tradwife, nato fra la popolazione femminile bianca della Bible belt, stia prendendo piede fra le donne afroamericane. Malgrado alcune differenze terminologiche e di concetto (1) sembra che la scelta di aderire al movimento dipenda dal desiderio delle donne afroamericane di “ritirarsi dalle pressioni professionali”, dopo decenni di trattamenti iniqui ricevuti sul luogo di lavoro (2). Anche nella narrazione black torna con frequenza il tema del tradimento (“scammed”) da parte dell’attivismo femminista, nella proposizione di una donna emancipata, altamente scolarizzata, economicamente autonoma che avrebbe fatto la differenza. Nel caso delle donne afroamericane, la virata verso il movimento tradwife identifica sì un ripiegamento ma anche un momento di critica profonda nei confronti del white feminism (3). Abbracciare temi tradwife definisce quindi l’intento, in certi contesti chiaramente esplicitato, di riappropriarsi di una dimensione di femminilità personale e familiare, comprensiva anche dello stare in casa ad occuparsi dei propri figli e del proprio marito, di cui le donne afroamericane sono state defraudate di fatto e da sempre.

(Note per gli interessati: 1. il movimento delle black tradwives preferisce il tag #blackhousewife e tende ad esaltare l’aspetto biblico del matrimonio rispetto alla visione tradizionale. (2) Vale la pena ricordare, così en passant, che in certi periodi della storia americana alle donne nere era stato fatto perfino divieto di restare a casa […si lamentava la penuria di cuoche, cameriere, domestiche, lavapiatti…]. L’alto tasso di incarcerazione/morte violenta dei maschi afroamericani ha fatto in modo che le donne assumessero su di sé anche il ruolo maschile sia da nubili sia da mogli e madri, negandosi così una parte importante della propria dimensione femminile e che le madri afroamericane, in percentuale maggiore accompagnate da più di un partner nell’arco della vita dato quanto sopra, fossero esposte a fenomeni di critica collettiva nei riguardi della loro presunta amoralità.)

Conclusioni (più o meno)

“Quelli di noi che apprezzano la famiglia con due genitori dovrebbero investire nell’ampliare il suo fascino, non fare il contrario accreditando un ideale di esclusione per vantaggi immeritati e poco pratici”, chiosa Matthew in conclusione al suo approfondimento, sottolineando di come il ripiegamento di fronte a una difficoltà socio-economica collettiva sia meccanismo ormai noto e studiato dalla sociologia che ha ampiamente dimostrato come esso non porti ad alcun mutamento delle condizioni di partenza, anzi. D’altra parte, rimbalza Kelly, non è che le donne percepiscano come realmente emancipata la loro vita da bossy girls, fra difficoltà economiche, mobbing e sessismo sul lavoro, solitudine e una struttura che di fatto rende il worklife balance più vicino al mito che a un diritto che si pensava ormai acquisito.

La riflessione – individuale, collettiva, nella vita reale e sui social – è quindi apertissima.

“Whenever someone is selling you aspiration, I think alarms should be going off saying ‘I should be consuming this with a critical eye.” (Nylah Burton)

I temi sono molti e certo non possono esaurirsi su un blog. Ho pensato potesse essere utile sistemare tutto qui perché è il mio spazio, quello che uso per riordinare le idee. Spero possa essere utile anche ad altri, nel modo che ho avuto di presentare la questione. Grazie per essere arrivati fino a qui. Alla prossima.

Notizie da bordo piscina/2. Dalla casalinga disperata alla tradwife: storia di un fenomeno (parte due)

Trovate qui la prima parte di questo fantastico excursus!

Una mucca per il congelatore

Nel reel apparso ieri sulla timeline di Instagram, la mia tradwife preferita è ripresa mentre maneggia una pagnottella di lievito madre e farine con una destrezza che neanche la nostra prozia di Aci Castello. L’inquadratura, di taglio professionale, la vede al bancone della cucina – legno grezzo, luce naturale dalla finestra – e mette in evidenza l’outfitas a 22 years old housewife: maniche rimboccate ai gomiti, apron a rouches rosa antico, gonna lunga con balze, foularino ai capelli. Al filmato si accompagna una colonna sonora peaceful orchestra e in sovrimpressione scorre il breve testo: Save for what we value” (“Risparmia per ciò che vale!”), seguìto da un elenco di punti tra cui spese sanitarie, pneumatici per l’automobile e “a cow for the freezer”.

Un altro video recente la presentava assediata da pentoloni di marmellate fumanti, abilissima esperta del Lid-vacuum (la macchina per il sottovuoto); in un altro filmato la si vede separare dalla panna il latte appena ritirato presso il fattore. Nella didascalia: “Pov: you eat seasonally, source locally, grow your own & preserve as much as you can” (“Punto di vista: mangi secondo stagione, usufruisci di risorse locali, coltiva il tuo [necessario] e metti da parte quanto più possibile”).

Acqua potabile

In USA, terra di gente che in media cambia città di residenza 11.7 volte nel corso della vita, con un tasso di permanenza che raramente supera i cinque anni, è consolidata abitudine consultare i website di ranking (“classifiche”) per verificare che nel luogo in cui ci si intende trasferire i parametri di interesse corrispondano alle proprie necessità. La reportistica è varia e accanto ai temi più quotati, relativi alla dimensione professionale, compaiono anche sezioni dedicate all’analisi ambientale, con indicazione dei luoghi nei quali è più agevole e garantito l’accesso a un’alimentazione sana e “local (chilometro zero) e a fonti di acqua potabile verificate; a ciò si aggiungono, infine, i dati sulla disponibilità di offerta in fatto di vita comunitaria, laica o religiosa.

(Nota per gli interessati: le statistiche di argomento professionale vertono sulla verifica delle opportunità di carriera e dei tassi di disoccupazione, su costi e disponibilità degli immobili, in vendita o locazione, e sulle modalità del commuting [tempi e modi del tragitto casa-lavoro]. Molto consultate anche le stats sulla presenza di microcriminalità e sul tasso medio di istruzione locale. Last but not least: per le statistiche relative alla potabilità dell’acqua, “Drinking Water Violation Rate” è la dicitura specifica: tutto un programma, vero?)

Numeri alla mano, si capisce che per gli americani sapere cosa c’è di preciso nel liquido che esce dal rubinetto o cosa sia davvero finito dentro alla famigerata cheesburger soup servita avant’ieri per cena non siano questioni derubricabili a una fissa da viziati hippie primomondisti. Le ragioni vanno cercate nella scarsa fiducia del consumatore statunitense verso il comparto alimentare, che per quadri normativi non sempre trasparenti e conclamate vicende giudiziarie risulta spesso ormai inaffidabile dal punto di vista della qualità sanitaria dei prodotti. Questo nuova consapevolezza coinvolge sempre più individui, spingendo le comunità locali a riformulare il modello di approvvigionamento: ove possibile si tende a virare su microimpresa domestica a chilometro zero, consumo secondo stagione, agricoltura organic indipendente dal biologico in scala (che ha prezzi inaccessibili). La produzione homemade su terreni controllati e materie prime verificate è passata da alternativa cozy a improrogabile necessità, non priva di una certa ossessione; ma, come si vede, gli americani hanno i loro buoni motivi.

(Note per gli interessati: L’offerta di testi che raccontano i disastri ambientali statunitensi è ampia e variegata e va dalla realistic fiction alla saggistica divulgativa. Su Goodreads, al tag “environment” sono associati, ad esempio, il romanzo “L’America sottosopra” di Jennifer Haigh [2018, Bollati Boringhieri] che affronta attraverso personaggi di finzione le drammatiche vicende di una certa parte rurale della Pennsylvania sottoposta alle attività estrattive per mezzo della tecnica del fracking, o le opere narrative-non-fiction di Elizabeth Kolbert e Naomi Klein).

Foto di Rob Wicks su Unsplash

One-income tradfamily

Non deve quindi destare stupore che il movimento tradwives dedichi tanto spazio agli argomenti relativi all’alimentazione. Per mezzo di video a estetica variamente romanticizzata (“homemade meals aesthetic”), le nuove casalinghe tuttavia celebrano – o giustificano, a seconda di come si voglia vedere la questione – il ritorno alla tradizione del cibo fatto in casa quale strumento di valore per ottenere non solo salubrità del prodotto/salvaguardia ecologica ma anche un consistente risparmio di denaro (sfruttando anche lo scambio comunitario di baratto/vendita solidale) e, ultimo ma non ultimo, per riappropriarsi della propria dimensione femminile.

Lo stile utilizzato per raccontare la scelta di vita che si basa su un reddito solo – che Ça va sans dire corrisponde all’entrata procurata dal maschio di casa – è su per giù quello del “SI PUO’ FARE” di Brooks-eniana memoria e le modalità con cui far fronte all’indiscutibile complessità del tema convergono sui concetti chiave della sobrietà, della rinuncia consapevole a beni definiti voluttuari e dei vantaggi che ne derivano (diminuzione dello stress legato a orari e responsabilità, possibilità di gestire meglio casa e famiglia, evitando la delega – donne delle pulizie, tintoria, spesa on line, babysitter, giornata scolastica lunga 12 ore ecc.). Sui social la descrizione delle pratiche saving si limita per necessità a qualche accenno ma niente paura: per una cifra solitamente inferiore ai 50 dollari, 40% off nel Black Friday, è spesso possibile acquistare l’ebook “Our affordable life as a one-income basic family” (titolo che invento, giusto per non tirare in ballo nessuno in particolare), una guida rapida e accessibile che tramite tips and tricks basati sull’esperienza pratica aiuterà chi lo desidera a “tagliare le spese e gestire il denaro in maniera più saggia”, definendo le proprie priorità e costruendo piani di risparmio.

(Note per gli interessati: la struttura organizzativa di questi testi è più o meno univoca. Si parte da un capitolo introduttivo sul “da dove cominciare”, dedicato a chi sente la necessità di un cambio di passo/nuovo modello di vita, per poi scendere nel dettaglio dell’analisi delle priorità. Interessante il punto sull’autocoscienza: quasi mai compaiono elenchi di spese dichiarate inutili a priori; è presente piuttosto un generale invito alla riflessione – “la verità è già dentro di noi” – sui temi del capitalismo, della teoria della creazione del bisogno sempre insoddisfatto e della scelta consapevole e che si auto-limita. A seguire di solito i capitoli più tecnici, con tabelle e conteggi, e alcuni compendi sull’utilizzo di prodotti alternativi e più economici per la gestione della quotidianità, dalla spesa ai detersivi, dai vestiti al parrucchiere. Accanto a osservazioni e piani di risparmio interessanti convivono suggerimenti che a prima vista ci possono apparire francamente banali del tipo “non usare la carta di credito se sai di avere il conto in rosso”: se però confrontiamo questa osservazione con gli ultimi dati usciti per FED New York – che dichiara per il secondo trimestre 2023 un debito USA  di 1.000 miliardi USD sulle carte di credito e un tasso di morosità superiore a quello degli 11 anni precedenti – si capisce come la questione sia concreta ed emergenziale.)

Sottomessa al marito

Il movimento tradwives insomma celebra abitudini nuove pescando a piene mani nella sedicente convergenza evolutiva secondo cui le donne di tutto il mondo sin dalla preistoria sarebbero state esclusive protagoniste dell’organizzazione domestica, in specie per quanto riguarda raccolta, produzione e conservazione alimentare; niente di più che un back to the origins, quindi. Master and commander di tutto ciò è il marito che di fatto tiene i cordoni della borsa e che ha la facoltà – magari non la userà mai, però ce l’ha – dell’ultima parola in fatto di amministrazione del denaro di famiglia. Marito a cui la moglie sta in rapporto di amore reciproco e submission.

Il concetto di “sottomissione” è biblico e a questo contesto si rifà, volente o nolente, la maggior parte delle tradwives influencer. Infilarsi in Google alla ricerca di “definition of submission”, però, è un atto per cuori impavidi perché le questioni filologiche, non da poco, si sovrappongono come si può facilmente intuire alle traduzioni interpretative. Il problema nasce anche dalla circolarità delle definizioni che talvolta, specie nei siti di target più ampio, faticano ad andare oltre il recupero della parola sacra. Per la maggior parte vengono citati i testi biblici di riferimento – il passo più quotato è Pietro, 3:4-6 – a cui spesso segue l’associazione con brani che indicano Dio come termine ultimo di sottomissione.

Il dubbio è che tramite queste associazioni si finisca per suggerire una sorta di identità semantica fra l’obbedienza che deriva dal riconoscimento di un’autorità sociale/politica (capoufficio/individui l’uno verso all’altro come comunità) e il rapporto di sottomissione moglie/marito – procedura che come si può intuire esclude a priori tutti i temi di relazione maschio/femmina, dall’erotismo fino alle questioni del patriarcato e dell’abuso; tant’è che, onde smussare il senso di “unconfortability” che ne deriva, con frequenza ci si sente in dovere di porre l’accento sugli aspetti “mutual” (“reciproci”) della subimission: “selflessness, service, accountability, and respect” (“altruismo, servizio, responsabilità e rispetto per il proprio partner” nell’ottica di una generale accettazione della volontà divina). Ove richiesti approfondimenti, le definizioni spesso utilizzano la formula al negativo, elencando ciò che NON significa submission: la sottomissione “non pretende che la donna dimentichi il suo cervello sull’altare”, “non significa che la donna non possa avere opinioni”, “non apre la porta alla violenza domestica”, “non è un rapporto legato al valore individuale” ed è difficile (o almeno, io per ora ne ho trovato scarso riscontro) che si faccia riferimento alla sostanziale estraneità del messaggio di Cristo nei confronti di una certa tipologia di cultura patriarcale.

(Note per gli interessati: il termine greco utilizzato è Υποτάσσω, che è in realtà d’uso militare [Υπο: sotto, τάσσω: mettere] e letteralmente indica la maniera in cui le schiere di soldati vengono sistemate in assetto da battaglia, ciascuna sotto il proprio generale. Nella Bibbia il termine compare 12 volte e sempre a voce verbale, mai come sostantivo, il che è già degno di nota perché rende più esplicita la necessità della contestualizzazione spazio-temporale. Nb: Non si pretende qui di offrire una panoramica esaustiva su questioni di esegesi biblica tanto complicate. In questi paragrafi ho voluto unicamente evidenziare alcune delle criticità più evidenti della questione, senza pretesa di esaurire in poche righe un argomento la cui complessità parte addirittura da questioni filologiche.)

Di fatto – per tornare alla concretezza del frigorifero – è difficile trovare una tradwife influencer che sui social risponda candidamente, con sì o no, alla domanda: “Se mio marito mi dice che non posso comperare verdura questa settimana, posso acquistarla ugualmente se lo ritengo necessario per la mia salute o per quella dei miei figli?”. E’ su tale, semplice questione che gli animi delle commentatrici si infiammano, costruendo volumi di engagement di dimensioni considerevoli.

Nel prossimo e conclusivo episodio di questa deep dive saga: differenze tipologiche e, da qui, breve cenno agli argomenti tabù (oh sì, ce ne sono). Analisi presenza e posizionamento di tradwives a etnia non bianca / minoranze. Clicca qui per andare alla terza e ultima parte.

Notizie da bordo piscina/1. Dalla casalinga disperata alla tradwife: storia di un fenomeno (parte uno)

Con questo articolo si dà il via a una piccola rubrica di pezzi semiseri ad argomento vario: approfondimenti su notizie che ho letto su internet, annotazioni recuperate da articoli di giornale o da programmi radio. Io le chiamo: le cose che non sono libri ma che mi possono servire per capire i libri – e quello che sta dietro, e dentro.

Foto di Chloe Skinner su Unsplash

Retroscena

Alcuni mesi fa, mentre cercavo la ricetta della “cheeseburger soup” – quindi sì, posso dire che di fatto è tutta colpa mia – l’algoritmo di Instagram mi offrì, tra un video e l’altro di pentole a cottura lenta, il reel appena pubblicato da una giovane donna del Missouri.

(Nota per gli interessati: le pentole per la cottura lenta di preparati tradizionali quali appunto la cheesburger soup si chiamano Crock Pot: medesima questione per cui noi ai bastoncini per la pulizia delle orecchie ci riferiremo sempre col nome di Cotton Fioc indipendentemente dalla marca acquistata).

Attraverso un’estetica dichiaratamente vintage, pulita e priva di ridondanze, con un’accuratezza professionale sui seppia ma senza darci dentro troppo nei filtri, questa ventiduenne acqua e sapone – che si auto-definisce “retired” dal mondo del lavoro (ndr: era fotografa matrimonialista, ecco il perché della competenza tecnica e lo so: dirsi “pensionata” a 22 anni suona bizzarro; ci arriveremo) – da circa un anno si impegna nella cronaca della sua nuova quotidianità tramite i canali social Instagram e Youtube.

Insomma, senza rendermene conto mi ero appena imbattuta – maledette furono le pentole – nella mia prima “Tradwife” e “Homesteaderinfluencer (così self-identified in bio).

Foto di Elisa Calvet B. su Unsplash

La tana del Bianconiglio

Scorrendo il feed, francamente attrattivo (66mila follower), scopro che la signora di cui sopra è sposata da poco e si dice molto innamorata del marito; la coppia vive in una piccola abitazione rurale nella Phelps County (44mila abitanti per circa 1700kmq); i due sono di fede cristiana e per il momento non hanno figli anche se il progetto è di allargare la famiglia.

(Nota per gli interessati: la contea di Phelps, situata nella parte centrale del Missouri, è terra di coloni europei dai primi dell’800. Cittadina di riferimento è Rolla, teatro di alcune battaglie importanti durante la Guerra Civile. L’economia si basa su agricoltura intensiva e allevamento ma il posizionamento industriale – automobili e macchinari – è ampio e variegato. La contea fa parte della cosiddetta “Bible belt” a maggioranza protestante anche se il cattolicesimo è ben rappresentato, secondo diverse confessioni. Racial composition: 85% bianchi, 2.8 latinos, 2.3 black/african. A maggioranza repubblicana, ça va sans dire.)

Le attività giornaliere in cui la donna si impiega mentre il marito è al lavoro riguardano per la maggior parte la gestione della casa e del coniuge: sveglia alle 6, preghiera e studio della Bibbia, toilette, preparazione della colazione e della pietanziera per il marito e poi rassetto delle camere, lavatrice, stenditura, cura degli animali (oche e galline) e del piccolo orto, spesa e dispensa con auto-produzione alimentare inclusa (pane e prodotti di pasticceria, conserve, burro).

Vengo a sapere inoltre che in casa non è presente la televisione. Nel tempo libero la donna si dedica alla lettura: l’attualità pare esclusa, conclamata invece la predilezione per narrativa di impronta vittoriana e il romancenot spicy” (ovvero privo di scene di sesso esplicito), saggistica e compendi teologici.

(Nota per gli interessati: esistono termini specifici per indicare la narrativa romance contemporanea scevra da contenuti sessuali espliciti. Su Goodreads possiamo trovare, per esempio, elenchi di varie reading suggestions per letture “non steamy” (letteralmente: “senza vapore”!) o “no spicy” (come si intuisce: “non piccante”) e, ancora, “no smut” (prive di… “fuliggine”, sostantivo che in senso astratto assume il significato di “oscenità”).

A dormire si va rigorosamente non oltre le 21, dopo aver passato la serata in attività di “sewing” (ricamare, rammendare e cucire vestiti, riadattando alla propria misura quelli comperati nei negozi dell’usato). La giovane donna non segue particolari dress code, tiene a precisare – ogni tanto posta scatti in jeans o abiti di foggia contemporanea -, ma per gusto personale preferisce gonne ampie e lunghe, aprons (grembiuli), cardigan e camicette, fiocchi e intrecci ai capelli. Si definisce “nata nel tempo sbagliato”. Appassionata di pottery, frequenta con curiosità mercatini e vendite di beneficienza, da cui recupera piccoli pezzi spesso dipinti con rappresentazioni di anatroccoli e papere; è attrice dilettante per i musical messi in scena dalla comunità parrocchiale.

(Nota per gli interessati: nel linguaggio della Tradwives subculture uno degli aggettivi più utilizzati a proposito del vestiario è thrifty, ovvero “economico” nel senso di “parsimonioso, frugale”, che obbedisce anche, se possibile, ai dettami della sustainability ambientale).

Da qui a seguire almeno un’altra ventina di profili simili costruendomi, va detto, una certa addiction, è stata questione di pochi click.

Il fenomeno: definizione

In linea generale, quando parliamo diHomemakers ci riferiamo a donne bianche nella fascia d’età 30-40 che hanno abbandonato lavoro o carriera dopo un numero variabile di anni di servizio per dedicarsi a tempo pieno a casa e famiglia oppure a giovanissime ventenni che a lavorare non hanno nemmeno cominciato, piccole occupazioni estive a parte, e che intendono percorrere la strada dell’homesteading (“metter su famiglia”).

Parafrasando Wikipedia, possiamo definire il fenomeno tradwives come un “neologismo per traditional wife o traditional housewife che nella cultura occidentale contemporanea indica in maniera specifica una donna che fa propri e mette in pratica i tradizionali ruoli di genere, anche all’interno della relazione matrimoniale”. Questo movimento possiede tratti distintivi e comuni ma rivela anche declinazioni diverse, sia per contenuto sia per target di riferimento.

Il fenomeno: caratteristiche web

Per la maggioranza delle tradwives la formula preferenziale di comunicazione social breve è il reel, accompagnato da linee di testo sovraimpresso e sottofondi musicali rural folk piano o stage and screen: video brevi e accattivanti, insomma, costruiti al fine di dare testimonianza di uno o più aspetti di ciò che queste influencer interpretano come parte integrante della propria nuova vita di casalinga tradizionale. Eventualmente segue in calce una caption (didascalia) esplicativa, non obbligatoria – perché queste tradwives non è che abbiano così tanto tempo da spendere (si legga “perdere”) sui social.

La community di riferimento è composta da donne che già condividono la tradwives subculture e – chi più chi meno – ne mettono in atto le linee guida (il punto è quindi offrire “tips and tricks” per la corretta cura di casa/marito/figli/finanze/alimentazione e per darsi man forte dell’affrontare il senso di isolamento e di stigma sociale che può derivare da una quotidianità all’apparenza solitaria e poco stimolante), o che desiderano avvicinarsi a questo stile di vita (si parla allora di “empowering women to take back their roles”).

Argomenti

A una prima osservazione, sembra possibile raggruppare questi micro-filmati in base ad alcune linee tematiche:

  1. Economia e finanza: accento sulla tematica dell’one-income, ossia sul fatto che la famiglia si trovi a contare su un’unica fonte di reddito (ndr: l’occupazione professionale del marito)
  2. Società: rivendicazione dei ruoli di genere e della dimensione di famiglia tradizionale all’interno della quale il marito si reca quotidianamente al lavoro mentre la moglie si occupa della casa e dei figli
  3. Valori morali e dimensione religiosa: viene dichiarata apertamente l’appartenenza a un credo, solitamente cristiano (differenti poi le confessioni), a cui segue la necessità di attenersi a determinati principi morali; a questi principi deve corrispondere uno stile di vita consono, anche in relazione alla comunità parrocchiale di riferimento, che spesso viene riassunto con il termine modesty (per grandi linee traducibile con “sobrietà”).

Da queste macroaree discendono altri sotto-argomenti, che approfondiremo in seguito.

Spoiler: uno dei temi che provocano maggiore engagement e momenti triggering fra le accanite commentatrici è l’argomento sociale, che come si può facilmente intendere porta con sé la riflessione sulle tematiche femministe e dell’autodeterminazione della donna, dal rifiuto del modello “bossy girl” a quello, spinosissimo, della “submission” – ossia della sottomissione della donna al marito. “Feminine, not feminist”, recita la bio di una delle maggiori – e criticate – tradwife IG influencer.

Foto di Fleur su Unsplash

Benvenuti, insomma, nel fantastico mondo delle tradwives!

Un movimento anglosassone non nuovissimo ma in forte ascesa (dal post-Covid, e non è un caso), di donne – single, fidanzate, sposate, madri, età varia (false: il range non è così lasco), ceto sociale ampio (anche qui c’è da rifletterci) ed etnia ininfluente (idem come sopra) – che promuovono uno stile di vita quotidiano legato in maniera “ultra-tradizionale” ai ruoli di genere.

Cosa potrà mai andare storto? Probabilmente tutto. Attenzione però a non derubricare questo fenomeno all’ennesima fissa ossessivo-escapista di una specifica parte di mondo occidentale, bianca e privilegiata o, ancora peggio, all’esito di certa cultura patriarcale, di maschilismo interiorizzato.

Cosa sottende questo movimento, cosa ci racconta dell’ansia sociale che pervade da sempre, sebbene declinata in modi differenti a seconda del contesto storico, la parte femminile dell’umanità tutta? Perché la tradwives subculture è stato avvicinata, in specie per quanto riguarda gli Stati Uniti, agli ambienti dell’ultradestra trumpiana? E infine: c’è chi ne sta parlando, in letteratura – e se no, perché?

In questo momento, su IG sono presenti 62.5mila post con hashtag #tradwife, 17.8mila per #traditionalwife e 731mila con tag #homemaker.

Grazie per essere arrivati fino a qui. Nella prossima puntata (sentitevi liberi di commentare con un sereno “gentilissima, ma anche no”) approfondiremo a grandi linee i tre punti a tema: dalla gestione delle finanze domestiche, strettamente legata al principio della “submission” fino all’aspetto religioso, passando per …il fare l’orto e il consumo di alimenti “organics”.

Trovate qui e qui i link alla seconda e alla terza parte dell’approfondimento.

NB: bibliografia su richiesta; se interessati, scrivete al solito appuntidicarta@gmail.com