“Sud”, di Mario Fortunato

Storia di copertina: “The Diagonal”, uno dei lavori più noti di Euan Uglow (UK, 1932-2000). Pittore con predilezione per le figure umane, aveva lo sguardo rivolto alla scultura di cui fissava nel dipinto i tratti, i modi, le strutture. Questa donna (?) mi ha conquistata: nuda, sotto un sole estivo, fuori campo – stampa lucidissima a contrasto anche tattile con la cornice bianca – rappresenta l'involucro del corpo, mi pare, che dà forma ai nomi della storia.

“I decenni volano mentre certi pomeriggi non passano mai” (pag194)

Di questi tempi il rapporto che abbiamo con la “nostra memoria” si tinge di complessità. Se da una parte è concreto il bisogno intrinsecamente umano del ricordo, dall’altra è pur vero che il nostro passato storico, specie novecentesco, ci chiama alla necessità di una rielaborazione e ri-contestualizzazione, esigenza a cui occorre dar voce e che va collocata in quel preciso, nevralgico momento che sta tra l’accettazione acritica di una realtà avvenuta, e in un certo modo raccontata, e la tentazione della damnatio memoriae.

Con questo spirito mi sono avvicinata a “Sud” di Mario Fortunato, che ho domandato a Bompiani per via della mia bolla su Twitter – all’interno della quale questo racconto “bi-familiare” girava da qualche settimana. Sul palcoscenico di un mai chiaramente identificato paese del sud Italia, Fortunato mette in scena una saga familiare – in realtà doppia, perché comprende due nuclei distinti, quello “del Notaio” e quello “del Farmacista” uniti dal vincolo di matrimonio tra Tamara, figlia del Farmacista, e “l’Avvocato”, figlio del Notaio – che si snoda dagli albori del fascismo sino al 1970 circa. A far da perno della vicenda, che è strutturata attraverso una godibilissima narrazione svelta, a episodi (all’interno dei quali poi si creano rimandi e ritorni quasi stessimo assistendo a una sorta di intricata Spoon River calabrese), è la figura del “Notaio” attorno al quale ruotano decine di comprimari: l’amante di gioventù, le due mogli (Vita e poi Elvira), i sette figli tra cui “l’Avvocato” (non conosceremo mai il suo nome di battesimo), le persone di casa (le domestiche/balie Cicia e Rosa, la cuoca Maria-la-pioggia, l’autista-confidente dell’Avvocato, Ciccio Bombarda), i nipoti tra cui Valentino – figlio dell’Avvocato, da cui prende avvio tutto il racconto – la nuora Tamara con i consuoceri (il padre “Farmacista”, la madre Lea), i fratelli di lei Maria, Giorgio e Nina, i figli Picchio, Erri, Vita e appunto Valentino. Parrebbe faticoso seguire le vicende di ognuno; tuttavia dopo poche pagine e l’aiuto di un paio di alberi genealogici all’inizio del testo ogni linea narrativa si dipana evidente, tanta è la varietà di vita e di esperienze diverse contenute in ciascuna.

In numerose interviste, tra cui per esempio quella a Fahrneheit e Rai Cultura, Mario Fortunato racconta la genesi di questo “romanzo familiare” che se da una parte ha l’intento, come ogni romanzo storico, di mettere insieme “la dimensione personale e quella collettiva” dall’altra si impegna a creare una narrazione di un sud alternativo, perché liberato dagli stereotipi relativi al modo in cui comunemente viene trattata la questione meridionale e da quel binomio quasi “folkloristico” miseria/nobiltà che per una volta resta ai margini, con i suoi colori privi di sfumature. Il mondo che Fortunato infatti attrezza è quello della borghesia – di cui era ricchissimo il sud Italia – quasi mai rappresentata a favore di una narrazione sovente archetipizzata; un mondo nel quale era forte il senso di avvicinamento tra le classi sociali, al cui interno la quotidianità era imbrigliata in una rete di rapporti fittissimi, raramente di malanimo, più spesso di profonda fratellanza – e sorellanza. “Sud” non è un libro sulla questione meridionale ma è, di fatto, un libro che si occupa anche di politica e critica sociale nella misura in cui spinge alla riflessione su quel procedimento di rimozione che ha caratterizzato spesso la raffigurazione del sud novecentesco. Il tema dell’ “ubi sunt”, da cui il romanzo parte (il “dove sono” di un Valentino ormai adulto che, emigrato in Inghilterra, si trova a ricevere la notizia della morte dell’ultima zia) porta con sé prima di tutto la riflessione sul proprio passato – perché il momento di guardarsi indietro arriva sempre e per tutti (in proposito, qui potete trovare il bell’articolo di Sandra Petrignani uscito per Il Foglio) – e poi spinge a un’analisi profonda su quel sud Italia fecondo, ricco di aspettative, culturalmente e politicamente attivo, ben radicato nella terra e nelle tradizioni ma aperto alle novità di un presente in rapido cambiamento. Dalla militanza del Notaio nelle fila dell’antifascismo regionale, latitanza compresa, alle lotte partigiane delle quattro giornate di Napoli a cui prende parte il figlio Vincenzo fino all’impegno politico locale dell’Avvocato, di idee socialiste, Fortunato mostra come la borghesia del sud Italia, di base colta e istruita presso le migliori scuole, abbia sempre rappresentato una parte fortemente attiva e influente della vita politica italiana pre e post-bellica.

Sicché si capisce, ritornando al principio, come il significato di memoria vada ben oltre la questione del ricordo poiché viene a identificarsi più con il concetto di appartenenza che con quello della rimembranza. Quel che si perde, sembra dire Fortunato, non è tanto il ricordo quanto la consapevolezza di quel qualcosa con cui siamo in relazione, e se si perde questo vincolo si perde il senso stesso della Storia.

Il realismo magico presente in tutto il romanzo è un altro elemento con cui occorre fare i conti leggendo “Sud”: mai come nel Novecento, racconta Fortunato, è stata così concreta e pervasiva la vicinanza tra il sud e il mito – che non solo viene dall’esperienza dell’antico ma anche dal fatto che la formazione culturale (che, si badi, coinvolge allo stesso modo maschi e femmine, vecchi e giovani) era continua e profonda: le famiglie borghesi amavano l’opera, che veniva ascoltata, cantata, recitata; si leggevano i quotidiani, si condivideva l’interesse per la lettura di prosa e poesia e la “memoria del mitico” che va dai poemi epici al culto dei morti, sempre percepiti come entità non-separabili dal mondo dei vivi. Fantasmi, visioni notturne scaturite dalla bellezza struggente del paesaggio marino o dall’arsura dei campi in agosto, voci misteriose, echi di violini e musiche risalenti alla Shoa e allo sterminio nazista riecheggiano tra i corridoi bui e freschissimi delle case di famiglia modellando un presente che si fa realtà ma anche sogno, fantasia, immaginazione.

Un sostrato ricco di elementi nutritivi che comprendevano anche, per esempio, l’apertura verso l’emancipazione femminile e un sistema-famiglia che, nonostante non potesse far altro, dati i tempi, se non relegare le donne al ruolo di figlie, mogli e madri, creava una rete di rapporti pressoché paritari, finanche di stampo matriarcale; o ancora, ad esempio, l’accettazione dell’omosessualità, riguardo alla quale di fatto non v’era scandalo. Oppure l’approccio aperto, improntato all”accoglienza e alla condivisione delle cure, nei riguardi dell’assistenza agli anziani di casa e della malattia mentale.

Sostrato di cui, con la creazione dell’Italia unita e ancor più col dramma dei due conflitti mondiali, s’è andata perduta la tradizione in nome di nuove condizioni di vita e nuove opportunità che, private del filtro ipocrita di una narrazione “strabica”, acquistano tutt’altro sapore. Opportunità che – sostiene Fortunato – in qualche modo favorirono, non del tutto ma almeno in parte, il dilagare di quella rete malavitosa locale che poi travalicherà il microcosmo del paese per trasformarsi nella ‘ndrangheta.

“Certo, i sacrifici a cui i maschi meridionali sono sottoposti in pieno miracolo economico sono paradossalmente molti di più del passato, quando facevano i contadini: lasciando il lavoro nei campi ci hanno guadagnato in denaro e in regolarità salariale, ma ora vivono ammassati in poche stanze in affitto nelle periferie più grigie del Settentrione e del Nuovo Mondo, hanno turni di lavoro estenuanti alla catena di montaggio, sperimentano la privazione del sesso e dei sentimenti, sono oggetto di discriminazioni e di razzismo” (pag154)

Di questi tempi si lamenta una certa ridondanza di temi nella letteratura italiana contemporanea – tra cui, si dice, spicca anche il “romanzo borghese”. Viene invocato il bisogno di novità: occorre aria fresca, si dice. Però io penso che sia la nostra stessa storia, culturale e letteraria, a richiamarci sempre indietro, al romanzo storico: in fin dei conti non si tratta di dover per forza inventare qualcosa di nuovo quanto di saper leggere in maniera nuova il nostro passato; utilizzando, perché no, le medesime forme con cui ci siamo confrontati fino a ora.