“L’età vittoriana nella letteratura”, di G.K. Chesterton (trad. Paolo Dilonardo)

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Libretto illuminante se volete capire qualcosa in più della #Brexit al di là delle solite, oggettive questioni (il divario sociale tra la città e provincia, l’economia in stallo, la disoccupazione giovanile, i vincoli europei troppo stretti eccetera) esso dimostra, con la sua recente pubblicazione, la tesi secondo cui il Demone Celeste dei Libri opera secondo disegni misteriosi. (O che alcuni editori, semplicemente, hanno il naso fino). Ma cosa c’entra un compendio di letteratura (vittoriana, per di più) con l’uscita del mondo UK dall’Europa direte voi. Ebbene, c’entra eccome. 

“La Britannia romana e l’Inghilterra medioevale sono non soltanto ancora vive, ma vitali: il vero sviluppo, infatti, non consiste nel lasciarsi qualcosa alle spalle, come lungo una strada, bensì nell’estrarne la vita, come da una radice. (…) Il progresso, una metafora tratta dalla strada, implica, difatti, che l’uomo si lasci alle spalle la propria casa, mentre il miglioramento comporta che egli innalzi le torri o estenda i giardini della propria dimora. L’antica letteratura inglese (…) come tutte le culture europee, era europea; come tutte le culture europee, era qualcosa di più che europea”. (p15)

“L’Inghilterra, come tutti i Paesi cristiani, assorbì elementi preziosi dalle foreste e dal rude romanticismo del Nord; ma, come tutti i Paesi cristiani, per le libagioni letterarie più prolungate si abbeverò alle fonti classiche degli antichi”. (p16)

29CAMI5-kTEE-U43340324353317G-140x180@Corriere-Web-SezioniProlifico giornalista, famoso scrittore, brillante aforista, attento critico letterario e saggista, anglicano convertito al Cattolicesimo, G.K. Chesterton (Londra 1874, Beaconsfield 1936) – sì, proprio il creatore di Padre Brown – negli anni giovanili era considerato, pensate, di intelligenza scarsa; non finì mai le scuole, non riuscì a prendere la laurea: eppure ne ricevette diverse honoris causae fino a essere candidato al Nobel per la letteratura, nel 1934. Potete leggere la sua biografia completa qui, sul sito dell’Enciclopedia Britannica.

Il suo “L’età vittoriana nella letteratura”, apparso per la prima volta nel 1913, è una carrellata veloce e appassionante sugli autori – e autrici – che hanno fatto grande (…o piccola) la letteratura inglese tra la seconda metà del 1800 e i primi anni del ‘900. Pur strutturando il testo in base alla metodologia classica della linea temporale, Chesterton punta anche sull’impianto tematico poiché si assume il compito di differenziare gli autori presi in esame in base alla loro aderenza, o viceversa ostilità, nei confronti di quello che egli da storico e critico definisce “il compromesso vittoriano“.

“Il fatto fondamentale dell’inizio della storia vittoriana (…) fu proprio la decisione da parte della borghesia di impiegare le sue nuove ricchezze per promuovere una sorta di compromesso aristocratico, anziché insistere (come aveva fatto la borghesia al tempo della Rivoluzione francese) per fare piazza pulita e formulare un chiaro programma democratico”. (p29)

La tesi di Chesterton parte di fatto da un’osservazione squisitamente politica: dal riconoscere il fallimento della “Rivoluzione inglese sull’onda di quella francese” (p19) trasformata, nella sua essenza, in una “vittoria dei ricchi sui poveri”. Questa peculiare situazione politica (“L’Inghilterra finì per diventare una terra di proprietari terrieri piuttosto che di proprietari di terre comuni” – p20) implicò di conseguenza “che dalla metà del Settecento alla metà dell’Ottocento lo spirito di rivolta assumesse una forma del tutto letteraria” (p20).

“La letteratura inglese successiva alla rivoluzione prese le mosse da una sorta di propensione all’indipendenza e all’eccentricità, che negli ingegni più brillanti divenne individualità, e in quelli più spenti Individualismo. (…) La versione più solitaria della libertà fu in Byron e Shelley una sorta di anarchismo aristocratico; me per quanto nel periodo vittoriano essa sfumasse in pregiudizi molto più blandi e in untigli molto più borghesi, l’Inghilterra serbò i quella propensione una bizzarra forma di separatezza e riserbo. Divenne molto più isola di quanto non fosse mai stata. Da allora in poi rinunciò a capire non soltanto la Francia e la Germania, ma anche, e con conseguenze disastrose, durature e tuttora persistenti, l’Irlanda. Non aveva preso parte al tentativo di creare una democrazia europea, né (…) al controtentativo di distruggerla”. (p22-23)

Ma non solo. Ad esempio, tra coloro che reagirono allo spirito vittoriano Chesterton annovera anche il “Movimento di Oxford“, che fu “puramente religioso” (p39):

“Non si trattava tanto di una preferenza per i dogmi cattolici, quanto, più semplicemente, di un appetito per i dogmi. I dogmi, infatti, implicano il serio appagamento della mente. (…) Si trattava, piuttosto, di una rivolta contro lo spirito vittoriano considerato in un suo particolare aspetto, che potremmo sommariamente definire avere la torta, e al tempo stesso mangiarla. Il movimento capì che i solidi e seri vittoriani erano fondamentalmente frivoli, perché fondamentalmente incoerenti” (p39)

Un’istanza che in realtà punta anche sulla “rivendicazione della razionalità (…) contrapposta alla crescente irrazionalità del benessere e del compromesso vittoriano” (p43):

“La sua vera gloria (ndr: quella di Carlyle) sta nell’esser stato il primo a vedere distintamente e a dire con chiarezza la grande verità del nostro tempo: ossia che la ricchezza dello Stato non equivaleva alla prosperità del popolo. (…) Ad arricchirsi non era affatto Manchester, ma soltanto i meno amabili dei suoi abitanti” (p48)

220px-Charlotte_BrontëE così, Charlotte Bronte, “se la si interpreta a partire dai suoi istinti, fu altrettanto grande (ndr: di George Eliot); Jane Austen fu più grande. (…) Lei seppe non perdere la testa, mentre tutte le altre donne venute dopo hanno cercato di ritrovare il cervello. Jane Austen era capace di descrivere un uomo con freddezza; cosa di cui né George Eliot né Charlotte Bronte furono capaci” (p88-89)

“Ella (ndr: Charlotte Bronte) raggiunse il culmine del romanzesco attraverso il realismo più basso. (…) Prese le mosse da se stessa, dai suoi abiti scoloriti, dalla sua fortuita bruttezza, dalla sua famiglia scialba, rozza e provinciale, e con vigore amalgamò questi materiali fangosi trasformandoli in un brioso racconto fiabesco. (…) Scoprì il segreto di dissimulare il sensazionale nell’ordinario, e Jane Eyre resta il suo libro migliore (…) poiché, pur essendo un documento umano scritto con il sangue, racconta una storia poliziesca a forti tinte che è tra le migliori al mondo” (p96)Jane_Austen_coloured_version

“Nell’animo di tutte queste gradi donne vittoriane c’era una sorta di irrequietezza. (..) A cosa fosse dovuta questa guerra dei sessi strana e molto circoscritta (…) La mia ipotesi è che fosse dovuta alla grande rinuncia allo spirito militaresco da parte di maschi vittoriani. La donna sentiva oscuramente che mentre lei continuava a correre il rischio mortale che le era proprio, l’uomo non correva più il suo” (p97)

E così, se Dickens rappresenta per Chesterton “l’assalto più semplice e istintivo, e di conseguenza il più pesante, sferrato a quell’appagamento che che era al centro dell’età vittoriana” (p99), Wilkie Collins è “rappresentativo del suo tempo [perché] benché le sue concezioni morali e religiose fossero meccaniche quanto le cospirazioni fittizie che seppe ordire con tanta cura, queste ultime erano tuttavia pervase da una sorta di misticismo involontario che prendeva in piena considerazione il lato più oscuro dell’anima” (p109)

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“Fu questo, infatti, uno dei problemi più caratteristici della mentalità vittoriana. L’idea del sovrannaturale era forse sprofondata al livello più basso che avesse mai raggiunto. (…) Resta il fatto strano che l’unico genere di sovrannaturale che i vittoriani si permisero di immaginare fu il sovrannaturale triste. Potevano accettare le storie di fantasmi ma non quelle dei santi. Potevano baloccarsi con la maledizione o con la spietata profezia di una strega, ma non con il perdono di un prete” (p109)

220px-AnthonyTrollopeAnthony Trollope, ” un realista lucido e assai abile, rappresenta invece un altro aspetto dello spirito di benessere vittoriano: la mancanza di fretta, il gusto per il dettaglio, soprattutto quello domestico; il gusto di seguire i personaggi e i loro familiari di libro in libro e di generazione in generazione” (p110).

Insomma, ce n’è per tutti i gusti, sia di prosa, sia di poesia, a cui Chesterton dedica la terza parte del trattato: da Tennyson a Browning, da Swinburne a William Morris, fino alla fin de siècle rappresentata da una parte da Oscar Wilde e dall’altra da Henry James, Bernard ShawRudyard Kypling.

James tocca la sua corda più cupa in un racconto terribile, Il giro di vite. Al cuore di quel terrore c’è una verità fatta di pentimento e religiosità, eppure, ancora una volta, è da notare che l’unica corda del sovrannaturale che gli scrittori vittoriani abbiano saputo toccare in modo credibile è quella tragica, quasi demoniaca” (p187-188)

“La posizione fondamentale di Bernard Shaw nei confronti dell’età vittoriana si può riassumere grossomodo nei termini seguenti. Il vittoriano tipico affermava con disinvoltura: – Il nostro sistema non sarà perfetto, ma funziona. Bernard Shaw ribatteva con ancora maggior disinvoltura: – Sarà pure un sistema perfetto, per quel che ne so, ma non funziona” (p181).

Per finire con H.G. Wells, che ebbe il merito di aver scritto “grandi storie di avventura ambientate nel nuovo mondo scoperto dagli scienziati” (p193) e concludere con Stevenson.

“Una maledizione si abbatté sui tardi vittoriani: cominciarono ad attribuire maggior valore al tempo che alla verità. Si sentivano così presi del ruolo di segretario, mentre smistavano la corrispondenza, che non trovarono mai la lettera cercata; (…) e si sentivano così equi, così imparziali a soppesare le prove, che per farli giungere a una qualsivoglia conclusione sarebbe stato necessario corromperli. Fu questa l’ultima nota dei vittoriani: la procrastinazione fu chiamata progresso” (p195)

220px-Robert_Louis_Stevenson_Knox_Series“E’ caratteristico della sua opera (e della rivolta contro la rispettabilità vittoriana in generale) che la sua storia più sensazionale e a tinte più forti sia anche quella che contiene la sua verità più amara e profonda: Lo strano caso del Dottor Jekyll e Mr Hyde è un duplice trionfo: combina le emozioni esteriori tipiche di Conan Doyle con quelle interiori tipiche di Henry James. Purtroppo, è altrettanto caratteristico del periodo vittoriano che quasi tutti gli inglesi abbiano apprezzato l’aneddoto, ma che quasi nessuno abbia colto la burla” (p199).

Mentirei se dicessi che la lettura sia stata facile e scorrevole. La scrittura di Chesterton è complicata, ipotattica e segue una rigorosissima passione per la dissertazione logica eredità del mondo latino. Per chi non è pratico di letteratura inglese poi, alcuni riferimenti hanno bisogno di essere approfonditi per forza di cose. E’ un libro per chi come me ama sudarci sopra a forza di matita e note a margine ma, come si diceva all’inizio, è un aggeggio che se preso per il verso giusto ci rivela, forse più di qualsiasi programma tv, di qualsiasi trattato di economia politica, o reportage giornalistico, il perché di una scelta che affonda le radici nella terra scura e grassa di un passato con cui tutti noi abbiamo già cominciato a fare i conti.

Credits delle foto: Wikipedia (+ The Independent per Dickens)