
Articolo di media lunghezza; tempo di lettura: 10 minuti.
“La villa, candida e bassa, era incassata tra le rocce integrandosi perfettamente nel paesaggio circostante, e gli ospiti che guardavano fuori dalle finestre o uscivano sul balcone privato della loro stanza avevano l’impressione che fosse sospesa sul mare blu. La piscina, considerata la più bella della Riviera, si trovava in una vasca che era stata scavata nella roccia con l’esplosivo, ed era dotata di uno scivolo che permetteva ai bagnanti di arrivare giù, nel mare sottostante, e nuotare fino a una piattaforma un po’ più al largo. L’enorme terrazza tra la casa e la piscina era il cuore di quasi tutta la vita sociale, e a ciascuna estremità una scalinata curva di pietra scendeva alla piscina. Furono installate tende parasole avvolgibili, affinchè i tavoli da gioco offrissero agli ospiti una luogo ombreggiato dove bere e giocare a carte – bridge, bazzica a sei mazzi – o backgammon.” (pag86)
La storia dello Château de l’Horizon, meravigliosa villa bianca art déco che negli anni ’30 la celebre attrice Maxine Elliott fece costruire per sé e per i suoi ospiti facoltosi sulla Riviera francese, nel comune di Vallauris, è una biografia corale. Le pagine di questa vita favolosa, raccontata dalla scrittrice e biografa Mary S. Lovell (“Straight On Till Morning: The Life Of Beryl Markham”, “Le sorelle Mitford” – Neri Pozza 2017, e altri ancora) si strutturano per capitoli in ordine cronologico, ciascuno dei quali segue un singolo, un paio o addirittura una famiglia di protagonisti della vita sociale e politica dell’epoca le cui esperienze si sono trovate, per svago o per necessità, a incrociare quelle dello Château.
E così, se nei primi capitoli assistiamo alla fulgida ascesa di Jessie Dermot (Rockland, Maine, 1868) in arte Maxine Elliott – attrice di fama internazionale per via della dedizione al proprio mestiere, la capacità espressiva, la bellezza dello sguardo – che al culmine del successo e guidata da un intuito non comune acquista una porzione di terreno impervio e roccioso a picco sul mare della Riviera per costruire la sua esclusiva residenza estiva, nelle pagine successive vengono raccontati le vite, gli amori e l’impegno politico dei tanti aristocratici inglesi parte dell’entourage di cui la socialite Maxine – sfidando tutte le regole non scritte della nobiltà britannica – era riuscita nell’impresa di circondarsi e che presero parte alla prima guerra mondiale.
La parte centrale della narrazione è quella più corposa forse anche per via della mole, sia quantitativa sia qualitativa, di materiale a cui Lovell è riuscita ad accedere: in questo microcosmo relativamente piccolo ma estremamente autoreferenziale e prolifico di rapporti reciproci assicurati dalla parola scritta, la pratica della biografia, del diario e del memoir crea una fitta e dettagliatissima rete di rimandi. Elencare qui i personaggi raccontati o semplicemente citati dalla Lovell è di fatto impossibile (basti pensare che l’indice dei nomi a fine volume si compone di 10 pagine). Si va dalle amiche più intime Elsie de Wolfe ed Elsa Maxwell, alle socialite e “cortigiane” più discusse (una su tutte Doris Browne Castlerosse, nata Delevigne – prozia di Poppy e Cara), fino agli esponenti della più elitaria politica britannica, come Winston Churchill che fra le stanze soleggiate e ariose dello Château condivise con l’amica Maxine tanta parte della propria dimensione sociale, in specie durante i rovesci professionali, in un arco di tempo lungo decenni.
Alcuni capitoli sono quasi interamente monografici, come quello dedicato appunto a Churchill o alla coppia Wallis-Duca di Windsor (per anni stabili residenti in Riviera), al principe Aly Khan (che acquistò lo Château alla morte della Elliott), a Rita Hayworth. Il testo è una miniera inesauribile di aneddoti e curiosità ma anche uno strumento utile se si desidera approfondire in maniera agile le dinamiche personali, familiari, sociali ed economiche che hanno influenzato, per non dire governato, tanta parte della Storia inglese e americana – ma anche europea – del primo novecento sino alla fine della seconda guerra mondiale.
Quello frequentato da Maxine Elliott era un corpo sociale elitario molto coeso, profondamente snob e classista, al cui interno si consumavano ferocissimi micro-conflitti ad alta e bassa intensità (una scenata tra amanti poteva durare dieci minuti, un bisticcio tra famiglie decadi intere), fra tradimenti reciproci, maldicenze e pettegolezzi, figli illegittimi dati in adozione, cresciuti dalle governanti in luoghi appartati, spediti in collegi svizzeri prestigiosissimi, nel nome della sempiterna lotta tra chi la ricchezza la possedeva grazie al titolo e chi tramite la tanto vituperata attività imprenditoriale.
“(…) Winnaretta Singer, figlia del magnate americano delle macchine da cucire. Lesbica dichiarata e generosa mecenate degli artisti, la “principessa Winnie” (…) nel 1893 sposò per il titolo il principe Edmond de Polignac, anch’egli omosessuale, in un matrimonio di facciata. (…) Conscia di essere considerata un’arrichita dal gratin di Parigi, Winnie aveva però la sicurezza in sé delle persone ricchissime. Quando una duchessa cercò di umiliarla, dicendole con arroganza: “Il mio nome è migliore del vostro”, Winnie ribatté: “Non in calce a un assegno.” (pag74, in nota)
Un corpus sociale falcidiato dalla spiccata bellicosità intestina che tuttavia, come accade a tutte le élite, non esitava a riunirsi sotto la stessa egida nel momento in cui situazioni esterne venivano a minacciare lo status del gruppo inteso, per una volta, come collettività.
Le pagine di “Côte d’Azur” sono molto dense e malgrado l’opera sia presentata come una narrative non fiction adatta alla fruizione di un pubblico ampio, la quantità di informazioni e riferimenti è tale da rendere necessaria una lettura attenta e ponderata anche perché tra titoli nobiliari, nomi d’arte e nomignoli, secondi e terzi cognomi acquisiti o persi in conseguenza di matrimoni, divorzi e nuove unioni, seguire le vicende dei protagonisti diventa effettivamente impegnativo (a ciò bisogna aggiungere anche la lettura delle note sia a piè di pagina, contrassegnate da asterischi, sia per tramite dei rimandi bibliografici numerati in fondo al volume). Sebbene Mary S. Lovell tratti la materia con evidente competenza frutto della sua esperienza pluriennale nell’arte della biografia, l’impronta che tende a dare al volume è, in certi casi, personale – e quindi discutibile. Come per esempio nei punti (confronta Twitter per approfondire) in cui pare negare a bella posta, consapevolmente, le simpatie naziste – che sono ormai da anni un fatto di pubblico dominio e documentato – dei duchi di Windsor, dipingendo Edoardo VIII come un nobiluomo un po’ tontolone, ignaro delle conseguenze a cui avrebbero potuto condurre le visite in Germania, le cene all’ambasciata tedesca a Parigi, il saluto nazista riservato a Wallis e le selezione che la moglie operava nei confronti della servitù di casa (tutti alti, biondi e vestiti di nero*). Medesimo inciampo nella gestione della figura di Churchill: nei capitoli che lo riguardano la Lovell si impegna a presentare un punto di vista non lontano da un certo favoritismo, con una narrazione di alcuni controversi avvenimenti privati** e familiari che, seppure scevra di giudizi morali, è evidentemente inficiata da un sentimento di ammirazione che non consente una completa imparzialità.
In generale, se certe riprovevoli azioni dei protagonisti maschili vengono spesso presentate come coerenti nell’intento o in un certo senso giustificate in nome dei costumi dell’epoca, non così si può dire per le figure femminili, di cui talvolta si tende a sottolineare la spregiudicatezza intesa come scelta consapevole e non come ovvia conseguenza di una sottomissione sistemica e di una dipendenza economica impossibile da eradicare. Non mancano certo le prese di coscienza o gli atti di ribellione da parte di donne coraggiose ma restano casi isolati che per altro vengono presentati come esempi di emancipazione ma che in realtà, a ben guardare, sono frutto del privilegio economico e sociale.
Probabilmente per molti lettori le parti più interessanti restano quelle in cui Lovell racconta la Riviera del dopoguerra e in specie gli avvenimenti tra gli anni ’50 e ’60. Le ville principesche, svuotate dei loro storici ospiti e padroni (per lo più inglesi, che per convinzione politica o più spesso a causa delle avanzare dell’età non avevano fatto ritorno alle proprie residenze estive, per la maggior parte saccheggiate e trasformate in presidio miliare durante il conflitto***) furono affittate o addirittura vendute. Ad acquistarle, quella generazione di nuovi ricchi che comprendeva, tra gli altri, figure del calibro di Onassis, star del cinema Hollywoodiano, loschi faccendieri dell’Est. La diffusione dei rotocalchi e del gossip ha fatto in modo che fosse questa l’età della Riviera a farsi più evidente ai nostri occhi. Rispetto alle vicende di un mondo prettamente aristocratico all’interno del quale nel bene e nel male ogni scandalo veniva ben taciuto e si poteva ancora discutere e fare politica attiva, questa nuova generazione deve la propria fama a uno stile di vita chiassoso, all’interno del quale la ricchezza non era più considerata come uno strumento attraverso cui, in qualche modo – anche maldestro – migliorare se stessi e rendersi utili al proprio Paese ma come strumento tramite il quale assecondare ogni personale capriccio.
(*Fun fact: quando la Hayworth, dopo una visita a casa Wallis, volle (mostrando una certa goffaggine) imporre le medesime divise al personale dello Château, una cameriera si rifiutò di indossarle, e venne licenziata. **Churchill non era famoso solo per la mente acutissima, l’abilità politica e il talento per la pittura ma anche per la frequentazione di ambienti inadatti al suo ruolo e al suo rango, le visite frequenti al Casinò dove sperperava il denaro di famiglia e… le scappatelle – con gran disperazione della moglie Clementine che, pur restandogli a fianco per tutta la vita – più con lo spirito che con la vicinanza fisica, perché per tanta parte dell’anno vivevano separati non volendo lei mischiarsi con l’entourage dello Château – non fa mistero della sofferenza e della preoccupazione nei riguardi dello stile di vita del marito. ***Restaurare dimore di quelle proporzioni non era questione da poco nemmeno per chi di denaro ne possedeva in abbondanza e comunque le condizioni della Francia postbellica non permettevano, a causa della scarseggiare dei beni di consumo, di condurre la medesima vita agiata precedente al ’39.)