“La casa mangia le parole”, di Leonardo G. Luccone

Ripongo sempre fiducia nei libri che vengono dal destino – l’ho già detto. “La casa mangia le parole” arriva da lì, un incontro creato dalla sorte. Ma io all’occasionalità dei libri non ho mai creduto.

“31 dicembre 2011

E’ uno di quei giorni che non si ricordano mai se non perché è un giorno di partenza, quei giorni dove il tempo si mette a fare le bizze e ingrigisce pure quel residuo che a Roma si chiama sole d’inverno, un sole che rende meno cupe e umide le giornate della stagione triste e sembra che ci siano troppe poche occasioni per far succedere qualcosa, e si procede così, per inerzia o a strappi, e alla fine della giornata ci si ritrova ammaccati per niente” (pos.40)

Nelle favole di Esopo i protagonisti non hanno nome. C’è la volpe furba, la cicala ingenua, la tartaruga saggia, l’uomo sciocco che grida al lupo al lupo. Esopo evita di identificare i suoi personaggi attraverso i nomi propri perché ha l’intenzione dell’universalità; i protagonisti delle sue favole non sono casi particolari: al contrario non devono mai passare di moda, come non deve mai passare di moda il messaggio che ciascuno di essi porta.

Per i De Stefano è lo stesso: di loro finiremo per conoscere soltanto il cognome perché i De Stefano siamo un po’ tutti noi, a quanto pare indegni di essere nominati per quel che siamo – i veri nomi – ma solo per quel difetto (o più raramente per quella virtù) che ci distingue gli uni dagli altri. I De Stefano saranno sempre lui e lei, neoborghesi quarantacinquenni e qualcosa, un figlio grande, la bella casa dalle cui finestre entra Roma in tutto il suo fulgore di impero condannato; le cene con gli amici, le piccole neghittosità, i silenzi annodati, le ombre di quel che non si è più capaci di dire. Questa è la storia di una famiglia come tante: di noi che ci avviciniamo alla mezza età, del modo in cui lo spavento ci prende, della resa dei conti. Ci chiamano Generazione X (ove X, pare, sta a significare la mancanza di una identità sociale definita), quelli che sono venuti dopo il babyboom ma prima degli echo boomers, quelli cresciuti con MTV, quelli che hanno screditato i propri genitori – senza tuttavia riuscire a recuperare la concretezza di intenti in grado di eliminare il senso di subalternità.

Eppure, perverso gioco di specchi, i veri nomi qui ci sono – ma ce li hanno tutti gli altri, ad alimentare un senso di infinita attrazione gravitazionale per cui ciascuno non è specificato da quel che è ma da quel che gli sta intorno. Graziano Fauci, Fernando Pomarici, Bernardo Vaciaghi, Michele Giuli Capponi, Carlo Alborghetti, Ezio Carmasciani, Franco Terracciano. Matilde. Moses Sabatini. In una girandola di personaggi di finzione mescolati al reale, di avvenimenti soltanto verosimili avvinghiati a quella Storia che noi, ultima generazione del nostro tempo, portiamo a marchio indelebile – qualcosa che ci è fatto divieto cancellare – Leonardo Luccone trascina il lettore nel gorgo di un racconto che da individuale (la crisi matrimoniale a seguito dell’emancipazione del figlio) diventa canto collettivo.

Lascio qui una nota, tre fumetti azzurri incastrati nella memoria del mio telefono – buttati lì imprecisi com’è questo mio lavoro, per come lo sento io: precario, randagio, dai confini scomposti. Dicevano che spesso nei libri vedo parole e qui mi piace pensare a redenzione o affrancamento – che c’è per assenza nel senso che non c’è. Il fatto è che non si può tornare indietro da un certo tipo di lingua se scritta in un certo modo (e menomale). E non si può tornare indietro da certe questioni, specie per noi: un po’ solo pars destruens, se non ce ne fosse anche un’altra di parola che mi gira in testa, che si avvicina a consapevolezza. Poi c’è di nuovo la conferma di quella mia idea, che di genitorialità riescano a parlar bene soltanto le persone intelligenti. E alla fine c’è Matilde, l’ultimo vero nome. Mi annotavo: Matilde è l’idea del tempo perduto, di quello non goduto, sottovalutato, o sopravvalutato e goduto troppo, senza merito, senza necessità.

“Le cose esistono quando vengono nominate. Si creano quando viene pronunciato il nome. Poi diventano ingombranti. Hanno spigoli da tutte le parti, un colore fluorescente, che si vede pure di notte. Quando le cose vengono nominate per la prima volta diventano vere” (pos2979)

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