
“Della Zona sono venuti a sapere dal film Chernobyl Diaries, non credono ai mostri oltre il filo spinato, ma il Chernobyl disaster lo vogliono vedere con i loro occhi” (pag83)
“Una passeggiata nella Zona” è un testo dalla radici culturali e storiche profondissime. Non si esaurisce nel racconto di un’esperienza vòlta a nutrire il guilty pleasure di un pubblico retronostalgico fedele all’Instagram – ma, al contrario, da lì parte (perché l’autore, di fatto, per mestiere è guida turistica illegale all’interno dei territori contaminati che circondano Ĉornobyl’) per poi scavalcare di netto questa chiave di lettura, in maniera critica e provocatoria. Recuperando – con un passo indietro che non può non far pensare a un passo in avanti – quell’idea del selvatico di cui fu padre addirittura Henry David Thoreau.
Scrive Wu Ming 2 nell’intoduzione a “Walden” (2005): “Purtroppo, l’uomo non è (più) capace di conciliare spirito e materia. Solo nel contatto con la Natura può sperimentare una parvenza di unità e imparare così a riprodurla. Nella Natura, infatti, c’è un elemento che coinvolge spirito e materia allo stesso modo, una sorta di sintesi tra i due opposti. Questa sintesi è il selvatico: ^Ci serve essere testimoni della trasgressione dei nostri stessi limiti, e di qualche vita al pascolo libero là dove non vagabondiamo mai^”
“Le braci scoppiettavano, gli esili corpi delle sedie si incrinavano. Come incenso dei boschi della Polissja volavano in cielo attraverso i buchi del soffitto le nostre paure, le nostre preghiere, le nostre suppliche. Volavano come fumo nel cielo stellato tutti i nostri pensieri oscuri, le nostre sofferenze” (“Una passeggiata nella Zona”, pag143)
Quando la ricostruzione ambientale smette di ricoprire una funzione contestualizzante ma assume le caratteristiche di co-protagonista allo scopo di creare un rapporto di comunanza (e anche simbiosi) con gli altri personaggi della vicenda, rispecchiandone le caratteristiche evidenti o nascoste – ecco, in quel momento ci troviamo di fronte a una particolare tipologia letteraria, quella del New Nature Writing. Ma attenzione, perché tra la nostalgie della boue e l’Antropocene, di questioni in mezzo ne passano parecchie.
“Mi ripropongo di tenere qui quel che Thoreau chiamava *un diario meteorologico della mente*, di raccontare storie e descrivere alcune scene di questa valle (…) e di esplorare, impaurita e tremante, alcune delle distese scure non rilevate dalle mappe e le empie fortezze a cui queste storie e scene conducono così vertiginosamente” (Annie Dillard, “Pellegrinaggio al Tinker Creek“, Bompiani 2019)
“Gli scrittori che si occupano di nature writing – scriveva Steven Poole nel 2013 – tendono a dipingere il mondo non-umano come un luogo di eterna, soleggiata pace e armonia, (e la natura) quale unica vittima innocente della devastazione a opera dell’uomo – sempre dimenticandosi, in un modo o nell’altro, di come essa sia artefice dello sterminio di un numero illimitato di sudditi del proprio regno attraverso eruzioni vulcaniche, tzunami e variazioni climatiche, per non parlare di tutte quelle orribili e cruente attività quotidiane nelle quali i suoi membri, tra uccidersi e mangiarsi a vicenda, sono impegnati”.
Markijan Kamyš fa proprio questo: ci prende per mano e ci conduce, moderno flâneur che maneggia egregiamente l’arte del perdersi (“Prypjiat’, la meta dei novellini, di quelli che non hanno ancora imparato ad apprezzare i villaggi in rovina e che vogliono agguantare subito il biglietto da visita di tutti i luoghi abbandonati”, scrive), in uno dei luoghi più devastati della Terra; un luogo in cui Uomo e Natura si confrontano sullo stesso terreno – quello dell'(auto)distruzione e della lotta per la sopravvivenza – in cui l’uno è ostile all’altra ma nello stesso tempo l’una è inseparabile dall’altro, legati intimamente come sono per via delle medesime origini e del medesimo destino che secondo Markijan Kamyš condividono. Gli elementi del NNW ci sono tutti: l’idea di una Natura che riprende i propri spazi difendendo se stessa dall’invasione dell’uomo, il tema del viaggio che è esplorazione e racconto, una meta che si distingue più per quello che non è, un non-luogo denso di storia che crea nel visitatore uno sdoppiamento dell’individualità (Markijan Kamyš ne penetra bene gli anfratti, di questa alienazione), e infine il misticismo religioso, quell’esigenza di contatto con il divino e la ricerca di un significato superiore a cui Markijan Kamyš dedica addirittura un capitolo, “Polesian Zen”.
“In questa casa sono passati molti degli alentesi: il paese vi entrava e si perdeva a poco a poco, lasciando la sua ombra che vi giace ancora ed è tutta l’eredità di quegli anni”. Lei è Carmen Pellegrino, che il mestiere di abbandonologa lo ha raccontato nel suo romanzo d’esordio “Cade la terra” (Giunti 2015). E così ci parla Markijan Kamyš dalle pagine di “Una passeggiata nella Zona”:
“Mi tranquillizzo sempre quando stendo il materassino tra i mucchi di tappezzeria sgretolata. Mucchi privi di ogni forma che in primavera arrivano all’altezza dello zoccolino. Su quella carta da parati scrivevo i miei desideri più intimi, le mie maledizioni più nere, i miei sogni più grandi, poi mettevo con cura quei pezzetti di carta sotto le bottiglie ancora chiuse e, quando cominciavamo a bere alla luce delle torce tra l fumo di sigaretta e l’aroma della carne in scatola, sapevo perfettamente che tra quelle quattro pareti abbandonate non ci sarebbe mai capitato niente di brutto” (pag47)
“Ti addormenti in pace tra i cardini che cigolano, perché sai che le case morte amano parlare ai loro ospiti. Sai che amano condividere le loro preghiere, le loro suppliche con le anime di chi va a visitarle. Sai che cercano pietà” (pag51)
Finché i muri reggono, i miei ospiti esistono. Li tengo qui con me e li riporto alla loro vita di prima”, scrive Carmen Pellegrino e potremmo andare avanti all’infinito ma il racconto poetico di Markijan Kamyš parla anche di molto altro che va quanto meno citato. La sua non è soltanto la storia di una vita ai margini tra alcool, droghe, barboni, disgraziati, ladri e delinquenti ma anche la denuncia sociale nei riguardi di quel “Sogno sovietico” che sul campo ha lasciato centinaia di morti, migliaia di chilometri di terre contaminate e, soprattutto, un esercito di giovani senza speranza per il futuro – e, quel che è peggio, tra non molto anche orfani del proprio passato. Giovani che, privi di alcun autocompiacimento, scelgono di perdersi nei boschi radioattivi della Polissja in una strenua e disperata difesa – sprovvista di alternative – della propria memoria storica.
“Una città morta. Sì morta. Due volte. La seconda con quelle migliaia di foto e le code di merda delle escursioni ufficiali. Prypiat’ l’ha uccisa la noia degli hipster, che hanno oscurato i divani marci con le loro schiene tatuate, cartografando su Instagram ogni centimetro di quella terra incognita. Si è perso il mistero, è fuggito via, si è sciolto nella rete. L’aura mistica di Prypiat’ si è volatilizzata come cenere in tutti gli angoli del mondo, risucchiata dall’etere in paesi lontani. Ormai non si riesce più ad avere paura in quelle case” (pag49)
Note: “Una passeggiata nella Zona” è stato il primo libro del 2020 per ADC. Ed è stato anche il primo libro che, dopo tanti anni e tantissimi libri, ADC ha sentito il bisogno di leggere due volte. La prima, da mezzanotte alle tre di una notte freddissima dei primi giorni di Gennaio; la seconda questa sera, per cercare di mettere un punto a questa storia – cosa che però non sono riuscita a fare. Nemmeno sul Twitter.
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Thanks! 🙂
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