“The Southern Reach Trilogy”, di Jeff Vandermeer

Avvertenza: data la lunghezza (lettura stimata 13 minuti) il post è stato originariamente pubblicato su @MediumItaliano: ho scelto poi di copiarlo su ADC per facilitare l’utilizzo di Google Translator così come mi hanno richiesto alcuni followers anglofoni. Cliccare qui per essere reindirizzati alla pagina originale – e ai commenti.
In cui si cerca di riflettere, tra le altre cose, su: l’evoluzione del sistema New Weird e la nuova frontiera dell’eco sci-fi — o climate fiction che dir si voglia; cosa sia il *new #NatureWriting*, per quale motivo se ne parli così tanto all’estero e così poco qui da noi, e del perché lo si ponga in correlazione con la SRT; le belle amicizie che si fanno su Twitter, specie durante le ferie estive. Non ultimo, su “Accettazione”, il terzo e ultimo volume della trilogia di cui al titolo.

 

1. Il New Weird. Corrispondenze, interferenze

 

“Kerans si disse che aveva fatto bene a restare all’interno dell’albergo: le tempeste scoppiavano con frequenza sempre maggiore via via che la temperatura andava aumentando. Ma Kerans sapeva benissimo che il reale motivo della sua decisione era l’accettazione ormai passiva del fatto che gli restasse ben poco da fare. Le rilevazioni biologiche erano diventate un gioco senza senso e privo di alcuna utilità, dato che la nuova flora seguiva pedissequamente le tendenze anticipate dagli scienziati vent’anni prima, ed era sicuro che nessuno a Camp Byrd, nella Groenlandia settentrionale, si preoccupava di archiviare i suoi rapporti, figuriamoci poi di leggerli” . (JG Ballard, “Il mondo sommerso”, Feltrinelli 2005, trad. Stefano Massaron, pag.5)

“Il microscopio era abbandonato da tempo in un angolo, coperto di muffa, semisepolto dal passare degli anni . Non avevo la forza di prelevare un campione, di scoprire quello che già sapevo. In fondo, un microscopio non poteva dirmi niente di quel gufo che già non sapessi. Niente che non avessi capito in anni e anni di stretta interazione e osservazione”. (Jeff Vandermeer, “Accettazione”, Einaudi 2005 pag. 148)

 

Edward Hopper. Credits @HopperAtoZ

 

E’ sufficiente questa simmetria tra il biologo Kerans e la biologa senza nome protagonista della SRT a rendere evidente il debito di Jeff Vandermeer nei confronti di James Graham Ballard, debito a cui segue di necessità un tributo che percorre tutta la “Southern Reach Trilogy”. In verità però ho scelto questo paragrafo, uno tra i tanti recuperati dal mio Feltrinelli sgualcito, anche perché credo che confrontato con quello di Vandermeer, citato appena sotto, riesca a identificare meglio di molti altri (forse più evocativi ma meno efficaci) le motivazioni che hanno determinato la scissione di cui Jeff Vandermeer è stato artefice: quella tra la fantascienza propriamente detta e il movimento New Weird.

Del fenomeno New Weird avevamo già avuto modo di parlare in occasione dell’uscita di “Annientamento” e ancor più con la pubblicazione di “Autorità”, SRT parte seconda, che aveva innegabilmente risvegliato le attenzioni della critica nostrana fino ad allora sicuramente entusiasta dell’opera ma poco avvezza a trattare certi argomenti più consoni, per tradizione, alla narrativa d’oltreoceano.

[Ricordiamolo cos’è, questo New Weird, utilizzando proprio la definizione data dallo stesso Vandermeer nel lontano 2008: “A type of urban, secondary-world fiction that subvert the romanticized ideas about place found in traditional fantasy, largerly by choosing realistic, complex real-world models as the jumping off point for creation of settings that may be combine elements of both science fiction and fantasy”]
Il columnist Joshua Rothman, l’Archive Editor del The New Yorker, con l’articolo “The weird Thoreau” (01/2015) dimostra inequivocabilmente come in realtà la critica anglofona, guardando ancora più avanti, non solo abbia affrontato il fenomeno NW con dovizia di interventi ma si sia ritrovata ad accostarlo, e non senza ragione, a uno dei temi che da un paio d’anni tengono banco sulle maggiori riviste culturali UK/US: la rinascita del Nature Writing.
 
2. Il “New Nature-Writing”. Parte prima: dalla nostalgie della boue all’Antropocene

“Try sci-fi and sci-fi film (…). “It opens up worlds of imagination. (…) “Some of the most exciting thinking about identity and landscape seems to me to be happening in science fiction and speculative fiction, which I teach in these terms: the extraterrestrial pastoral as a means of radically rethinking notions of belonging and place”.

Tra i tanti espedienti attraverso cui cominciare a parlare di #NatureWriting ho scelto deliberatamente questo, ossia riferirmi a un passo dell’articolo “Toward a Wider View of “Nature Writing” a firma della giornalista e scrittrice Catherine Buni, pubblicato sul Los Angeles Review of Books il gennaio scorso. In verità qui la Buni sta citando altre due fonti (Nikky Finney e Robert Macfarlane) e la questione centrale dell’articolo si basa non tanto sul NNW quanto su una sua particolare interpretazione (lo studio delle relazioni che legano “culture, place, *race* and identity”) — ma questo al momento ci interessa relativamente.
Cito questo passo non perché sia il primo sull’argomento, o il più interessante; la realtà è che mi ci sono affezionata perché leggendolo sono riuscita per la prima volta a fissare nei miei appunti un concetto fondamentale: il New Nature Writing ha ormai travalicato il genere letterario da cui è nato; il che, a mio parere, non è poco. Poi vedremo perché.
Ma facciamo un passo indietro. Ai primi di marzo appare su Rivista Studio un intervento di Francesco Guglieri dal titolo “Dire attraverso la natura”. FGuglieri (per primo) ad uso e consumo di noi residenti nelle province dell’impero si propone di fare il punto sulla questione dello “scrivere secondo natura” differenziando la tradizione tutta britannica dello scrivere sulla natura dall’approccio moderno al tema dell’ambientazione rurale, che diviene, piuttosto, un dire qualcosa utilizzando la natura. [Qui su ADC potete trovare un po’ di bibliografia sull’argomento, nel post dedicato all’ultimo romanzo della scrittrice canadese Frances Greenslade pubblicato in Italia da Keller Editore]. Guglieri è seguito più o meno a stretto giro da Fabio Deotto che dalle pagine della Lettura (2/08/2016) addirittura si spinge fino ad annoverare la SRT tra gli esempi più felici e recenti della climate-fiction.
Ricominciamo. Nel suo saggio Guglieri citava tra gli altri l’articolo — divenuto ormai un must-read sull’argomento — del giornalista Steven PooleIs our love of nature writing bourgeois escapism?” (The Guardian, 6/07/2013). Poole, pur tecnicamente abbastanza scettico (“L’aumento del moderno appetito dei lettori metropolitani nei riguardi di opere che parlano di passeggiate e della scoperta di se stessi nella natura è l’equivalente letterario dei mercatini a chilometro zero che vediamo nascere e crescere nel nord di Londra” — e citando questo passo ho detto tutto) pone l’accento su una questione specifica, quella del rewilding:

“On one hand, nature is considered as something we should not attempt to manage — what is wild is just what is not cultured. Rewilding, Monbiot promises, “is about resisting the urge to control nature and allowing it to find its own way”. There is a certain smug hands-off paternalism to this image, as though the rewilder is watching from a safe distance while nature, like an adorable little child, wanders off haltingly on its own path

che se ne porta dietro inevitabilmente un’altra:

Nature writers do tend to whitewash the non-human world as a place of eternal sun-dappled peace and harmony, only ever the innocent victim of human depredation (Leach even says nature is like a “hostage” and we her “captors”) — always somehow forgetting that nature has exterminated countless members of her own realm through volcanic eruption, tsunami, or natural climate variation, not to mention the hideously gruesome day-in, day-out business of parts of nature killing and eating other parts. (…) If you go back far enough, human beings aren’t native to any part of the world except Africa. So we must be among the most invasive species of all. We’re eternal immigrants to a nature where we don’t belong. This assumption, too, is common in modern nature writing. We are interlopers, intruders. Nature is no longer our home”.

Va bene, questa cosa dell’Antropocene l’abbiamo già sentita. Dove? Ma certo, vi ricordate l’hashtag dell’agosto scorso, #TheSixthExtinction? Si tratta del titolo di quel documented book che zitto zitto ha scalato le classifiche US e alla fine s’è vinto pure il Pulitzer 2015 per la non-fiction e che, in sostanza, raccoglie gli ultimi reportage riveduti e corretti della giornalista statunitense Elizabeth Colbert, specializzata in temi ambientali. In Italia è stato pubblicato da Neri Pozza e io ne avevo parlato qui, ammorbando i miei followers con decine di twitts sull’argomento.
Ma parlando di Antropocene, a darci il colpo di grazia in tutta questa storia, ingarbugliata di suo fin dalla nascita, come si vede, è stato infine il bravo Gianluca Didino che con l’articolo “Alle radici del nature writing contemporaneo: da Ballard a Sebald, la scrittura della natura al tempo dell’Antropocene racconta molto più di quanto si possa pensare” ci è venuto in soccorso poche settimane fa associando il NNW al superamento del genere letterario di origine.
D’altra parte, già nel 2013 così si esprimeva lo scrittore Tim Dee nell’articolo “Supernatural: the rise of the new nature writing”:

“Until relatively recently, things were clearer; the British branch of nature writing was mostly about the countryside, its landscape and creatures; it was non-fiction, non-scientific prose characterised by close attention to living things that were known and often loved by its writers. It almost always felt as if it had come from the pre- or barely industrial past and, with rare exceptions, nature writing was nice writing and it walked — stout shoes and knapsack — a thin green lane between hedges of science on one side and a wild wood of poetry on the other. It was different from either, though fed by both, and it bled palely back into each. It developed through letters (for example, Gilbert White),diaries (Francis Kilvert), essays (Edward Thomas) and journalism (WH Hudson). (…) In this crisis of the end of nature, poetry, polemic and scientific prose have vastly lengthened the nature-writing booklist. Meanwhile old taxonomies, hierarchies and clarities have disappeared”.

The High Shore, (1923) Lyonel Feininger. Credits TBC
3. Il “New Nature-Writing”. Parte seconda: “a religious experience”

“Books on nature and landscape follow fashion, just like everything else. At present, the dominant mode is the transcendental: muddy-booted birdwatchers are out, and high-minded Emersonians are in. Arguments from authority — the lab smarts of the ecologist or zoologist, the field knowhow of the naturalist — have lost their clout. The writer Melissa Harrison has made the case that “some experts forget that fostering a love of nature doesn’t start with facts and statistics, but stories and experience: things that engage our hearts and bodies as well as our minds.” Facts are less interesting than personal experience. But this is not any old personal experience. It is, to all intents and purposes, religious experience”.

Lascio da parte la questione dell’Antropocene per soffermarmi su un altro aspetto del NNW che mi sta particolarmente a cuore. A scrivere quanto sopra è il giornalista Richard Smyth, che nell’aprile scorso pubblica sulla rivista New Humanist un saggio dal titolo inequivocabile: “The cult of nature writing. A resurgence in nature writing offers secular transcendence. But are we being led up the garden path?”. [O.T. : “Authority”: ora, non so voi, ma io a volte ho, onestamente, l’impressione che Jeff Vandermeer mi stia prendendo in giro, seminando sassolini qui e là che poi mi tocca raccogliere e conservare. Comunque, andiamo avanti]. Smyth si occupa di un aspetto a suo dire fondamentale del New Nature Writing, ossia l’esperienza religiosa, spesso a un passo dal misticismo, che il NNW o per lo meno quello di ultimissima generazione porta con sé.
“Ora che la maggior parte degli scrittori ha escluso la divinità dai propri progetti, siamo rimasti o di essa sguarniti, oppure, viceversa, ci troviamo nella condizione di dover cercare qualche altro punto di riferimento”: cosi Smyth cita David George Haskell, autore di The Forest Unseen. E continua:

“The many stories of the universe from which we sprang provide one such center: transcendent power, inscrutable complexity, and humbling vastness. When we get a taste of these we’re inclined to preach the revelation to others. I see this move as directly parallel to the impulses underlying mystical religious writings. This parallelism results in not a convergence of language, but language flowing from the same source. (…) Haskell is a writer who can combine a kind of transcendentalism with a clear, human prose style. He also has a Cornell PhD in Ecology and Evolutionary Biology. Others of those who come down to us from the mountain bearing strange writings might not have PhDs or years of hands-on experience, but that’s precisely the point — they don’t need those things, because they have something better. They speak with the voices of prophets”.

[Nota a margine: per complicare ulteriormente le cose, accenno soltanto al fatto che Smyth citi tra le altre sue fonti anche Philip Hoare, che scrisse l’introduzione a “Leviathan” di Samuel Johnson (2008), opera poi pubblicata in Italia da Einaudi e recentemente suggerita su Twitter dallo stesso Guglieri quale esempio di testo NNW].
Smyth affronta la questione anche dal punto di vista stilistico quindi, evidenziando come all’aumentare della dimensione trascendentale vada in crescendo anche una certa, tipica “prosa da pulpito” che “duplica l’oscurità e crea qualcosa che può essere potente ed evocativo — e che può, forse, essere poeticità – ma che non è realmente interessato a spiegare alcunché” . Né più né meno di quel che accade nella SRT (“Leaning towards obscurity may be an honest reflection of the writer’s priorities — after all, putting the personal ahead of the general is what novelists and poets do all the time” chiosa bonariamente Smyth):

“It’s interesting to note, by the way, that while the Victorian heyday of popular nature writing was dominated by Anglican clergymen exploring the science of their subject, the big players in today’s scene are writers of a humanist bent pushing a transcendentalist angle”.

Non è possibile fare altro se non concludere così questo terzo punto:

“La mano del peccatore esulterà, perché non c’è peccato nell’ombra o nella luce che i semi dei morti non possano perdonare” (Jeff Vandermeer, “Accettazione”, Einaudi 2005 pag. 259). Detto e fatto.

French Coast, (1892) Van Rysselberghe. Credits @MichikoKakutani
4. Appunti in breve: “Accettazione”, di Jeff Vandermeer
Con “Accettazione” si conclude infine la Trilogia dell’Area X: tra continui flashback e ritorni al presente torniamo a seguire le vicende della biologa (o meglio, del suo doppio, l’Uccello Fantasma) e di John Rodriguez (“Controllo”), del guardiano del faro Saul Evans, di Cinthya, la direttrice, e della sua vice, Grace Stevenson, fino alla conclusione (o presunta tale?) che non disattende di certo le premesse e il piano dell’opera.
Non ci si aspetti neppure in questo volume — che va assolutamente letto di seguito ai precedenti pena la perdita di una consequenzialità tematica e stilistica difficile da recuperare a distanza, ecco il perché della pubblicazione a date ravvicinate — una lettura facile, svelta e di chiara interpretazione.
La struttura di questa terza parte è già di per sé complessa, definita com’è dai continui salti temporali a cui il lettore è costretto: il presente — la fuga della biologa e di John Rodriguez all’interno dell’Area X e, in parallelo, quella della vicedirettrice Grace; un passato recente — la spedizione misteriosa e non autorizzata della direttrice e del suo vice Whitby; un passato invece più remoto — quello del guardiano del faro, Saul Evans; il racconto della biologa, anch’esso ormai trascorso, che narra in prima persona i momenti passati all’interno dell’arcipelago e del faro sull’isola contaminata.
La lettura è complicata anche da un progetto stilistico che raggiunge una forte ed evidente complessità sintattica e lessicale (ben resa anche in traduzione) mai fine a se stessa ma vòlta a dimostrare l’inutilità della più alta espressione umana nel momento in cui sia necessario descrivere un reale altro e completamente estraneo.
Vandermeer è preparato in materia e sono evidenti la consapevolezza riguardo il genere letterario affrontato e la conoscenza dell’opera dei predecessori. Specie la stampa estera si è domandata, all’uscita di “Acceptance”, se la “Southern Reach Trilogy” sia da considerarsi oltre che un manifesto programmatico del fenomeno New Weird un esempio di quel complesso sistema “New Nature Writing” che sta facendo tanto parlare di sé. Gli elementi come si diceva ci sono tutti: dalla riflessione, se vogliamo più banale e intuitiva, sul ruolo del genere umano all’interno della biosfera fino alla suggestione del rewilding (i conigli di “Authority”, ve li ricordate?), per non parlare dei temi legati all’utilizzo del linguaggio, ai sistemi di comunicazione, alla loro interpretazione e al misticismo religioso. Parallelismi che sembrano non lasciare dubbi sulle origini dell’opera ma anche sull’intenzione dell’autore di travalicare anche questo sottogenere letterario con un lavoro che, come abbiamo visto, raccoglie in sé le tendenze più innovative della letteratura contemporanea.
5. Il “New Nature Writing” autoctono: sogno o realtà? & Thanks to…

“Era quella che si dice una giornataccia. Salivo per il sentiero a picco sul mare lottando con le raffiche, e nel buio dovevo badare a dove mettere i piedi. Da ovest arrivava il temporale, la folgore mitragliava un promontorio lontano simile a una testuggine. Ero sbarcato appena in tempo: con quel mare in tempesta non sarebbe arrivato più nessuno per chissà quanti giorni. Ero solo, non conoscevo la strada del faro e l’Isola era deserta. Miglia e miglia lontano, il resto dell’arcipelago era inghiottito dal buio e dalla spruzzaglia. Non una luce, niente”.

“Rileggo il diario di quel primo giorno. Frasi brevi, quasi degli haiku. ‘Ore tre. Impossibile riprender sonno. Aprile, notti fredde’”.

Scale a chiocciola, una porta bianca, una scala di ferro, una seconda scala. Oltre non vado. Ho paura che l’occhio di Polifemo si possa guardarlo solo nel riflesso dei vetri esterni, e da un angolo più basso. Oltre, temo che la luce sia intollerabile. (…) A ripensarci, mi rendo conto di non aver scritto io questa storia. Sono stati il vento e la marea. Io non ho fatto che registrarne la voce amplificata dal ventre cavo della torre”.

“E’ la notte della Risurrezione, ma sembra quella del Golgota: chissà se il Nazareno ha già spostato la pietra del Sepolcro. (…) Quanto ci farebbe bene, penso, un po’ di sano, superstizioso timore dell’ira d’Iddio — o degli dèi — per guarire da questa oscena sicumera che nasce dal sentirci garantiti e sazi in un mondo pieno di strepito e incoscienza”.

“Forse è il corpo che tenta di resistere al risucchio del nulla. Perché davvero qui sei solo, rischi di diventare matto. Parli con te stesso, ti viene naturale, e non ti accorgi di farlo per il semplice motivo che hai il tuo Doppio accanto (…). Lo sento anche ora: se aprissi gli occhi lo vedrei seduto al capezzale. Ieri per due volte volte, esplorando l’Isola prima della pioggia, mi sono voltato per capire di chi erano i passi dietro di me, ma non c’era nessuno”.

Edward Hopper. Credits @HopperAtoZ

Questi brani non sono tratti dalla SRT bensì da “Il Ciclope”, l’ultimo lavoro di Paolo Rumiz uscito a novembre 2015 per Feltrinelli e credo parlino da soli, senza bisogno di commento. Mi piacerebbe avere il tempo e le risorse (nonché il talento! — piccolo particolare) per raccogliere la sfida lanciata da Luca Albani via Twitter: cominciare a definire un corpus di testi su cui poter poi innestare una riflessione critica riguardo la potenziale esistenza di un New Nature Writing tutto italiano: a quanto pare, il materiale non mancherebbe.

Per il momento però non posso fare altro che ringraziare non solo Luca Albani ma anche Francesco Guglieri che con pazienza e passione, tra un twitt e l’altro, mi hanno accompagnato in questa mia avventura da autodidatta alla scoperta del New Nature Writing. Spero di aver ricambiato con queste note, almeno in parte, la loro infinita cortesia.

Buona lettura

 

Un pensiero su ““The Southern Reach Trilogy”, di Jeff Vandermeer

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