“Kerans si disse che aveva fatto bene a restare all’interno dell’albergo: le tempeste scoppiavano con frequenza sempre maggiore via via che la temperatura andava aumentando. Ma Kerans sapeva benissimo che il reale motivo della sua decisione era l’accettazione ormai passiva del fatto che gli restasse ben poco da fare. Le rilevazioni biologiche erano diventate un gioco senza senso e privo di alcuna utilità, dato che la nuova flora seguiva pedissequamente le tendenze anticipate dagli scienziati vent’anni prima, ed era sicuro che nessuno a Camp Byrd, nella Groenlandia settentrionale, si preoccupava di archiviare i suoi rapporti, figuriamoci poi di leggerli” . (JG Ballard, “Il mondo sommerso”, Feltrinelli 2005, trad. Stefano Massaron, pag.5)
“Il microscopio era abbandonato da tempo in un angolo, coperto di muffa, semisepolto dal passare degli anni . Non avevo la forza di prelevare un campione, di scoprire quello che già sapevo. In fondo, un microscopio non poteva dirmi niente di quel gufo che già non sapessi. Niente che non avessi capito in anni e anni di stretta interazione e osservazione”. (Jeff Vandermeer, “Accettazione”, Einaudi 2005 pag. 148)
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Edward Hopper. Credits @HopperAtoZ |
E’ sufficiente questa simmetria tra il biologo Kerans e la biologa senza nome protagonista della SRT a rendere evidente il debito di Jeff Vandermeer nei confronti di James Graham Ballard, debito a cui segue di necessità un tributo che percorre tutta la “Southern Reach Trilogy”. In verità però ho scelto questo paragrafo, uno tra i tanti recuperati dal mio Feltrinelli sgualcito, anche perché credo che confrontato con quello di Vandermeer, citato appena sotto, riesca a identificare meglio di molti altri (forse più evocativi ma meno efficaci) le motivazioni che hanno determinato la scissione di cui Jeff Vandermeer è stato artefice: quella tra la fantascienza propriamente detta e il movimento New Weird.
Del fenomeno New Weird avevamo già avuto modo di parlare in occasione dell’uscita di “Annientamento” e ancor più con la pubblicazione di “Autorità”, SRT parte seconda, che aveva innegabilmente risvegliato le attenzioni della critica nostrana fino ad allora sicuramente entusiasta dell’opera ma poco avvezza a trattare certi argomenti più consoni, per tradizione, alla narrativa d’oltreoceano.
“Try sci-fi and sci-fi film (…). “It opens up worlds of imagination. (…) “Some of the most exciting thinking about identity and landscape seems to me to be happening in science fiction and speculative fiction, which I teach in these terms: the extraterrestrial pastoral as a means of radically rethinking notions of belonging and place”.
Cito questo passo non perché sia il primo sull’argomento, o il più interessante; la realtà è che mi ci sono affezionata perché leggendolo sono riuscita per la prima volta a fissare nei miei appunti un concetto fondamentale: il New Nature Writing ha ormai travalicato il genere letterario da cui è nato; il che, a mio parere, non è poco. Poi vedremo perché.
“On one hand, nature is considered as something we should not attempt to manage — what is wild is just what is not cultured. Rewilding, Monbiot promises, “is about resisting the urge to control nature and allowing it to find its own way”. There is a certain smug hands-off paternalism to this image, as though the rewilder is watching from a safe distance while nature, like an adorable little child, wanders off haltingly on its own path”
“Nature writers do tend to whitewash the non-human world as a place of eternal sun-dappled peace and harmony, only ever the innocent victim of human depredation (Leach even says nature is like a “hostage” and we her “captors”) — always somehow forgetting that nature has exterminated countless members of her own realm through volcanic eruption, tsunami, or natural climate variation, not to mention the hideously gruesome day-in, day-out business of parts of nature killing and eating other parts. (…) If you go back far enough, human beings aren’t native to any part of the world except Africa. So we must be among the most invasive species of all. We’re eternal immigrants to a nature where we don’t belong. This assumption, too, is common in modern nature writing. We are interlopers, intruders. Nature is no longer our home”.
“Until relatively recently, things were clearer; the British branch of nature writing was mostly about the countryside, its landscape and creatures; it was non-fiction, non-scientific prose characterised by close attention to living things that were known and often loved by its writers. It almost always felt as if it had come from the pre- or barely industrial past and, with rare exceptions, nature writing was nice writing and it walked — stout shoes and knapsack — a thin green lane between hedges of science on one side and a wild wood of poetry on the other. It was different from either, though fed by both, and it bled palely back into each. It developed through letters (for example, Gilbert White),diaries (Francis Kilvert), essays (Edward Thomas) and journalism (WH Hudson). (…) In this crisis of the end of nature, poetry, polemic and scientific prose have vastly lengthened the nature-writing booklist. Meanwhile old taxonomies, hierarchies and clarities have disappeared”.
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The High Shore, (1923) Lyonel Feininger. Credits TBC |
“Books on nature and landscape follow fashion, just like everything else. At present, the dominant mode is the transcendental: muddy-booted birdwatchers are out, and high-minded Emersonians are in. Arguments from authority — the lab smarts of the ecologist or zoologist, the field knowhow of the naturalist — have lost their clout. The writer Melissa Harrison has made the case that “some experts forget that fostering a love of nature doesn’t start with facts and statistics, but stories and experience: things that engage our hearts and bodies as well as our minds.” Facts are less interesting than personal experience. But this is not any old personal experience. It is, to all intents and purposes, religious experience”.
“The many stories of the universe from which we sprang provide one such center: transcendent power, inscrutable complexity, and humbling vastness. When we get a taste of these we’re inclined to preach the revelation to others. I see this move as directly parallel to the impulses underlying mystical religious writings. This parallelism results in not a convergence of language, but language flowing from the same source. (…) Haskell is a writer who can combine a kind of transcendentalism with a clear, human prose style. He also has a Cornell PhD in Ecology and Evolutionary Biology. Others of those who come down to us from the mountain bearing strange writings might not have PhDs or years of hands-on experience, but that’s precisely the point — they don’t need those things, because they have something better. They speak with the voices of prophets”.
“It’s interesting to note, by the way, that while the Victorian heyday of popular nature writing was dominated by Anglican clergymen exploring the science of their subject, the big players in today’s scene are writers of a humanist bent pushing a transcendentalist angle”.
“La mano del peccatore esulterà, perché non c’è peccato nell’ombra o nella luce che i semi dei morti non possano perdonare” (Jeff Vandermeer, “Accettazione”, Einaudi 2005 pag. 259). Detto e fatto.
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French Coast, (1892) Van Rysselberghe. Credits @MichikoKakutani |
La struttura di questa terza parte è già di per sé complessa, definita com’è dai continui salti temporali a cui il lettore è costretto: il presente — la fuga della biologa e di John Rodriguez all’interno dell’Area X e, in parallelo, quella della vicedirettrice Grace; un passato recente — la spedizione misteriosa e non autorizzata della direttrice e del suo vice Whitby; un passato invece più remoto — quello del guardiano del faro, Saul Evans; il racconto della biologa, anch’esso ormai trascorso, che narra in prima persona i momenti passati all’interno dell’arcipelago e del faro sull’isola contaminata.
“Era quella che si dice una giornataccia. Salivo per il sentiero a picco sul mare lottando con le raffiche, e nel buio dovevo badare a dove mettere i piedi. Da ovest arrivava il temporale, la folgore mitragliava un promontorio lontano simile a una testuggine. Ero sbarcato appena in tempo: con quel mare in tempesta non sarebbe arrivato più nessuno per chissà quanti giorni. Ero solo, non conoscevo la strada del faro e l’Isola era deserta. Miglia e miglia lontano, il resto dell’arcipelago era inghiottito dal buio e dalla spruzzaglia. Non una luce, niente”.
“Rileggo il diario di quel primo giorno. Frasi brevi, quasi degli haiku. ‘Ore tre. Impossibile riprender sonno. Aprile, notti fredde’”.
“Scale a chiocciola, una porta bianca, una scala di ferro, una seconda scala. Oltre non vado. Ho paura che l’occhio di Polifemo si possa guardarlo solo nel riflesso dei vetri esterni, e da un angolo più basso. Oltre, temo che la luce sia intollerabile. (…) A ripensarci, mi rendo conto di non aver scritto io questa storia. Sono stati il vento e la marea. Io non ho fatto che registrarne la voce amplificata dal ventre cavo della torre”.
“E’ la notte della Risurrezione, ma sembra quella del Golgota: chissà se il Nazareno ha già spostato la pietra del Sepolcro. (…) Quanto ci farebbe bene, penso, un po’ di sano, superstizioso timore dell’ira d’Iddio — o degli dèi — per guarire da questa oscena sicumera che nasce dal sentirci garantiti e sazi in un mondo pieno di strepito e incoscienza”.
“Forse è il corpo che tenta di resistere al risucchio del nulla. Perché davvero qui sei solo, rischi di diventare matto. Parli con te stesso, ti viene naturale, e non ti accorgi di farlo per il semplice motivo che hai il tuo Doppio accanto (…). Lo sento anche ora: se aprissi gli occhi lo vedrei seduto al capezzale. Ieri per due volte volte, esplorando l’Isola prima della pioggia, mi sono voltato per capire di chi erano i passi dietro di me, ma non c’era nessuno”.
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Edward Hopper. Credits @HopperAtoZ |
Questi brani non sono tratti dalla SRT bensì da “Il Ciclope”, l’ultimo lavoro di Paolo Rumiz uscito a novembre 2015 per Feltrinelli e credo parlino da soli, senza bisogno di commento. Mi piacerebbe avere il tempo e le risorse (nonché il talento! — piccolo particolare) per raccogliere la sfida lanciata da Luca Albani via Twitter: cominciare a definire un corpus di testi su cui poter poi innestare una riflessione critica riguardo la potenziale esistenza di un New Nature Writing tutto italiano: a quanto pare, il materiale non mancherebbe.
Per il momento però non posso fare altro che ringraziare non solo Luca Albani ma anche Francesco Guglieri che con pazienza e passione, tra un twitt e l’altro, mi hanno accompagnato in questa mia avventura da autodidatta alla scoperta del New Nature Writing. Spero di aver ricambiato con queste note, almeno in parte, la loro infinita cortesia.
Buona lettura
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