“Kallocaina”, di Karin Boye (trad. Barbara Alinei)

“Sapevo che una volta, all’epoca dei civili, gli uomini dovevano essere attirati al lavoro e alla fatica dalla speranza di ottenere case più grandi, cibi più raffinati e vestiti più belli. Ormai non ce n’era più bisogno. L’appartamento standard – una camera per chi non era sposato e due per le famiglie – era più che sufficiente per tutti, dai più umili ai più meritori. I pasti della cucina condominiale nutrivano il generale come il soldato semplice. L’uniforme comune – una per il lavoro, una per tempo libero e una per il servizio militare o di polizia – era uguale per tutti, uomini e donne, di basso o alto rango, eccetto che per i distintivi di grado. Ma anche questi non differivano l’uno dall’altro per eleganza. Ciò che rendeva desiderabile un distintivo di grado superiore era unicamente il suo valore simbolico. Tale è il livello di spiritualizzazione.”

Poetessa di ampia produzione e scrittrice di cinque romanzi di cui “Kallocaina” è il più noto, Karin Boye nasce a Goteborg nel 1900; la famiglia si trasferisce presto a Stoccolma dove la Boyle, agevolata dal clima che si respira tra le mura domestiche, compie studi umanistici ed eterogenei che vanno dalla letteratura alle religioni orientali, dal greco antico al norreno. Durante gli anni universitari si unisce al movimento Clarté, le cui basi sono da ritrovarsi nel pacifismo e nella critica sociale socialista. Viaggia in Europa, visitando perfino l’Unione Sovietica e la Germania agli albori del Nazismo; nel 1929 si sposa con un collega di movimento ma divorzia poco dopo, a seguito di un percorso di psicoanalisi – altra materia di studio approfondito – che le permette di accettare la propria omosessualità, fino ad allora negata e repressa. Nell’aprile 1941, poco dopo aver completato “Kallocaina”, viene ritrovata senza vita, morta suicida, in un bosco di campagna non distante dall’abitazione che condivideva con un’amica malata di cancro, di cui si era innamorata e che da tempo accudiva.

Affrontare l’opera di Karin Boye significa immergersi in un mondo in cui le esperienze di viaggio, gli studi su materie specifiche e la vita privata dell’autrice si compenetrano in un sistema di pensiero attuale e composito. È in particolare il caso di “Kallocaina”, distopia da manuale perché recupera tutti i temi fondativi del genere, dalla critica sociale nei riguardi dei regimi totalitari fino al minimalismo della rappresentazione ambientale, e allo stesso tempo ne aggiunge uno specifico, di chiara influenza autobiografica: la necessità – che per Boyle non differisce da una volontà personale, autoimposta – di conformarsi a un modello sociale prestabilito tramite un quotidiano, controintuitivo e problematico processo di adeguamento.

In “Kallocaina” la rappresentazione finzionale di questo conflitto interiore nel momento esatto della sua nascita – la presa di coscienza della discrepanza – è affidata all’integerrimo Camerata Leo Kall, funzionario di una non ben identificata “Città Chimica numero quattro”. All’interno di questa megalopoli vige il sofisticato sistema politico dello “Stato Universale”, regime totalitario (di impronta prettamente socialista ma non scevro da alcuni elementi vicini nazifascismo) che per tramite sia dei propri funzionari sia dei cittadini stessi, direttamente coinvolti nei processi quotidiani di gestione e controllo, domina l’intera collettività dal punto di vista politico, economico e sociale.

L’occhio del potere scruta ogni anfratto della vita individuale che, suddivisa in tempi di lavoro, svago e servizio alla comunità, è regolamentata in ogni aspetto e secondo rigidi protocolli di fruizione nel tempo e nello spazio. In particolare, la dimensione personale è limitata e ogni individuo è precocemente inserito nella collettività: ad esempio, le relazioni di coppia si basano su frequentazioni e matrimoni di fatto combinati e gli eventuali figli (ndr: Leo Kall ne ha tre) sono presto allontanati dal nucleo familiare per essere distribuiti fra le città dell’impero a seconda delle necessità governative – che prevedono anche l’addestramento militare, poiché l’impero è sotto costante minaccia da parte di altri regimi limitrofi.

“Dovresti ben capire che non è la mancanza di difetti che fa un buon compagno, e ancor meno l’irreprensibilità in quelle questioni in cui l’etica pubblica è ancora in elaborazione. No, la cosa più importante è la capacità di abbandonare il proprio punto di vista per abbracciare quello giusto.”

Malgrado le restrizioni tuttavia, la vita sotto lo Stato Universale non viene percepita poi così disturbante o limitata – o almeno questo è ciò che appare: il sistema soddisfa tutte le necessità materiali, comprese quelle di vitto e alloggio, e a ciascun individuo sono assegnati, pur nei contorni di un principio di scelta oltremodo ristretto, un contratto di lavoro a tempo indeterminato e anche momenti di svago e di relazione più o meno in linea con l’interesse personale, che comunque viene agevolmente tralasciato in favore di un’ormai interiorizzata disposizione d’animo a favore del collettivo. Il potere governa con pugno di ferro ma o per deliberato calcolo o per inconsapevole inerzia tende a limitare gli interventi più invasivi: in questo modo le maglie vengono ad allargarsi e sono molte le situazioni in cui, pur nella restrizione, l’individuo riesce a gestire la propria quotidianità in maniera in un certo qual modo accettabile (relazioni extraconiugali comprese). Anche la pena, ove si riscontri una lieve infrazione, possiede spesso carattere simbolico e la giustizia viene applicata in maniera sostanzialmente corretta. Escludendo la perenne situazione di emergenza bellica – che alla fin fine potrebbe anche essere del tutto costruita ad arte, per quanto si mostra indeterminata e aleatoria – la vita dei cittadini dello Stato Universale scorre tranquilla e la popolazione, complice anche un assiduo lavoro di propaganda vòlto a magnificare il presente a fronte di un passato insalubre, violento e socialmente instabile, pare possedere un’opinione tutto sommato positiva, quando non apertamente favorevole e financo devota, come nel caso del Camerata Kall, nei riguardi delle strutture governative al rispetto per le quali viene affiancato un alto livello di responsabilità collettiva.

E difatti “Kallocaina” parte proprio da qui, dalla riflessione su quel che a lato pratico non manca ma di cui, in un modo o nell’altro, non si può fare a meno di sentire la mancanza.

“Rigettai con tutte le forze il pensiero della Città Deserta, forse non tanto perché fosse chimerica quanto perché era repellente. Repellente e al tempo stesso attraente. Mi ripugnava l’idea di una città – per quanto in rovina, squarciata dai gas e invasa da batteri, abitata da esseri asociali che vi cercavano il loro misero rifugio nascondendosi tra i sassi, perseguitati dall’angoscia e dal terrore, spesso vittime degli agguati della morte – una città dove comunque il potere dello Stato non arrivava, un territorio al di fuori della comunità. Ma perché attraente? La superstizione ha spesso un suo fascino, mi dicevo con sarcasmo. È uni scrigno nel quale si custodiscono come tesori le proprie illusorie tentazioni: il timbro profondo di una donna, il tremito nella voce di un uomo, un attimo, mai vissuto, di completa devozione, un riprovevole sogno di fiducia illimitata in un altro, la speranza di una sete saziata e di un profondo riposo.”

Il libro è strutturato come un lungo flashback in prima personasotto forma di diario dal carcere (e qui non si po’ rivelare la motivazione della prigionia, che copre per tutta la lettura del romanzo la funzione di efficace sistema “page turner”) nel quale il protagonista racconta le modalità attraverso cui, tramite i propri studi ed esperimenti, si imbatte una curiosa specie di siero della verità. Questa sostanza –brevettata con il nome dell’inventore, come si può intuire – una volta iniettata nei pazienti crea una sorta di trance durante in quale l’individuo non può esimersi dal rivelare ogni sentimento più recondito e quindi, va da sé, anche confessare eventuali momenti di debolezza, sconforto o franca ribellione nei confronti del regimeIl soggetto è spinto da un impulso irrefrenabile e disinibito a rivelare non solo accadimenti già avvenuti ma anche, e qui sta il punto, prossimi a compiersi, nella condivisione forzata non tanto di programmi già predisposti quanto di riflessioni e sentimenti ancora in bozza. L’invenzione viene brutalmente sperimentata su “materiale umano” e i volontari (in realtà cittadini che per mestiere hanno scelto il sacrificio estremo: una forma di lavoro, degna del massimo rispetto, che prevede la cessione del proprio corpo al regime per fini di sperimentazione) interrogati da un Kall incredulo, entusiasta ed efferato, si trovano ad ammettere ogni tipo di “delitto di pensiero”: dal desiderio di tradire il partner al senso di estraneità nei confronti del proprio mestiere, sino alla produzione di fantasie su un nuovo modo di concepire la vita personale, la famiglia o la società stessa. Naturalmente il preparato desta l’attenzione degli alti vertici e Kall assurge a inaudite vette di popolarità – salvo poi, come è possibile prevedere, cadere vittima del suo stesso sistema di delirio e mania di controllo nel momento in cui il dubbio comincia a erodere le sue personali, intime certezze: prima sui suoi collaboratori, poi sulla moglie e, infine, addirittura su sé stesso.

“Kallocaina” racconta un mondo al contrario – già solo per muoversi nella città pare sempre che occorra scendere, in un continuo di spazi chiusi fra ascensori e luoghi di scatole cinesi che assomigliano più al labirinto dei criceti che a un ambiente urbano – all’interno del quale il talento più ambito sembra identificato con la capacità di adattarsi, non certo con l’eccellenza individuale. Essa viene di riflesso poiché il principio dell’omologazione, giustificato per mezzo del bene collettivo, se ben attuato porta alla completa aderenza al regime, ossia all’approvazione da parte della comunità.

Il punto in realtà non è la messa in discussione di una sovrastante, malvagia struttura politica ma il comprendere cosa succede quando nella quotidianità viene a mancare il sentimento che deriva da un’azione unica, individuale, fatta – oseremmo dire – solo per sé. Ecco perché nel delirio indotto dal siero le cavie umane fanno riferimento non tanto a ipotesi di complotto e rovesciamento politico-militare come si aspettavano Kall e le autorità preposte ma a fantasie che insistono prima di tutto sull’intimità del quotidiano: vivere in un gruppo sociale scelto, altro da quello imposto, coltivando – guarda caso – discipline artistiche come la musica o il ballo (che ça va sans dire nello Stato Universale sono rigidamente proibite, se non nei limiti dell’utilizzo propagandistico), abitare nella Natura, al di fuori del contesto iperurbanizzato della città-trappola, e – addirittura – allevare i figli in piena autonomia decisionale, dando spazio a un rapporto genitoriale di lunga durata, empatico, costruito su misura, libero dai dettami imposti dal regime.

Cosa capiterà al Camerata Kall quando, terminata la dose di sonnifero mensile, pur senza essersi sottoposto al rito della Kallocaina verrà assillato – nel corso di notti sempre più inquiete – dalle medesime visioni apparse ai suoi pazienti? Fino a che punto siamo padroni del nostro pensiero? E fino a che punto, insomma, possiamo arrivare a negare noi stessi?

“Certo sapevo che ufficialmente ci veniva attribuito uguale valore che agli uomini, o quasi, ma un valore accessorio, in realtà, semplicemente perché potevamo mettere al mondo nuovi uomini, o nuove donne che avrebbero a loro volta messo al mondo altri uomini. (…) Le donne sono inferiori agli uomini, mi dicevo, non hanno altrettanta forza fisica, sono meno resistenti, meno salde di nervi sotto i bombardamenti e sul campo di battaglia: insomma, sono guerrieri e soldati meno validi degli uomini. Non sono che uno strumento per creare nuovi guerrieri. Che ufficialmente si attribuisca loro ugual valore è pura cortesia, lo sanno tutti, per farle contente e renderle compiacenti. Arriverà forse il giorno, pensavo, in cui ci si accorgerà che le donne sono superflue, il giorno in cui si potranno conservare le loro ovaie e gettare il resto nella fogna. Allora lo Stato potrà esser fatto di soli uomini, e non ci sarà bisogno di sprecare denaro per l’educazione e il mantenimento delle bambine.”

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