"Morte di un uomo felice", di Giorgio Fontana

“Morte di un uomo felice” conclude il dittico su magistratura e giustizia iniziato nel 2011 con “Per legge superiore”, di cui è naturale prosecuzione.

Nella prima opera, ambientata ai giorni nostri, era protagonista un sostituto procuratore milanese, il sessantenne Roberto Doni, alle prese con un caso di delinquenza urbana ad opera di un giovanotto extracomunitario (lesioni gravissime inferte a una ragazza italiana durante una rissa), stando alle risultanze processuali. Un dibattimento all’apparenza semplice e di ordinaria amministrazione le cui carte però vengono scompaginate da Elena, una giovane reporter di strada convinta sostenitrice dell’innocenza del muratore tunisino. La giornalista prende contatto con Doni e lo convince a immergersi nella realtà multietnica della periferia nord di Milano, tra le case di ringhiera di Viale Padova e i casermoni di Via Porpora. Un viaggio – novello Cuore di Tenebra – che non sarà per il sostituto procuratore soltanto un’indagine parallela, ufficiosa e ai limiti del lecito volta a scoprire il reale svolgimento dei fatti ma soprattutto una dirompente analisi intima e introspettiva che, rimandata da troppi anni, scardinerà le certezze personali e professionali del protagonista: un tranquillo funzionario pubblico con la coscienza imborghesita dagli anni che sarà condotto, proprio dall’età anagrafica prossima alla pensione, ad interrogarsi – di nuovo, dopo molto tempo – sul ruolo della giustizia e sul significato di parole quali dubbio e compromesso.

Se questo primo racconto era inficiato da qualche indecisione nell’impianto narrativo e da una caratterizzazione dei personaggi, specie di quelli secondari (a parte uno, poi vedremo meglio chi), che in alcuni episodi risente di una eccessiva tipizzazione, lo stesso non si può dire di “Morte di un uomo felice” nella cui stesura è possibile apprezzare invece la maturità tecnica raggiunta dell’autore.

Milano, estate 1981; siamo nel pieno degli anni di piombo. Il magistrato Giacomo Colnaghi, appena quarantenne, è impegnato nella lotta alle organizzazioni terroristiche e insieme a un piccolo manipolo di colleghi coordina le indagini relative alla morte di un politico democristiano, assassinato da una banda armata di nuova costituzione. La figura di Colnaghi era apparsa, personaggio secondario, già in “Per legge superiore”, così ricordata dal sostituto procuratore Doni:

“1981. Erano gli ultimi mesi ad Ancona, e stava preparandosi al trasferimento a Gallarate. Elisa aveva due anni e Doni era così felice da non riuscire nemmeno a trovare un nome esatto per quello stato: non era abituato alla gioia. Era rientrato a Milano per vedere i suoi e qualche casa in città, e ne aveva approfittato per cenare con Giacomo Colnaghi, un vecchio compagno di università, allora sostituto procuratore. 

Erano sempre stati conoscenti affettuosi, più che grandi amici – vite diverse, idee diverse su quasi tutto: ateo Doni e credente Colnaghi, antisportivo Doni e appassionato ciclista Colnaghi – ma ora eccoli lì, accidenti: due magistrati sui trentacinque che escono sottobraccio, gonfi di risotto e un po’ ubriachi, da una trattoria sul naviglio pavese. Il nome per la felicità che Doni non trovava poteva essere riassunto in quella gamma di dettagli: i colori a tempera della sera, il margine malfamato e romantico del quartiere, due gatti che dormivano nell’ingresso di una corte, il profumo elettrizzante dell’estate. Quella era la vita. Quella e nient’altro – un amico, una figlia, un progetto.” (“Per legge superiore”, p.68-69)

“Morte di un uomo felice” si interpreta proprio come una costola del precedente lavoro, di cui ne specifica i contorni e ne ridefinisce le tematiche creando una rete di rimandi e precisazioni che ne completano il significato.

“Attraversarono e risalirono via Padova

per una cinquantina di metri. Elena si fermò
davanti a un palazzo non molto diverso dagli altri:
giallognolo, la facciata sfatta. 
La fila centrale di finestre aveva dei balconi in marmo; 
su uno di essi Doni 
vide amassati un triciclo, due assi di legno 
e una rete di letto” (PLS p.85)

Se Doni è il pubblico ufficiale anziano, all’apice di una fulgida e irreprensibile carriera, lo spirito un po’ intorpidito e disincantato da anni di fedele sudditanza alla nomenklatura nell’esercizio quotidiano di applicazione della Legge dentro le aule dei tribunali, Colnaghi rappresenta, in una prospettiva rovesciata all’indietro, ciò che il sostituto procuratore sessantenne non è più o peggio non ha mai avuto il coraggio di essere fino in fondo: un giovane uomo schierato in prima linea, costantemente roso dai tarli del dubbio e dell’irrequietezza nei confronti di una materia, quella penale, irta di ostacoli e di dilemmi primo fra tutti quello della differenza che passa tra legge e giustizia

L’inchiesta di Colnaghi e del suo pool di colleghi è un’investigazione a tutto campo fatta di perseveranza, assiduità e rigore e porta con se i tratti drammatici della tragicità del periodo preso in esame: dagli indizi recuperati a fatica sfacchinando da un ufficio all’altro, vittime della più ottusa burocrazia, agli interrogatori dei collaboratori di giustizia, alle indagini per strada alla ricerca di eventuali testimonianze, alle minacce di morte, ai colleghi assassinati (il citato Guido Galli, per esempio). 

Il filo che collega i due romanzi tuttavia non si ferma al dialogo a distanza tra i due protagonisti. Il segnale di quanto una lettura pluridimensionale sia necessaria e imprescindibile è offerto direttamente dall’autore che sceglie di accantonare, per “Morte di un uomo felice”, la forma cronachistica in favore di una prospettiva più intima e privata (che tuttavia lascia inalterata la precisione della narrazione, a rivelare l’ottima preparazione di Fontana riguardo l’utilizzo delle fonti).
Questo tratto intimistico è dato dalla narrazione, che va in parallelo a quella principale, della vita di Ernesto Colnaghi, il padre del protagonista: un umile operaio lombardo, fucilato dai soldati tedeschi a seguito di un’azione partigiana a cui aveva preso parte, e verso cui Giacomo prova un sentimento ambivalente fatto di ammirazione e al tempo stesso di incomprensione per un gesto che tutta la famiglia paterna ha sempre considerato come la mattana di uno squilibrato idealista. Una memoria di cui Giacomo, piccolissimo alla morte del padre, non può serbare ricordo diretto: fatto questo – il doversi sempre riferire ad altri per avere accesso alla figura del padre – che alimenta una perenne sensazione di precarietà e incertezza di giudizio.

Il naviglio della Martesana all’imbocco di Viale Padova
Giacomo Colnaghi è un padre di famiglia per intima vocazione, ma poi alla fine nella pratica della quotidianità se ne vien fuori distratto e impacciato: col figlio di due anni il dialogo è naturalmente ancora scarso mentre con il maggiore, in età di scuola, i rapporti sono pesanti, inficiati dalla fragilità caratteriale del ragazzino che fatica a stare al passo dei coetanei e ricerca ancora l’appoggio emotivo genitoriale, specie quello paterno: bisogno che tuttavia come naturale si tramuta spesso in malcelata ostilità, per via della goffaggine del padre. Colnaghi difatti è poco presente in famiglia anche per via della distanza fisica cui è costretto a causa del suo lavoro che vive in maniera totalizzante e ossessiva. Ha una bella casetta in provincia alla quale torna soltanto nel fine settimana, come un ospite temporaneo(per il resto abita uno scarno monolocale in affitto, dalle parti di viale Monza nel quale il senso di estraneità è paradossalmente molto minore – e i sonni più facili) e una moglie che si occupa dell’economia domestica e dell’anziana suocera: ma i rapporti con le due donne sono sempre più distanti, rarefatti, farraginosi. E’ fervente cattolico ma di una religiosità sentita, struggente e mai bigotta che offre più dilemmi che conforti; è amante della solitudine ma alla fin fine si accompagna spesso a un paio di amici di vecchia data con cui condivide una birra ghiacciata all’osteria, una corsa in bicicletta o una discussione di letteratura. Sceglie fin da giovane ma con animo tormentato la strada della magistratura, spinto dal desiderio di comprendere le origini del male e di ricomporre attraverso la giustizia ciò che quel male ha straziato, evitando così che tutto si risolva nella mera applicazione astratta della Legge in un inutile sforzo di prevenzione mediante lo strumento della condanna al carcere. 

Le vicende di Giacomo si intersecano con quelle di Ernesto e ad esse di sovrappongono in un continuo gioco di rimandi e avvicinamenti. Come in parte capita a Giacomo, così Ernesto, di umili origini, durante la guerra si accasa con una donna del paese, di famiglia benestante (e forse anche vicina al Fascio) ma poi si avvicina alla lotta partigiana e finisce che ad essa, in nome di un bene superiore, sacrifica il lavoro, la famiglia e infine la vita stessa abbandonando a un destino difficile la giovane vedova e i due figli ancora piccoli che di questo gesto porteranno per sempre le cicatrici. 

Bocciofila con trattoria, Melchiorre Gioia
Interessante come in entrambe le narrazioni una posizione di estrema rilevanza sia dedicata ai bambini: con tratti delicati, estremamente veritieri, Fontana ne descrive gli atteggiamenti, le necessità, i bisogni, le aspettative. Fulcro di entrambe le vicende, sono il motore che muove le azioni dei tre protagonisti: Doni che desidera riallacciare i rapporti con Elisa ormai emigrata all’estero per concludere gli studi (e che mai più tornerà in Italia); Ernesto che prende parte alla lotta partigiana nel tentativo di salvare i figli dalla guerra, dalla miseria e dalla dittatura; Giacomo che nonostante l’esperienza tragica del genitore – o proprio per questo, chi lo sa – attraverso l’esempio di operosità sul lavoro spera di insegnare a Daniele e al piccolo Giovanni il valore dell’empatia e della com-passione.

In entrambi i casi, i protagonisti si confrontano – per scelta dell’autore che in questo modo rivela un intento certamente ambizioso e sofisticato – con tre dei più drammatici accadimenti che hanno caratterizzato la Storia moderna e contemporanea del nostro Paese: la lotta partigiana, gli anni del terrorismo e la questione dell’immigrazione.

Casa di ringhiera, quartiere Martesana
Su tutto domina Milano, specie la sua periferia nord fatta, nel passato, di case di ringhiera, osterie e bocciofile di quartiere, sferragliare dei tram, caldo torrido dell’estate in città; nel presente, di palazzoni fatiscenti con le parabole sul balcone e le tende di plastica trasparente alle finestre, quartieri multietnici, gabbiotti di kebap e oggettistica made in China – e la luce rosata di un tramonto primaverile. 

Due opere fortemente contestualizzate che innegabilmente perdono parte del loro fascino se lette da chi a Milano non è mai vissuto o da chi, malgrado ci risieda, ne sperimenta soltanto la parte più commerciale e, vien da dire, turistica. 

Lode a un autore che pur essendo un arioso ha saputo rendere appieno, sia per temi sia per lessico, una realtà urbana complessa, e affascinante, come quella della periferia milanese. 
“Per legge superiore” (Sellerio 2011) ha vinto il Premio Racalmare – Leonardo Sciascia 2012, il Premio lo Straniero 2012 e la XXVI edizione del Premio Chianti. “Morte di un uomo felice” (Sellerio 2014) è vincitore del Premio Campiello 2014.

Buona lettura 🙂

2 pensieri su “"Morte di un uomo felice", di Giorgio Fontana

  1. Ho avuto modo di assistere a un incontro con Giorgio Fontana e solo lì ho capito l'importanza che per lui aveva la città di Milano.
    Probabilmente è vero che chi non la conosce molto bene si farà sfuggire alcuni dettagli che per l'autore sono invece fondamentali, soprattutto perché tratta della periferia e non del centro, ben noto a molti. Anche l'uso del dialetto dà una certa idea di provincialità piuttosto lontana dalla metropoli milanese.
    Complimenti per le fotografie!

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  2. Ciao! Che bello averti qui seguo il tuo blog da tempo 🙂

    Sono contentissima della tua osservazione sul dialetto. Non l'ho scritto nel post ma devo ammettere di aver fatto un po' di ricerche. C'erano alcuni termini sui quali avevo dei dubbi, sia lessicali sia topografici. Esempio: Viale Padova o Via Padova, idem via Porpora (mi pare, ora non ho qui il testo per controllare) e un paio di altre strade mi pare vicine all'Isola (Milano nord) che nel testo vengono indicate in maniera diversa da come ho sempre sentito dire.

    Per quanto riguarda il lessico, c'era ad esempio l'utilizzo (per dirne uno) del termine “paste” ad indicare i “pasticcini” (in “Morte di un uomo felice”) – lì mi sono documentata, l'utilizzo è corretto nel senso che effettivamente diversi dizionari milanesi riportano “pasta” alla voce “pasticcino” (perché, vero, a Milano non si usavano i pasticcini piccoli – mignon – ma un tipo di dolce più grande, dello stesso tipo dei mignon, ma appunto “pasta”) e ho controllato anche altre espressioni – specie in “Morte di un uomo felice”, che essendo ambientato negli anni 80 è il testo più critico dei due per quanto riguarda la lingua, e risultano corrette (magari varianti dell'uso comune – che è quello che io conosco – ma di base corrette)
    Fontana è un “arioso” ma ha fatto un gran lavoro di cesello a mio parere sulla lingua creando dei riferimenti dialettali precisi: di base condivido la tua sensazione di “certa idea di provincialità”, e ci sta, anche perchè i personaggi non sono originari di Milano. Ha saputo trovare un buon equilibrio secondo me tra testo fruibile e accessibile a tutti, ed espressione della regionalità.
    Grazie per la nota sulle foto 🙂

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