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“In questo viaggio impiego gli strumenti della filosofia per capire cosa dovrebbero fare gli esseri umani nei confronti degli animali selvatici. Quindi occorre saper argomentare in modo chiaro e convincente a favore del valore delle specie, se mi accingo a sostenere che è moralmente giustificabile fare del male, uccidere e compromettere l’autonomia di creature senzienti per salvare la specie.”
Cosa significa oggi parlare di “natura incontaminata” o di “specie nocive“? Ha senso ragionare di tutela della biodiversità riferendoci a mondi che per migliaia di anni sono stati plasmati dalle popolazioni che li hanno abitati? Qual è la nostra responsabilità etica nei confronti degli “animali selvatici” il cui habitat e le cui traiettorie evolutive abbiamo contribuito a modificare?
La giornalista scientifica Emma Marris (pluripremiata divulgatrice, con articoli apparsi su National Geographic, the Atlantic, the New York Times, Wired) comincia da questa manciata di scomode domande – in realtà già argomento del suo primo libro (“Rambunctious Garden: Saving Nature in a Post-Wild World”, inedito qui in Italia) – per definire ancor meglio, in questo secondo testo che si vorrebbe dire programmatico, la propria visione nei riguardi della spinosa questione del conservazionismo. Come spiega l’autrice stessa, la “biologia conservazionista” è quel campo scientifico nato nel 1985 che a differenza dell’ecologia, sua “disciplina madre”, “ha un programma esplicito: salvare le specie“; se l’ecologia “cerca semplicemente di descrivere i meccanismi del mondo vivente”, il conservazionismo, racconta Marris, “poggia su valori morali “, ha una “base etica” e gli scienziati che ne sono fautori “non si limitano a studiare cosa sta accadendo, ma forniscono raccomandazioni su cosa dovremmo fare.”
Lo strumento che Marris utilizza per questa analisi è il confronto diretto, sul campo, con le figure di spicco attive nelle pratiche conservazioniste o che, al contrario, a esse si oppongono. Si tratta – è bene sottolinearlo – di eminenti scienziati, biologi di pluriennale esperienza, responsabili di gruppi di ricerca o di progetti di tutela ambientale nelle più remote aree del pianeta Terra. Dopo una premessa di carattere filosofico tesa a indagare e cercare di definire i quesiti morali che ci portano a determinare di volta in volta la validità – o la necessità – di un intervento di tutela ambientale, Marris ci trascina in un lungo e affascinante viaggio nello spazio e nel tempo terrestre, alla scoperta delle radici e delle conseguenze di quel dualismo uomo/natura che tanto appassiona noi occidentali categorici – e dei tanti danni di cui questa “narrativa ambientale misantropica” si è resa responsabile, dal concetto di “contaminazione genetica” a quello della “sfumatura morale” del pensiero occidentale contemporaneo nei riguardi della tutela ambientale.
“La cultura occidentale ama notoriamente le categorie, in particolare i dualismi. Uomo e natura, Oriente e Occidente, selvaggio e addomesticato. Il modo in cui affrontiamo la prospettiva di una cane lupo in natura evidenza il nostro profondo disappunto quando i binarismi si incrinano o si confondono. (…) Se gli umani sono cattivi per definizione, il rovescio della medaglia vuole la natura buona per definizione. È per questo che vediamo l’aggettivo _naturale_ appiccicato alla nostra colazione, al nostro shampoo, al nostro sapone per i piatti.”
Insomma, le definizioni correnti di selvaggio e di area incontaminata partono dal presupposto che l’uomo non faccia parte della natura, dando anzi per scontato che qualsiasi presenza o azione umana in natura consegni all’ambiente lo status di meno selvaggio. In realtà, come racconterà Marris proponendo esempi concreti e testimonianze, che la presenza umana su un dato territorio sia sempre e comunque non pertinente è questione ancora tutta da dimostrare (mentre in più di un’occasione è capitato proprio il contrario). L’autrice si spinge anche oltre, prendendo posizione nei riguardi di un sistema di analisi i cui risultati, in termini di definizioni, si possono dire non solo “ascientifici” ma addirittura “dannosi” poiché si fondano su fallacie metodologiche: prima di tutto è un fatto che uomini e organismi vivi si influenzino tra loro da millenni, in un rapporto difficilissimo da districare; in secondo luogo la retorica della natura selvaggia viene spesso utilizzata per giustificare interventi di impronta colonialista (pensiamo alle terre espropriate ai nativi americani nell’errata convinzione che fossero incurate ma anche alle attuali pratiche di eradicazione di specie allogene nelle isole della Nuova Zelanda, dai nativi considerate irrispettose delle tradizioni locali). Da ultimo, “pensare che natura ed esseri umani siano incompatibili rende impossibile far rivivere o scoprire modi di lavorare con e all’interno della natura, per il bene comune” e di fatto in alcuni contesti elude l’analisi e la presa di coscienza sui temi dello sfruttamento del territorio.
“Un assioma conciso non sempre è sinonimo di un sistema etico a prova di proiettile.”
La disanima del dualismo uomo/natura passa anche, nel testo di Marris, da un attentissimo focus sul linguaggio, nell’organizzare un sistema che per esempio sostituisce – almeno nei contesti tecnici – “naturale” con “disabitato” o “all’aria aperta” e “stato selvaggio” con “non destinato all’uso umano” o “ambiente non costruito“; in sostanza, l’autrice pone sotto inchiesta il “culto quasi religioso della natura e della selvaticità” a cui dovrebbe sostituirsi un approccio costituito da due particolari “impegni”: la prosperità degli esseri viventi (che comprende la loro autonomia) e l’umiltà, a cui segue il principio di moderazione, da parte degli esseri umani.
“Sostenere che i bisogni e i desideri umani non devono travolgere quelli di altre specie [è] un concetto ben diverso dal sostenere che gli esseri umani devono essere estirpati come una massa cancerosa da qualsiasi ecosistema che porta le nostre tracce.”
Interrogandosi sul concetto di tutela della biodiversità, che riconosce come corretto, Marris tuttavia mette in discussione i mezzi utilizzati a questo fine, rispetto ai quali occorre domandarsi “se ci siano dei limiti a ciò che siamo disposti a fare“.
In primo luogo (1) Marris si focalizza sulla pratica dell’allevamento in cattività di specie a rischio d’estinzione (fedele all’intenzione programmatica di portare a tema alcuni casi pratici, dedica un capitolo intero, per esempio, alle vicende di recupero e reintroduzione in natura del Condor della California), processo che non esita a definire “un esercizio di dominazione totale” che, seppure efficace – a volte, non sempre -, occorre giustificare alla luce di un certo numero di valori. L’altro nodo programmatico del testo è difatti il recupero e la ricollocazione del termine specie all’interno di un sistema di valori definito “etica ambientale” e di una prospettiva di studio che deve di necessità abbandonare il punto di vista antropocentrico e far buona pratica nella distinzione tra valore strumentale e valore finale – a sua volta soggettivo oppure oggettivo – di ciò che chiamiamo specie, sempre che sia possibile provare che “specie ed ecosistemi abbiano un valore finale oggettivo”. Uno dei punti critici del conservazionismo infatti è il concepire la specie come un “fermo immagine” e la biodiversità come la presenza di un certo numero di specie “fotografate” in un dato momento (ndr: che spesso tra l’altro è l’attimo in cui l’esploratore bianco sbarca sull’isola incontaminata e prende nota sul suo taccuino di quanto vede e sente). Si tratta quindi di un “restauro ecologico” vòlto per certi versi a emulare un passato comunque non più antico di 12mila anni fa (ossia relativamente giovane, perché “nessun ecosistema, definito dalla composizione delle sue piante, ha più di 12.000 anni”), che rivela incrinature nel momento in cui per esempio ci si trova a lavorare su spostamenti avvenuti in epoche così lontane de rendere impossibile estrapolare quelli derivati dall’influenza umana (l’albero di kukui, simbolo delle Hawaii, è un esempio). Conservare le specie tuttavia (2) significa anche eliminare gli intrusi, perché per i conservazionisti l’atto di rimozione di una specie non ha come fine il famoso viaggio nel tempo di cui sopra ma l’arresto di una o più estinzioni. Seguendo il filo rosso tracciato da Marris viene facile a questo punto ripensare alla serie televisiva Dark, nella quale ogni personaggio, spinto dal desiderio di tornare alla condizione precedente, operava modifiche nel continuum spazio-tempo che favorivano il proprio destino ma che andavano a danneggiare irreparabilmente la linea temporale di qualcun altro, giudicata minoritaria. Ciò che succede in Dark è esattamente quello che capita all’interno di contesti ambientali in cui venga determinata la necessità di distinguere tra esseri viventi non umani nativi e allogeni, peggio ancora nel caso in cui si venga a contatto con soggetti ibridi, che in questa fase evolutiva del nostro pianeta non sono rari. “I confini tra le specie possono essere labili” – avverte Marris – tanto che a volte esse sono più “concetti umani” che una realtà biologica. Spoiler: in Dark alla fine il bene trionfa, nei processi di eliminazione di specie un po’ meno, tra i patimenti orribili sopportati dai roditori avvelenati con il brodifacoum, le proteste degli abitanti di alcune isole neozelandesi secondo i quali l’eliminazione delle “specie invasive” (ritenuta per altro appropriazione culturale dato che per i nativi la caccia di alcuni animali ha valore rituale) di fatto copre le nefandezze dello sfruttamento intensivo del territorio, e la necessità di una biosicurezza intesa come una “vigile sorveglianza” inapplicabile nella pratica quotidiana. Per non parlare delle conseguenze ecologiche impreviste e potenzialmente catastrofiche (si veda l’infestazione di cespugli di more selvatiche sull’isola di Santiago) di un’eliminazione abborracciata.
“Quando siamo tentati di impedire il cambiamento di una discendenza o di evitare l’ibridazione delle specie, dobbiamo chiederci: stiamo davvero preservando la biodiversità con questi interventi, o la stiamo ostacolando?”
La pars destruens del saggio di Marris è corposa, come si vede. L’autrice si dice ancora nel mezzo delle riflessioni alla ricerca di una mediazione costruttiva che riesca a minimizzare il “residuo morale” e a coniugare il rispetto del “diritto alla sovranità” che ogni essere vivente non umano possiede con la responsabilità collettiva (perché va detto, di danni noi umani ne abbiamo fatti parecchi), nell’intento di costruire “narrative in alternativa”, in reciproco vantaggio. Se poi questo intento passi dalla teoria della “conservazione compassionevole” (che già si oppone concretamente alla biologia conservazionista ma che fatica a imporsi per via dei costi altissimi e dello scarso impegno delle istituzioni) o dalla manipolazione genetica – con le criticità che questa metodologia porta con sé, uplifting fantascientifico compreso, questo è ancora tutto da vedere.
“Anime selvagge” appartiene al genere della narrative non fiction ma, per temi e linguaggio, afferisce anche all’universo della saggistica tradizionale: abbiate quindi cura di dedicare a questo testo dei momenti di lettura attenta e meditata.