Einaudi parla di un totale di 15.000 copie vendute nel il primo anno di pubblicazione, risultato più che soddisfacente per una biografia sportiva; totale che però poi schizza a quota 110.000 nel 2012*. A oggi, l’autobiografia di Andrè Agassi di copie ne ha vendute, sul mercato italiano, circa 700.000**.
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Andre Agassi ospite di Fabio Fazio, novembre 2013. Qui il video dell’intervista |
Succede che durante gli Open (ecco, appunto) del 2006, a un passo dal ritiro ufficiale, il pluripremiato tennista di cui sopra trascorre il poco tempo libero disponibile leggendo “The Tender Bar”, di JR Moehringer”.
Columnistper il LA Times e scrittore di successo, JR Moehringer (NewYork 1964) nel 2000 vince il Premio Pulitzer per meriti giornalistici e nel 2005 pubblica “Il bar delle grandi speranze”,opera autobiografica nella quale il giornalista racconta la sua difficile infanzia all’interno di una famiglia disfunzionale: “The Tender Bar” viene nominato “miglior libro dell’anno” da New York Times, Esquire, Los Angeles Times Book Review, Entertainment Weekly, USA Todaye New York Magazine.
Quindi conclude libro, torneo e carriera agonistica, si mette in contatto con l’autore e senza mezzi termini gli propone una collaborazione per la stesura della propria biografia. Perché anche la storia di Andre Agassi è nota, ma soltanto a pochi, e il tennista ha deciso: è giunto il momento di raccontarla al mondo intero.
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Credits: NYtimes.com |
Agassi ha intùito e vede lontano affidando le sue memorie a Moehringer che – da bravo e talentuoso giornalista qual è – non si fa scrupolo e crea un’opera che sa di capolavoro letterario. Una (auto)biografia che strizza l’occhio al GRA, per com’è messa, e che Moehringer riesce a interpretare al meglio grazie alle indiscutibili analogie che permeano entrambi i vissuti, quello del protagonista e quello del ghostwriter.
Un’opera che sebbene focalizzata di necessità sulla carriera professionale del tennista non allontana il pubblico generalista, grazie all’universalità dei temi trattati, all’estrema sincerità con cui Agassi si racconta a Moehringer e all’empatia che il campione finisce per suscitare nei lettori, quelli americani in primis, affezionati alle specificità tipiche del romanzo di formazione tra cui il tema cardine della caduta e del ritorno a un successo maturo e consapevole.
“Papà dice che se colpisco 2500 palle al giorno, ne colpirò 17.500 alla settimana e quasi un milione in un anno. Crede nella matematica. I numeri, dice, non mentono. Un bambino che colpisce un milione di palle all’anno sarà imbattibile” (pag.37)
“La nostra casa è una bicocca troppo cresciuta costruita negli anni Settanta, stuccata di bianco con bordi scuri intorno agli spigoli screpolati. Ci sono sbarre alle finestre. Il tetto, sotto ai falchi morti, è rivestito di assicelle di legno, molte delle quali allentate o mancanti. (…). La casa è circondata da ogni lato dal deserto, che per me è sinonimo di morte. Punteggiato di arbusti spinosi, rotoli d’erba trasportati dal vento e serpenti a sonagli raggomitolati, il deserto intorno alla nostra casa non sembra avere altra ragione di esistere che quella di offrire alla gente un posto dove scaricare la roba che non gli serve più. Las Vegas – con la sua Strip, i casinò, gli hotel – si staglia in lontananza come un luccicante miraggio. Mio padre va e viene ogni giorno da quel miraggio – è direttore di sala di uno dei casinò – ma rifiuta di trasferirsi più vicino. Siamo venuti qui, in mezzo al nulla, in questa desolazione, perché soltanto qui poteva permettersi una casa con un cortile abbastanza grande per il suo campo da tennis ideale” (pagg. 40-41)(***)
“Nessuno mi ha mai domandato se volessi giocare a tennis e men che mai cosa farne della mia vita. Mia madre (…) dice che papà aveva già deciso molto prima che nascessi che sarei stato un tennista di professione” (pag.41). “Non so quali avrebbero potuto essere le alternative, ma il punto è proprio questo – non lo saprò mai” (pag.129)
“Dicono che mi voglio distinguere. In realtà – come col taglio da moicano – sto cercando di nascondermi. Dicono che cerco di cambiare il tennis. In realtà sto cercando di evitare che il tennis cambi me. Mi definiscono un ribelle, ma non ci tengo a essere un ribelle” (pag.149)
Che dire, Un po’ ci affascina, questa cosa dell’essere svogliati di fronte a un nostro (presunto) talento che poi, non si sa come, riesce a venir fuori lo stesso a dispetto di ogni nostro sforzo per sopprimerlo. Vorremmo esserne capaci anche noi. Vorremmo pure noi esser così bravi in qualcosa, per natura; così bravi da steccare una palla apposta, a sette anni, per il solo piacere di far torto a chi scommette su di noi; così bravi da vincere un torneo juniores travolgendo futuri numeri uno del tennis mondiale senza quasi rendercene conto, così bravi ad attirarci le simpatie di un pubblico sconfinato. Così bravi a ricoprire il ruolo del bambino prodigio, così bravi da poterci permettere il lusso della trasgressione e della maleducazione, tanto nessuno può fare a meno di noi.
Naturalmente questa è la parte della storia che massaggia il nostro ego e ci stimola a quel guilty pleasure, come si dice, che viene dallo sbirciare le vite degli altri, quelli famosi, sperando sotto sotto che un po’ di quella lucetta un giorno brilli anche per noi. La questione che c’è anche dell’altro, quella viene dopo. Ed è una parte fondamentale – e non scontata – del lavoro costruito, mattone dopo mattone, dal doppio Agassi-Moehringer.
Lo scrittore, col pregio di essere riuscito a trasformare in parola scritta tutte le suggestioni ricevute dall’altro, ossia l’atleta che forse più di ogni suo contemporaneo ha meritato, per virtù e carattere, il posto d’onore nella Hall of Fame. Suggestioni senza le quali, malgrado le indiscusse capacità dell’autore, la stesura di “Open” non sarebbe stata possibile.
“Odio il tennis più che mai – ma odio ancora di più me stesso. Mi dico: e allora, a chi importa se odi il tennis? Tutta quella gente là fuori, tutti i milioni di persone che odiano ciò che fanno per vivere, lo fanno comunque. Forse il punto è proprio fare ciò che odi, farlo bene e con allegria. Odi il tennis, quindi. Odialo quanto ti pare, ma devi pur sempre rispettarlo – e rispettare te stesso” (pag.325)
Buona lettura
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*fonte: il Post Libri
**fonte: l’Editore
*** In proposito, nella sconfinata bibliografia su “Open” che ormai si può trovare quasi tutta on line, il saggio di Francesco Longo merita una menzione particolare. Lo trovate su Minima&Moralia