“Mio padre è solo un perito chimico, anche se pensa di saperne più di me e dell’Ottolina messe insieme”,
racconta Carla Pampaloni Scotti, voce narrante e secondogenita dell’ottuagenario Alfredo Pampaloni.
Distinta cinquantenne, professoressa milanese (Chimica alla Statale), combatte quotidianamente contro le feroci caldane della menopausa, contro Tersilli, direttore di facoltà vetusto e misogino che da decenni non fa altro che sottrarle fondi e cercare di affossarle la carriera per puro spirito vendicativo, contro Rogoredo (“Edo”), fratello maggiore sbruffone, becero e cleptomane (residente a Londra, sposato con una donna avida e gretta, due figli gemelli molto biondi, molto british e molto maleducati, gallerista di un certo prestigio grazie alle sovvenzioni paterne), e ovviamente contro il padre, il decrepito, vedovo cùmenda milanese di cui sopra.
Per fortuna c’è un figlio, Massimo, diciotto anni, terribilmente nerd e forse – spesso il dubbio travolge il cuore di mamma – un tantino omosessuale, e (un po’ meno per fortuna) un marito, Gianluigi (detto Gigi), ordinario di Fisica ed expatried a Pasadena per un anno sabbatico. E poi per fortuna davvero c’è la Paola Ottolina, l’amica di una vita, il “bulldog”, come affettuosamente rifersice il Dotòre, (nano da cesso l’altro epiteto più quotato), chimica anche lei, ultracinquantenne pure, in premenopausa anche, zitella e – onestamente – bruttissima.
“D’altronde – continua la professoressa Pampaloni – (mio padre) ha letto un saggio di Paolo Maffei e pensa di saper tutto di astronomia, è socio del Fai e dunque padroneggia l’intera storia dell’arte, e stato abbonato sette anni a ^Selezione^ e perciò è un esperto anche di letteratura. A Solària lo chiamano ^il dotòre^ dal ’67, quando era arrivato in cabriolet, giacca bianca e fularino, e aveva sfoderato il libretto degli assegni per comperare il terreno su cui avrebbe costruito la villa” (pag.25)
Questo è Alfredo Pampaloni,
“che vestito come il suo amico Gunter Sachs – camicia azzurra slacciata fino al terzo bottone, giacca bianca di lino, pantaloni anche loro bianchi, e mocassini scamosciati, senza calze – brandisce una di quelle bottiglie sue, costosissime, di Muller-Thurgau o Traiminer o vattelapesca, acquistata a Milano nell’enoteca di viale Zara. Come fosse a Cortina o Saint Moritz, dedica un brindisi alla valle con i gesti molli e snob del capitano d’industria” (pag.20)
Un latin lover de no’ artri, smargiasso, maleducato, sgradevole negli scherzi e sessista nei modi, fondatore della Pampaloni Spa, azienda leader nel settore caseario (ndt: produzione di formaggini molli spalmabili):
“E non era nemmeno una società per azioni. ^Spa^ l’aveva aggiunto lui nella ragione sociale per darsi delle arie.
– Spa come lo spavento che facevamo alla concorrenza – ama ancora raccontare, mondanamente, il Gunter Sachs della Maggiolina, e secondo lui questo è uno dei suoi miglior scherzi da prete” (pag.22)
Alfredo Pampaloni che nell’estate del 2012 convoca tutta la famiglia nella villa di Solària, Dolomiti inoltrate, per delle misteriose e assai impreviste dichiarazioni. Comincia da qui il racconto di Carla, che tra flashback & forward ci narra cinquant’anni di vita italiana restituendo al nostro ricordo un immortale scampolo di storia contemporanea, quello dei Gloriosi Anni Sessanta nostrani; la grande tradizione industriale del Nord, la cultura intellettuale e universitaria, le storiche firme del giornalismo, finanche l’imperitura industria cinematografica di Cinecittà senza tuttavia mai mancare di spirito critico, costruito attraverso un’obiettività colta e scevra da inutili pietismi che con garbo, eleganza e un pizzico di sarcasmo ne denuncia, di questa Italietta provinciale, i vizi e i difetti tra corruzione pubblica, mazzette e frodi fiscali, nepotismo, raccomandazioni e discriminazione femminile. Uno spettacolo di varietà su cui regna, protagonista indiscusso, lui, e chi altro se non il Dotòre Alfredo Pampaloni.
Spiace dire, non ce ne vogliano i foresti: di “Una commedia italiana” si ammira, prima di tutto, la perfetta constestualizzazione strettamente provinciale. Programmaticamente riferita giusto al principio dell’opera, e per questo degna di essere rispettata:
“Non ho mai capito se in questi casi sia più adatto dire esticazzi o me cojoni. Sono espressioni romanesche, non ho esperienza. Noi siamo di Milano” (pag.14)

Una
Milano affascinante, bellissima nei suoi quartieri periferici, da
Greco alla
Bovisa. La Milano del cabaret, della
Martesana, delle osterie che se non sai dove cercarle è inutile che ti ci provi, dei cinemini d’essai nascosti tra i capannoni dismessi adiacenti la Stazione Centrale; la Milano con le sue architetture d’avanguardia (come le case a fungo del villaggio dei giornalisti alla
Maggiolina), i circoli di quartiere coi bianchini e il campo di bocce, le cascine mangiate dal cemento dei casermoni popolari costruiti per gli operai delle Falk a Sesto San Giovanni.
Onestamente difficile apprezzare l’opera per intero, in tutte le sue sfumature, se digiuni di certe realtà: ma bene così, per una volta abbiamo tra le mani una narrazione di fantasia che non fa della globalizzazione letteraria la propria – facile – mano vincente, specie per quanto riguarda la parte più gialla della trama che si infittisce in un crescendo di mistero, dramma e delitto tipicamente all’italiana tra inconfessati segreti di famiglia, casseforti misteriose, investimenti plurimilionari e, perché farselo mancare, anche un pizzico di mondanità e gossip nostrano, che male non fa mai, famelici come siamo di facile e goliardico pettegolezzo.
Eppure, grazie a questa prorompente italianità di base (verrebbe da dire nonostante, ma ci si sbaglierebbe, perché è proprio per merito del contrasto che la semplicità del messaggio viene sconfessata) “Una commedia italiana” è un’opera che, senza scivolare mai né nel moraleggiante né nel didascalico, riconosce il valore e la necessità di una apertura extraterritoriale e cosmopolita. La competenza della professoressa Pampaloni e dell’Ottolina, nutrita di cospicue esperienze estere (affrontate in parte anche per sfuggire alla misoginia e al nepotismo dei baronati universitari), la Londra del rock progressive, passione ossessivo-compulsiva della povera Paola, la fascinazione di Edo per le arti visive, il desiderio di Max di partire per la Danimarca alla volta delle Olimpiadi della matematica, tutto contribuisce a restituire l’immagine di un nuovo italiano medio che, indipendentemente dal ceto sociale, attraverso la propria esperienza personale e professionale deve avere la forza e il coraggio di emergere seguendo le proprie passioni.
E se la passione viene coltivata fino allo stremo, fino a quando il nostro corpo non reclamerà il riposo eterno, e se non è altro che il sogno di una vita, una produzione cinematografica intramontabile, dal cast stellare: “Calindri, Tognazzi, Vianello, Dorelli, la Valeri, la Valori, Tina Pica” (pag.291) allora questa è un’altra storia, e non ve la raccontiamo. Tanto,
“L’importante è che la morte ci trovi vivi” , e last but not least:
“Abbiamo cinquant’anni, chi ha la forza di odiare davvero qualcuno?” (pag.21)
Soundtrack: Spotify, Skating Away On The Thin Ice Of The New Day, Jethro Tull, WarChild, 1974.
Buona lettura 🙂
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