Ovvero, appunti sparsi per una lettura da geek.
- E’ che con De Carlo è una battaglia persa in partenza: te ne devi fare una ragione, sperando che ti prenda bene al primo colpo. Se no, so’ cavoli.
Dai primi capoversi puoi decidere che te’ deve pijià er trip della lettura veloce e continua: ti pare cosa buona&giusta, visti i titoli, lo spazio temporale ristretto in cui si svolge l’azione, il periodare contrappuntistico che hai intravisto tra gli incipit, la fruizione del testo; tutte quelle cose lì.
Però poi succede che a metà strada il testo rallenta, interrotto da intere sequenze dialogo-dilogo. Così a mano a mano ti accorgi, piccolo brivido e sorriso ebete alla Vispa Teresa, che qualcosa non torna.
E’ che Sei andato troppo veloce. Sicché, clamorosamente, ti sei perso dei pezzi; no peggio, la trama è ancora lì bella strutturata, non è quello il problema. Il problema sta in tutte quelle robe decarliane, sensazioni, ricordi, immagini, blabla, che non hai proprio raccolto.
Solo che hai voglia a tornare indietro adesso, visto che De Carlo è uno di quelli one-way: o te lo leggi bene la prima volta, o via, finito, fumato per sempre, the end e tanti saluti all’effetto sorpresa (sempre che di effetto sorpresa si voglia parlare, su un De Carlo diciamo, ma ne discuteremo più avanti). Così allora, memore della sòla di cui sopra che ti sei beccato, diciamo, con la lettura di Durante, stavolta ti armi di impegno convinto; maniche arrotolate, occhiali e piglio da duro, sfoderi una pazienza da letterato che neanche su un incunabolo del ‘500 e ti metti lì, a conservare le parole, a centellinarle con dovizia, a vivisezionarle, roba che alla Temperance“Bones” je fai un baffo. Lettura lenta, scrupolosa, frazionata, accurata, da filologo incallito e, diciamocelo, pure un po’ geek. Mai avessi scelto strada peggiore. Arrivi ai dialoghi impreparato, in carenza di ossigeno, e quelli ti si rovesciano addosso troppo veloci, tutto d’un fiato, creando quell’effetto-sceneggiatura del “dice / non dice” che ti sfalsa la comprensione del testo e ti fa gridare allo scandalo. Sacrableu! E quindi? E quindi niente.
Il perché di questa digressione/riflessione.
Perché significa porre in qualche modo le premesse per una lettura criticache nel caso di De Carlo, a parer nostro s’intende, non può dirsi tale se non ricondotta all’estrema analisi del testo, del linguaggio e delle modalità di lettura. Perché tanta parte del “meraviglioso” o dell’ “orribile” con cui anche sul web ci si dichiara pro o contro l’ultima fatica decarliana è dovuta, a nostro avviso, proprio alle modalità di fruizione del testo. E’ facile scivolare sul De Carlo, insomma, basta poco perché si sta sempre appesi a un filo – analisi del testo a far da riflesso puro, vivido, evidente, al contenuto.
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Detto questo, arriviamo a un breve appunto sulla presunta “originalità” del testo su cui tanto si dibatte. Il personaggio maschile di ADC difficilmente potrebbe essere “originale” in senso stretto. Questo perché De Carlo dipinge il suo tempo e ciò che, nel bene e nel male, lo rappresenta. E così ci ritroviamo tra le mani il classico quarantenne belloccio all’apparenza inconcludente, svogliato, mal assortito, dimentico delle responsabilità della vita adulta – una vaga aria presuntuoso/arrogante che salta al naso. Dall’altra, tutta la serie di figurette belle in fila, soldatini della modernità: Stefano, lui, il Sicuro, il Mai Indeciso, l’Uomo che Tutto Sa, dopobarba di marca e boxer inamidati. Peccato che sia solo scena, ma fa niente. E, detto tra noi, neppure Claire, e l’armata brancaleone delle “colleghe” comprimarie, ci fanno una bella figura. Lavoro sì, lavoro no, figli si, figli no, matrimonio sì, matrimonio no… (aho’, ‘a Ccchiara, datte ‘na mossa che stamo a fa’ notte) . Ma così è. Sia nel libro, sia ogni mattina in metropolitana.
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Un ultima nota. La Milano di De Carlo. C’è che è sempre bella, anche nella sua bruttezza cementifera. E’ bella nel sole torrido e irrespirabile di agosto, è bella a Novembre sotto la pioggia, è bella quando nevica, è bella, di manzoniana memoria, quando il cielo è blu. E questo De Carlo secondo noi lo sa, se no non ci prenderebbe così tanto impegno nel descriverla. La liquiderebbe in due parole, via, nel cassetto, dimenticata, come tutte le cose non-interessanti. E’ che Milano ti fa fare quello che vuole lei (come De Carlo con la lettura).
Conclusione di questo post inconcludente. L’uomo ondeggia. Di qui, di là; tra paure, improvvise consapevolezze, indecisioni, timori, incertezze, città nuove in cui ricominciare, luoghi del passato da ricordare, da dimenticare, da ritrovare; alla costante ricerca di una chiave di lettura per la realtà che lo circonda (lettura veloce, lenta, frazionata, continua… istintiva, mediata… chi lo sa). D’altra parte, questo esperimento di metatesto l’ha fatto pure Viola Di Grado, no? Con tutte le differenze del caso, ovviamente.
Via, alla fine consentiteci una citazione da classicisti – quel gran furbone di Seneca mica ci era andato tanto lontano, a rifletterci sopra.
Via, alla fine consentiteci una citazione da classicisti – quel gran furbone di Seneca mica ci era andato tanto lontano, a rifletterci sopra.
Solo una cosa mi vien da dire sui libri di Andrea De Carlo, dopo aver letto Giro di vento ho deciso di non leggere più altri suoi libri
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🙂 ciao
effettivamente De Carlo ogni tanto fa questo effetto… ma li hai letti tutti? Giro di vento poi è un po' particolare di suo.
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No, è l'unico che ho letto e trovandolo così banale non mi è venuta voglia di leggerne altri. Probabilmente ho sbagliato a generalizzare tutti i suoi scritti ma…
Diciamo che non mi annovero tra i suoi lettori. So che ha un nutrito seguito non gli mancherò affatto 🙂
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Ciao Antonio, perdonaci per il ritardo, problemi sulla segnalazione dei commenti ai post 🙂
🙂
è questione anche che forse A De Carlo funziona anche a seconda dell'età del lettore. Due di Due, per esempio, è un esempio molto forte di romanzo di formazione.
Leielui, viceversa, secondo noi funziona al meglio se… over 30 🙂
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