“L’estate muore giovane”, di Mirko Sabatino

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“L’estate muore giovane” racconta una storia che mi sta a cuore. Ho avuto notizia della pubblicazione quasi per caso e ciò rafforza in me, ancora una volta, la convinzione che spesso sia il libro a scegliere il proprio lettore e a trovare da solo la strada per raggiungerlo.

La verità è che questo romanzo breve racchiude in poco meno di trecento pagine svelte, e la trattiene in sé senza lasciarsela scappare nemmeno per un istante, tutta la ferocia di quell’estate garganica che conosco bene, segnata dal sole di campagna cattivo e cocente, così lontano dalla frescura della brezza marina, che ha accompagnato per anni i miei pomeriggi di luglio. Un sole polveroso e fragrante di oleandro che ha marchiato, tatuando sulla mia pelle le esperienze di quegli anni, la modalità attraverso cui ancora oggi mi trovo a percepire la stagione estiva, o la sua assenza.

scogliera

“La macchia mediterranea premeva da tutti i lati, e noi ragazzi camminavamo a passo medio e deciso, come viandanti medievali in rotta verso un luogo sacro. Non parlavamo mai durante il tragitto, e dialogavamo, in silenzio, con gli arbusti e la vegetazione che si sparpagliava disordinata tutt’intorno. Mimmo spezzò un rametto da una pianta di rosmarino e ne sniffò l’esistenza; me lo passò e io feci lo stesso. (…) Poi gli arbusti infoltivano per un ultimo tratto e all’improvviso si ritraevano, e solo i nostri passi proseguivano fino al limitare della scogliera: e ogni volta era una vertigine nuova sbilanciare la testa in avanti e affacciarsi sul blu profondo del mare” (pagg.104-105)

Mirko Sabatino, originario di Foggia, classe 1978, parla di quel che sa. Parla di tre ragazzini cresciuti tra i vicoli di un paese incastrato tra le colline e la scogliera, un microcosmo universale che nemmeno la modernità del boom economico può scalfire nelle sue dinamiche essenziali. Racconta di riti antichi, tempi dilatati, del colore della terra e del grano, della polvere dentro i sandali e le giornate lunghe da tirar sera, quando ancora non si parlava di videogames e la televisione si poteva guardare solo al bar o a casa del sindaco e del farmacista.

Ma parla anche di molto altro. Di un mondo arcaico all’interno del quale ogni protagonista ha l’obbligo di muoversi seguendo percorsi prestabiliti e dettati dalla consuetudine e dalla tradizione, ogni deviazione dai quali viene considerata devianza, insubordinazione, finanche scandalo e onta; e all’interno del quale la minima, involontaria distrazione può rappresentare il drammatico punto di inizio di una serie di eventi dalle conseguenze inconvertibili.

panni

“La vita è ciò che ti capita tra la nascita e la morte. Tu scegli poco. Le persone e gli avvenimenti ti si impigliano addosso, ciechi, tenaci, e durante il percorso qualcosa resta, qualcosa si aggiunge, molto si perde, poi tutto” (pag.27).                                                                                                              Noi dimentichiamo le persone, completamente, spietatamente, dopo averle sentite per telefono, o incontrate per una visita o un’uscita, o averci pensato. Siamo con le persone solo quando ci troviamo con loro nella stessa stanza, o ci pensiamo. Poi scompaiono, anche quelle che amiamo di più, e nel tempo lungo dell’assenza non esistono” (pag.102-103)

Una società ancora prettamente patriarcale dalla quale il maschio di famiglia viene esautorato – per mano della collettività stessa o della Natura – nel momento stesso in cui pare ribellarsi alle regole comuni e non scritte che, pur nella loro paradossalità, garantiscono il mantenimento dello status quo all’interno del gruppo. Una società che richiede ai figli di crescere alla svelta e in autonomia, malgrado la presenza forte di un elemento femminile, che lungi dall’essere in grado di gestire al meglio la transizione dall’infanzia all’età adulta della propria progenie ondeggia, indeciso, a metà strada tra il ruolo defilato e sottomesso che però non si addice più alla modernità dei tempi e l’urgenza di un rinnovamento di condotta che tuttavia porterebbe con sé un affrancamento considerato inopportuno.

Alla base sta la riflessione di Sabatino sull’imposizione fiduciosa e ingenua di schemi precostituiti, proposti confidando acriticamente in una tradizione che, sempre apparsa come salvifica nei confronti del mondo esterno, si trova invece a determinare la rovina di quel costrutto di base rappresentato, allora come oggi, dal nucleo famigliare.

E’ un libro duro e dolente, ma vero e concreto perché non si attarda mai dove non dovrebbe e concede pochissimo spazio alla spettacolarizzazione di un’epoca e di un dolore che ben poco ha di nostalgicamente invidiabile. Il valore del testo, indipendentemente dalle sensazioni individuali, sta proprio nella forma mai scontata, mai banale, attraverso cui l’autore riesce a consegnare al lettore una orribile favola moderna che affonda sì le radici nella terra grassa di un meridione antico e bigotto, ma che assume ben presto una validità e una contemporaneità che travalica qualsiasi collocazione geografica e temporale.

peschici

“Una piazza, una chiesa, una drogheria, una macelleria, un bar, un forno, una scuola elementare, una scuola media, un’edicola, un ambulatorio medico, un ambulatorio veterinario, un negozio di vestiti e calzature a buon mercato, le case bianche e basse. E i vicoli. Dove le madri nei pomeriggi sonnolenti richiamavano i figli con voci lente e cantilenanti, e le vecchie di sera se ne stavano sedute sulle sedie, sulla soglia delle loro case, a sventolarsi pigramente col ventaglio, mentre i loro mariti passeggiavano con le mani incrociate dietro la schiena, ostinatamente, obsoletamente eleganti nel loro unico vestito, le facce serie e dure incise dal sole” (pag.12-13)

Si parla spesso di New Nature Writing declinato all’italiana. Ho la sensazione che “L’estate muore giovane” potrebbe esserne un buon esempio, perché mi pare che sia uno dei pochi testi che al momento comprende tanta parte di quello che si deve considerare  necessario quando si parla di NNW:

  • l’dea di una Natura sostanzialmente estranea, insensibile alle questioni umane, che tenta in ogni modo di riappropriarsi dei propri spazi, spesso utilizzando la violenza degli elementi che la compongono (o la forza della malattia, della contaminazione);
  • il topos del viaggio del protagonista che attraversa l’elemento naturale, estremamente contestualizzato, per giungere tuttavia non a una destinazione precisa ma a un non-luogo che crea percezioni alterate del sé e della realtà circostante;
  • l’archetipo dell’isola, dell’acqua (anche benedetta…) e di tutto quanto in essa nasce, cresce, vive e muore;
  • la presenza di un forte misticismo religioso (e qui non si può dire di più);
  • la riflessione sul linguaggio e sull’incomunicabilità verbale, sostituita da un sistema di relazioni che oltrepassa la razionalità e affonda nel mistero.

Buona lettura 🙂

In calce, un messaggio per l’autore – e per chi sa di cosa parlo. Ho avuto la fortuna di passarle tutte a nuoto, quelle insenature di cui parla Mirko Sabatino. Con le infradito chiuse dentro un sacchetto di plastica che legavo sulla schiena, ancorato alle spalline del costume. C’erano pesci piccolissimi che ci solleticavano le gambe abbronzate, c’erano le onde corte di scoglio, il rumore della risacca e una volta soltanto, di notte, il canto dei delfini. Quando non esistevano i barconi delle gite organizzate, quando ai ristoranti sui trabucchi ci potevi arrivare solo a piedi e mangiavi quel che ti veniva servito senza tanti complimenti, all’ora in cui voleva il padrone, non quella a cui volevi tu, e le mietitrebbia riposavano ancora in fondo al mare, adagiate sulla sabbia.

Photo credits: ADC, #nofilter.

 

2 pensieri su ““L’estate muore giovane”, di Mirko Sabatino

  1. Immagino tu abbia definito una storia di trecento pagine (non conosco l’interlinea) breve perché ti è davvero piaciuta. Il mare è un ambiente che non mi appartiene ma metto volentieri nella mia lista di future letture queste riflessioni sull’esistenza (pp. 102-103), che sono un po’ anche mie visto che l’autore è solo un po’ più vecchio di me.

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    • ll formato agile aiuta (28 righe per pagina) ma è la formula a flashback che lo rende “page-turner”. Si sa fin da subito che qualcosa è accaduto, ma ovviamente bisogna arrivarci e l’autore secondo me è bravo nello sviluppare diverse sottotrame che il lettore è obbligato a seguire in maniera attiva. Tutta la comunità in qualche modo è responsabile dei fatti accaduti (una delle tesi esposte è appunto quella secondo cui nessuno è innocente e viceversa chi compie il “Male” per un verso non è detto che lo compia per un altro) ma sta al lettore individuare la strada per arrivare alla soluzione dell’enigma.

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