“Senza ricettari, senza indici puntati, senza chiamate alle armi, (…) desidera prima di tutto cogliere un sentimento della realtà attraverso la qualità letteraria. Nessun atteggiamento senatoriale, dunque, nessun millenarismo vittimistico o titanico, semmai la disponibilità a ragionare intorno a esperienze e a stati d’animo incerti e sfuggenti”.
“Giocavamo nell’hinterland milanese, su terreni ritagliati tra capannoni, parcheggi di supermercati, fabbriche, ciminiere novecentesche, scritte rosse sui muri soppiantate da simboli neri, campanili di chiese in cemento armato edificate negli anni Sessanta, cascine e quanto restava dell’esperienza millenaria di irrigazione dei campi tramandata dai monaci cistercensi del Diciassettesimo secolo” (p5)
A dominare l’Italia di quei decenni, una serie di refrain che ne diventano la forma sostanziale. Dalle scritte sui muri alle sigle della lotta politica di destra e sinistra, agli appellativi, al linguaggio giornalistico:
“Freda & Ventura: gli unici cognomi ripetuti e assemblati da generazioni di giornalisti, come se i due fossero un’azienda, un logo, con l’ingombrante ‘&’ che diminuiva la portata delle loro azioni, relegandole all’immaginario, al flusso informativo (…). Giornalisti già uniformati al nuovo ordine, a Dolce & Gabbana” (p14-15)
dalla televisione alle inevitabili metafore calcistiche:
“E c’era quella parola delle previsioni meteo così italiana, il versante, sì, il versante tirrenico e il versante adriatico, il medio versante tirrenico e il medio versante adriatico” (p16)
“I primi a essere colonizzati erano proprio i giornalisti, invasi da un linguaggio pigro e assuefatto alla parte peggiore dell’umano: ‘il vaglio degli inquirenti’, il ‘disegno eversivo che auspica la svolta autoritaria’ (…)” (p24)
fino alle monolitiche convinzioni di genitori ancora ingenuamente fedeli a un modello di ascesa sociale che di lì a poco avrebbe mostrato la propria inutilità:
“(…) ti dicevano di studiare, grazie ai buoni voti l’esistenza sarebbe stata migliore, avresti avuto un’ottima posizione sociale – ottima rispetto al punto di partenza della tua famiglia – e lavorato per tutta la vita in un’azienda, con possibilità di avanzamento, di carriera” (p18)
Falco offre al lettore un campionario unico di rimandi e citazioni, tiene vivo il ricordo di un tempo che fu e lo concretizza ad uso e consumo di chi non c’era. Non è una memoria degli oggetti (si vince facile con l’interior design, un po’ meno se occorre metterci la parola) ma un percorso maieutico, un recuperare dalla memoria quel che, in maniera inconsapevole, è stato deposto nella mente del telespettatore e che altrettanto inconsciamente è stato da esso recepito. Lo strumento con cui Giorgio Falco instaura un legame, va detto empatico e d’elite, con chi, quella realtà, l’ha vissuta in prima persona.
“Ero supino, dinnanzi alle medesime dinamiche – che ignoravo fossero lavorative e produttive, ancor prima che umane – di pausa momentanea dall’aggressività, dalla competizione, e invece l’apparente sospensione provvisoria, la distrazione di massa, l’evasione da se stessi, l’ideologia del ritornello erano la celebrazione di un fantasma minaccioso” (p11)
“E invece niente, avevamo continuato la vita di sempre, l’unica esperienza plausibile era stata la sconfitta silenziosa, esseri umani ridotti in servitù pur di non morire, eravamo terrorizzati, ci ingozzavamo di merendine e nuovi prodotti, avremmo potuto essere noi, i prossimi a saltare in aria. Il tritolo era l’inchiostro della nostra biografia” (p21)
“Tutto avveniva in modo morbido, come la musica da aeroporto, da supermercato, in sottofondo” (p56)