“La lingua del tempo”, di Eva Hoffman (trad. Maria Baiocchi)

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“Gli aggettivi non varcano i continenti. (…) Non si può trasportare il significato dell’umanità tutto intero da una cultura all’altra, né più né meno di quanto si può traslitterare un testo.”

Questo invece riesce a fare Eva Hoffman con “Lost in translation: Life in a new language” (1989), laborioso, denso e bellissimo memoir: raccontare non tanto la propria vita di esule ebrea polacca quanto, attraverso episodi anche minimi o (solo) all’apparenza insignificanti, le difficoltà dell’integrazione – quelle che passano dall'(in)comprensione linguistica. Prima di raccoglierci su queste pagine, però, occorre una piccola digressione biografica.

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Cracovia, 1959. I coniugi Boris e Maria Wydra, sopravvissuti all’olocausto (prima in un bunker di montagna e poi nascosti grazie all’aiuto di alcuni amici), sopraffatti dalla nuova, dilagante ondata di antisemitismo, dalle ristrettezze economiche e dai disordini politici decidono di emigrare nella British Columbia insieme alle due figlie: la tredicenne Ewa, promettente pianista, e la sorella Alina, di qualche anno più giovane. Eva Hoffman (dal cognome del marito, un fellow student con cui rimane sposata dal 1971 al 1976), è brillante studentessa premiata con numerosi riconoscimenti e borse di studio. Si laurea alla Yale School of Music e ad Harward; diviene insegnante di letteratura inglese e di creative writing presso diverse università, poi editor e writer per il The New York Times e ancora autrice di testi per la BBC Radio. Vincitrice di numerosi Award per i suoi lavori e per l’impegno nel mondo delle arti e della cultura, da 30 anni vive a Londra.

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“Per tradurre una lingua o un testo senza alterarne il significato bisognerebbe trasportare anche il pubblico.”

Le questioni che la Hoffman solleva sono parecchie e sarebbe ingenuo pensare di poter raccogliere qui tutte le suggestioni che “La lingua del tempo” porta con sé. Il punto più importante a mio avviso, il cardine intorno a quale si sviluppa l’impianto narrativo del testo (e per questo lo cito qui) è il privilegio dell’intelligenza e del talento. Quell’immunità che fa di Ewa e della sorella (costrette perfino a cambiare nome, nell’ottica di una più rapida inglesizzazione – “Il mio non è stato un problema, Ewa in inglese diventa Eva, che è la stessa cosa, ma a mia sorella Alina è toccato Elaine”) due corpi in perenne stato di estraneità: favorite e incoraggiate dalla comunità scolastica e dall’ambiente scientifico e letterario, lontane dai traumi del bullismo e dell’esclusione (ad esempio quella economica, grazie alle sovvenzioni ricevute per merito), tuttavia in equilibrio perpetuo e precario tra il riconoscimento legittimo di una capacità e lo sguardo, un poco meno legittimo, dell’“esotico ed erotico”. Sarebbe però un errore enorme – benché certe corrispondenze siano innegabilmente evidenti – leggere le vicende della Hoffman, figlie di un ben preciso momento americano, con gli occhi della contemporaneità. Hoffman per prima ci mette in guardia da questo pericolo (“Poiché ho imparato sulla mia pelle la relatività dei significati culturali, non posso mai assumere una serie di significati come definitiva.”), fornendoci nel contempo la chiave di lettura esatta, quella della contestualizzazione, attraverso cui recuperare il senso di queste pagine che occorre trattenersi dal piegare a proprio favore, né in un verso né in quello opposto, proprio perché “La normalità non deriva da una norma convenzionale ma da questa conoscenza delle proporzioni.”

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“La lingua del tempo” è, si diceva, un memoir – strutturato in tre parti. Uno dei pregi dell’autrice è la capacità di modulare il linguaggio, che porta con sé anche le tecniche dell’osservare e l’interpretazione del reale, in base ai differenti archi temporali. Senza mai risultare stucchevole, Hoffman affida alla prima sezione, “Il paradiso”, lo sguardo dell’infanzia a Cracovia che illumina il paesaggio di luce violenta e passionale. Questo modo di raccontare la prima età tuttavia non limita né manipola l’osservazione, che rimane sempre giusta nei riguardi di una realtà sicuramente favorita all’interno della quale, tuttavia, quel che si potrebbe definire “privilegio” non è altro che un traballante predellino sospeso sulla miseria per non più di qualche centimetro.

“Abbiamo avuto il permesso di portare con noi il pianoforte, anche se fa parte della categoria di oggetti che andrebbero lasciati al patrimonio nazionale.”

[Mi appunto qui un’ulteriore suggestione per questa prima sezione: “Andiamo all’opera, a teatro e al cinema – tutte cose accessibili a poco prezzo – e spesso andiamo a trovare gli amici.” – il punto della cultura diffusa che permea la Polonia rurale e urbana, senza distinzione alcuna. Quell’“a poco prezzo” che in specie oggi, nel post covid apocalittico dello spettacolo in ginocchio, dovrebbe spingerci a molte e non scontate riflessioni.]

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“Vancouver non sarà mai per me il luogo più amato, perché è stato qui che sono cascata fuori dalla rete del significato nella leggerezza del caos.”

Nella seconda parte, ”L’esilio”, a far da padrone è il sentimento dello sradicamento che è linguistico – proprio del non capire – e di conseguenza culturale e valoriale. Predomina il racconto di episodi adolescenziali tra vita scolastica e prime amicizie, in una tensione continua fra desiderio di intimità e condivisione e, all’inverso, la spinta inevitabile all’isolamento. Il punto di questa seconda parte è evidenziare la mancanza degli strumenti di confronto, comunicazione, interpretazione del reale. Perché la fondatezza dell’infanzia spartita (i programmi in tv, il cinema, la storia americana, le tradizioni, la politica) crea il substrato sul quale è possibile ancorare il ponte dei legami extrafamiliari – possibilità fuori discussione per l’immigrato.

“A parte le infinite varietà di articoli di vestiario, macchine e piscine, non ho idea dei beni che questo continente è in grado di offrire. Non so che cosa si può amare qui, che cosa si può assorbire fino a considerarlo intimamente proprio. In seguito, quando si romperanno gli argini dell’invidia, la mia gelosia andrà soprattutto a quelli che, in America, hanno avuto un senso di appartenenza al luogo.”

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Con la terza parte, “Il nuovo mondo”, il racconto di episodi e aneddoti specifici si restringe attraverso una rarefazione discreta che lascia spazio, mediante accenni a eventi di svolta nella vita personale dell’autrice utilizzati come ganci narrativi, a una sorta di esposizione teorica che assomiglia da una parte alla summa delle riflessioni dell’autrice, ormai adulta e affermata, (riflessioni che per la prima volta, sempre secondo il principio dell’adattare linguaggio e svolgimento tematico al tempo narrato, si direbbero complete, strutturate) dall’altra a manifesto di un certo modo – forse l’unico possibile – di intendere il nodo dell’emigrante, tra assimilazione e conservazione del proprio nucleo identitario.

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L’aspetto più fortemente analizzato, sul quale l’acuto spirito di osservazione della Hoffman si infrange con violenza di tempesta rivelando la passione viscerale (tutta europea!) per l’approccio maieutico e l’afflizione che deriva dall’esperienza familiare, è quello, appunto, dell’identità. “La lingua del tempo” in questo senso è, sostanzialmente, un trattato sull’identità individuale che riconosce nell’ambiente circostante una delle variabili fondamentali – forse l’unica – capace di formare l’individuo. In questo sistema-identità si esplica la dicotomia (ricordiamo, siamo a cavallo degli anni ’70) tra lo sguardo europeo, per il quale “una personalità è una cosa che ci si limita ad avere”, e quello profondamente americano, all’interno del quale i vari soggetti “si vedono come i pellegrini di un cammino interiore, eroi ed eroine di un dramma psichico”.

“La lingua del tempo” è, per impostazione consapevole, un memoir lontano dall’intento didascalico tipico di certe narrazioni caduta-e-resurrezione a cui ci ha abituati la retorica d’oltreoceano; ciononostante, non nego che per certi versi mi piacerebbe concludere questa riflessione con lo spoiler del sì, l’autrice ce l’ha fatta, missione compiuta, integrazione completa, identità personale conservata. Ancora una volta però è la stessa Hoffman a prenderci per i capelli:

“Forse perché sono stata bombardata da tanti cambiamenti, ho bisogno di distinguere con precisione fra veri arricchimenti della conoscenza e pericolosi viaggi all’avanscoperta. Ho paura di arrischiarmi oltre le mie possibilità, ho paura delle false trasformazioni. Quello che conta per me in questo momento non è quanto riesco a uscire da me stessa, ma quanto riesco ancora ad assorbire veramente.”

Ancora:

“Io a volte mi sento tradita da questa miscela di rigide convinzioni e trasformismo, perché rende i miei compagni sfuggenti, avvolti come sono nella nebulosa delle ideologie e delle dichiarazioni di principio; mi riesce difficile distinguere fra mode e fedi sincere, le convinzioni appassionate dai dogmi di comodo. (…) Paradossalmente uno degli indizi della mia non completa assimilazione è la nostalgia residua – che tanti miei amici trovano francamente sconveniente, come una confessione di vergognosa debolezza – per qualcosa di più stabile, per un radicamento meno faticoso, una patria.”

“Ho la disgrazia di vedere la griglia delle persuasioni generali stampata sopra ogni singola personalità, di vedere la dipendenza dall’ideologia collettiva laddove ci dovrebbe essere solo il libero gioco della soggettività.”

E infine:

“Nella mia vita pubblica, di gruppo, finirò probabilmente per trovarmi sempre nelle fessure fra culture e subculture, fra gli scenari delle fedi politiche e i credo estetici. Non è poi il peggiore dei posti: ti permette di guardare il mondo da una prospettiva diversa.”

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Note all’edizione. “Lost in translation: Life in a new language” appare per la prima volta nel 1989. Viene pubblicato in Italia nel 1996 da Donzelli col titolo “Come si dice”. Ora viene riproposto dalla casa editrice Il Margine (da poco parte di Edizioni Centro Studi Erickson), sempre nella traduzione – rivista – di Maria Baiocchi. Ringrazio Il Margine per questo invio: “La lingua del tempo” è un libro del cuore che senza l’aiuto di cari amici non avrei mai scoperto: sarebbe stato per me non solo un gran peccato ma anche una vera mancanza.

“Quelli che non capiscono il passato possono essere condannati a ripeterlo, ma quelli che non lo ripetono mai sono condannati a non capirlo.”

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